martedì 30 giugno 2009

7Morti x7Sorelle




Dedicato alla morte di Enrico Mattei avvenuta il 27 ottobre 1962.

Nel 1995 -- a distanza di 33 anni- la procura di Pavia ha riaperto il caso ed ha concluso che a provocare la morte di Mattei, del suo pilota e di un giornalista americano, è stato un sabotaggio dell'aereo privato che li stava riportando a Milano.

La puntata si è aperta con l'intervista a Donato Firrao, professore ordinario di ingegneria al Politecnico di Torino e consulente della procura di Pavia nella indagine sulla morte di Enrico Mattei. Il professore ha affermato che a provocare la perdita di controllo dell'aereo è stata una BOMBA SCOPPIATA A BORDO.

"L'ACCIAIO INOSSIDABILE E L'ORO, SE SOTTOPOSTI AD ESPLOSIONE, DANNO DEI SEGNI MICROSTRUTTURALI INEQUIVOCABILI CHE POSSONO ESSERE RILEVATI MEDIANTE INDAGINE METALLOGRAFICA".

Si è arrivati a questa conclusione analizzando un frammento dell'anello di Mattei, uno strumento che si chiama indicatore triplo (fissato con della viti di acciaio inossidabile che era rimasto come souvenir sulla scrivania di un segretario dell'ENI) e alcuni frammenti metallici prelevati dai cadaveri. Con l'analisi al microscopio è risultato che nei frammenti erano presenti delle particolarità microstrutturali che prendono il nome tecnico di microgeminati meccanici...

l'esplosione della bomba dell'aereo che trasportava Mattei non era a tempo o a gradiente barico, ma connessa con l'apertura del carrello...
"150 grammi di tritolo piazzati molto probabilmente dietro il cruscotto dell'aereo; l'ipotesi ragionevole è che azionando il comando di apertura del carrello si sia anche azionato l'innesco della bomba."
Ecco perché é precipitato in fase di atterraggio, un modo ancora più subdolo per eliminare i sospetti di un'esplosione in volo.
L'errore umano in fase di atterraggio è più giustificabile di un'esplosione in volo...

Duque dopo più di 40 anni abbiamo avuto risposte certe sul "come" è avvenuto l'assassinio, ma nulla sui mandanti e sugli esecutori materiali.
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Dedicato alla morte di Enrico Mattei avvenuta il 27 ottobre 1962.

Nel 1995 -- a distanza di 33 anni- la procura di Pavia ha riaperto il caso ed ha concluso che a provocare la morte di Mattei, del suo pilota e di un giornalista americano, è stato un sabotaggio dell'aereo privato che li stava riportando a Milano.

La puntata si è aperta con l'intervista a Donato Firrao, professore ordinario di ingegneria al Politecnico di Torino e consulente della procura di Pavia nella indagine sulla morte di Enrico Mattei. Il professore ha affermato che a provocare la perdita di controllo dell'aereo è stata una BOMBA SCOPPIATA A BORDO.

"L'ACCIAIO INOSSIDABILE E L'ORO, SE SOTTOPOSTI AD ESPLOSIONE, DANNO DEI SEGNI MICROSTRUTTURALI INEQUIVOCABILI CHE POSSONO ESSERE RILEVATI MEDIANTE INDAGINE METALLOGRAFICA".

Si è arrivati a questa conclusione analizzando un frammento dell'anello di Mattei, uno strumento che si chiama indicatore triplo (fissato con della viti di acciaio inossidabile che era rimasto come souvenir sulla scrivania di un segretario dell'ENI) e alcuni frammenti metallici prelevati dai cadaveri. Con l'analisi al microscopio è risultato che nei frammenti erano presenti delle particolarità microstrutturali che prendono il nome tecnico di microgeminati meccanici...

l'esplosione della bomba dell'aereo che trasportava Mattei non era a tempo o a gradiente barico, ma connessa con l'apertura del carrello...
"150 grammi di tritolo piazzati molto probabilmente dietro il cruscotto dell'aereo; l'ipotesi ragionevole è che azionando il comando di apertura del carrello si sia anche azionato l'innesco della bomba."
Ecco perché é precipitato in fase di atterraggio, un modo ancora più subdolo per eliminare i sospetti di un'esplosione in volo.
L'errore umano in fase di atterraggio è più giustificabile di un'esplosione in volo...

Duque dopo più di 40 anni abbiamo avuto risposte certe sul "come" è avvenuto l'assassinio, ma nulla sui mandanti e sugli esecutori materiali.

Terra Santa: i soprusi israeliani continuano, i silenzi dei media italiani continuano


Di Paolo M. Alfieri

Sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza, Israele non esita a far ricorso in maniera «endemica», nei confronti dei palestinesi, a «discriminazioni, impunità e manipolazioni delle questioni relative alla sicurezza». L'accusa è contenuta nell'ultimo rapporto annuale sui diritti umani di B'Tselem, il Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei Territori occupati. Venti pagine divise in tre sezioni - responsabilità, sicurezza ed uguaglianza - ricche di dati e storie che delineano un contesto di abusi e prevaricazioni messe in atto da Israele e dalle sue forze di sicurezza ai danni di tre milioni di palestinesi. Il tutto «giustificato» da politiche governative che sfruttano la paura per «creare un pericoloso assegno in bianco per le forze di sicurezza». «Israele - si legge nel rapporto - deve proteggere i suoi cittadini, ma non deve usare la sicurezza come una parola magica con la quale giustificare ogni violazione dei diritti umani».

Gli unici miglioramenti rispetto al 2007 riguardano la diminuzione delle vittime in Cisgiordania, la riduzione delle «detenzioni amministrative» (quelle decise senza incriminazione formale, passate da 813 a 546) e il cessate il fuoco di sei mesi nella Striscia di Gaza e nel Sud di Israele. Per tutti gli altri aspetti, secondo B'Tselem, «la situazione rimane difficile se non addirittura in peggioramento». Ad esempio il numero dei morti nella Striscia di Gaza, cresciuto drammaticamente (dai 300 decessi del 2007 si sono raggiunti i 413 del 2008, e tra le vittime ben 158 erano civili). Viceversa gli israeliani deceduti a causa degli oltre duemila razzi lanciati dalla Striscia di Gaza sono stati cinque, e 462 i feriti.

Nella Cisgiordania si registra un incremento delle violenze da parte dei coloni, nonché una netta espansione degli insediamenti israeliani. In aumento anche il numero dei minorenni palestinesi uccisi (20 per cento sul totale delle vittime). B'Tselem fa poi notare che tra il 2000 e il 2008 sono stati 2.200 i civili uccisi dalle forze israeliane nei Territori occupati, ma sono solo 287 le inchieste che in questi anni sono state aperte. Inchieste che sempre meno spesso si concludono con qualche forma di risarcimento. Per Israele, inoltre, nei Territori è in corso un «conflitto armato», definizione spesso «utile» a evitare l'individuazione di eventuali colpe e responsabilità.

Ampio spazio è dato poi nel rapporto agli effetti deleteri per la popolazione palestinese causati dal blocco della Striscia di Gaza e dalla costruzione della barriera di separazione: entrambi stanno provocando gravi sofferenze ai civili. Nella Striscia di Gaza, inoltre, la disoccupazione ha ormai toccato il 50 per cento, e il 79 per cento delle famiglie vive sotto la soglia di povertà. Senza contare la penuria di elettricità e acqua potabile (sono 228 mila le persone che non vi hanno accesso in Cisgiordania), con gravi conseguenze anche sulla salute. A tutto questo si aggiungano le restrizioni nei movimenti, con l'installazione di decine di check-point (18 nella sola Hebron), e il divieto assoluto di transito per i palestinesi lungo 137 chilometri di strade.

Fonte: Terrasanta



Galleria fotografica del sito di B'Tselem (Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei Territori occupati):
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Di Paolo M. Alfieri

Sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza, Israele non esita a far ricorso in maniera «endemica», nei confronti dei palestinesi, a «discriminazioni, impunità e manipolazioni delle questioni relative alla sicurezza». L'accusa è contenuta nell'ultimo rapporto annuale sui diritti umani di B'Tselem, il Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei Territori occupati. Venti pagine divise in tre sezioni - responsabilità, sicurezza ed uguaglianza - ricche di dati e storie che delineano un contesto di abusi e prevaricazioni messe in atto da Israele e dalle sue forze di sicurezza ai danni di tre milioni di palestinesi. Il tutto «giustificato» da politiche governative che sfruttano la paura per «creare un pericoloso assegno in bianco per le forze di sicurezza». «Israele - si legge nel rapporto - deve proteggere i suoi cittadini, ma non deve usare la sicurezza come una parola magica con la quale giustificare ogni violazione dei diritti umani».

Gli unici miglioramenti rispetto al 2007 riguardano la diminuzione delle vittime in Cisgiordania, la riduzione delle «detenzioni amministrative» (quelle decise senza incriminazione formale, passate da 813 a 546) e il cessate il fuoco di sei mesi nella Striscia di Gaza e nel Sud di Israele. Per tutti gli altri aspetti, secondo B'Tselem, «la situazione rimane difficile se non addirittura in peggioramento». Ad esempio il numero dei morti nella Striscia di Gaza, cresciuto drammaticamente (dai 300 decessi del 2007 si sono raggiunti i 413 del 2008, e tra le vittime ben 158 erano civili). Viceversa gli israeliani deceduti a causa degli oltre duemila razzi lanciati dalla Striscia di Gaza sono stati cinque, e 462 i feriti.

Nella Cisgiordania si registra un incremento delle violenze da parte dei coloni, nonché una netta espansione degli insediamenti israeliani. In aumento anche il numero dei minorenni palestinesi uccisi (20 per cento sul totale delle vittime). B'Tselem fa poi notare che tra il 2000 e il 2008 sono stati 2.200 i civili uccisi dalle forze israeliane nei Territori occupati, ma sono solo 287 le inchieste che in questi anni sono state aperte. Inchieste che sempre meno spesso si concludono con qualche forma di risarcimento. Per Israele, inoltre, nei Territori è in corso un «conflitto armato», definizione spesso «utile» a evitare l'individuazione di eventuali colpe e responsabilità.

Ampio spazio è dato poi nel rapporto agli effetti deleteri per la popolazione palestinese causati dal blocco della Striscia di Gaza e dalla costruzione della barriera di separazione: entrambi stanno provocando gravi sofferenze ai civili. Nella Striscia di Gaza, inoltre, la disoccupazione ha ormai toccato il 50 per cento, e il 79 per cento delle famiglie vive sotto la soglia di povertà. Senza contare la penuria di elettricità e acqua potabile (sono 228 mila le persone che non vi hanno accesso in Cisgiordania), con gravi conseguenze anche sulla salute. A tutto questo si aggiungano le restrizioni nei movimenti, con l'installazione di decine di check-point (18 nella sola Hebron), e il divieto assoluto di transito per i palestinesi lungo 137 chilometri di strade.

Fonte: Terrasanta



Galleria fotografica del sito di B'Tselem (Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei Territori occupati):
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Il Diritto all’oblio esteso a Internet


Il 23 giugno il DDL Lussana è passato all’esame della II Commissione Giustizia. La proposta di legge prevede nuove disposizioni in materia della tutela della privacy su Internet, in particolare sul cosiddetto "Diritto all’oblio".


I politici ci hanno già provato con
l’emendamento D’Alia e con la legge Carlucci. Ora ci riprovano con un nuovo emendamento: diritto all’oblio su Internet. La proposta è stata presentata il 20 maggio scorso, ma soltanto alcuni giorni fa il testo è passato all’esame della II Commissione Giustizia. Il politico di turno a cui spetta difendere nuovamente la Casta è stavolta Carolina Lussana, eletta tra le file della Lega Nord. Sua infatti la proposta che è passata al vaglio della commissione, di cui la Lussana è la vicepresidente.

Il Diritto all’oblio è stato recepito da tempo dalla legislazione italiana. In pratica la legge prevede che un individuo che abbia commesso un reato, una volta che l’opinione pubblica ne sia stata correttamente informata e il reo abbia scontato la pena, al fine di favorirne il reinserimento nella società, si obbligano gli organi di stampa o chiunque voglia tentare di rievocarne i reati commessi a non renderli più noti.

La baldanzosa leghista ha presentato
un DDL diviso in più articoli.
L’art. 1 recita così: Salvo che risulti il consenso scritto dell’interessato, non possono essere diffusi o mantenuti immagini e dati, anche giudiziari, che consentono, direttamente o indirettamente, l’identificazione della persona già indagata o imputata nell’ambito di un processo penale, sulle pagine internet liberamente accessibili dagli utenti o attraverso i motori di ricerca esterni al sito in cui tali immagini o dati sono contenuti. E in base alla gravità dei delitti commessi, si decide per quanto tempo la fedina penale del reo può essere consultabile su Internet.

L’art. 2 stabilisce le sanzioni in caso di inottemperanza alla legge. Se dalla denuncia dell’interessato trascorrono tre mesi senza che i dati personali riguardanti vecchi reati vengano rimossi, il Garante della Privacy può applicare nei confronti dei soggetti responsabili un’ammenda che va dai 5.000 ai 100.000 euro e disporre la rimozione dei dati personali trattati illecitamente.

L’art. 3 è una sorta di "contentino", in quanto stabilisce una serie di tutele in cui tale legge non si può applicare, ovvero in caso di condanna all’ergastolo, di reato di terrorismo, di genocidio o di strage. Inoltre il DDL non si applica al trattamento dei dati per ragioni di giustizia da parte degli organi giudiziari, del CSM e del Ministero della Giustizia o per ragioni di ricostruzione storica e giornalistica.

L’art. 4 riconosce all’interessato il diritto al risarcimento del danno.

L’art. 5 compie delle modifiche sostanziali al decreto legislativo n. 196 del 30 giugno 2003, applicando la stringa "su Internet" alle disposizioni vigenti in materia di tutela di diritto all’oblio.



Premesso che politici ovviamente non interessa un fico secco della tutela dei cittadini, il DDL è semplicemente l’ennesimo provvedimento governativo volto a limitare sempre più la libertà su Internet. Una sorta di lottizzazione che, dopo aver intaccato televisione e giornali, mira anche ad Internet. Anche perchè la semplice minaccia pecuniaria di 100.000 euro indurrà automaticamente i provider ad oscurare quelle pagine che riportano dei dati sensibili.

Ci chiediamo ora: è giusto che un diritto sacrosanto come quello all’oblio venga strumentalizzato per fini politici? Perchè poi mirare direttamente alla Rete? Il forte rischio è che i reati commessi da politici ed industriali vengano per legge cancellati e dunque dimenticati dall’opinione pubblica.


Fonte:
Agoravox
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Il 23 giugno il DDL Lussana è passato all’esame della II Commissione Giustizia. La proposta di legge prevede nuove disposizioni in materia della tutela della privacy su Internet, in particolare sul cosiddetto "Diritto all’oblio".


I politici ci hanno già provato con
l’emendamento D’Alia e con la legge Carlucci. Ora ci riprovano con un nuovo emendamento: diritto all’oblio su Internet. La proposta è stata presentata il 20 maggio scorso, ma soltanto alcuni giorni fa il testo è passato all’esame della II Commissione Giustizia. Il politico di turno a cui spetta difendere nuovamente la Casta è stavolta Carolina Lussana, eletta tra le file della Lega Nord. Sua infatti la proposta che è passata al vaglio della commissione, di cui la Lussana è la vicepresidente.

Il Diritto all’oblio è stato recepito da tempo dalla legislazione italiana. In pratica la legge prevede che un individuo che abbia commesso un reato, una volta che l’opinione pubblica ne sia stata correttamente informata e il reo abbia scontato la pena, al fine di favorirne il reinserimento nella società, si obbligano gli organi di stampa o chiunque voglia tentare di rievocarne i reati commessi a non renderli più noti.

La baldanzosa leghista ha presentato
un DDL diviso in più articoli.
L’art. 1 recita così: Salvo che risulti il consenso scritto dell’interessato, non possono essere diffusi o mantenuti immagini e dati, anche giudiziari, che consentono, direttamente o indirettamente, l’identificazione della persona già indagata o imputata nell’ambito di un processo penale, sulle pagine internet liberamente accessibili dagli utenti o attraverso i motori di ricerca esterni al sito in cui tali immagini o dati sono contenuti. E in base alla gravità dei delitti commessi, si decide per quanto tempo la fedina penale del reo può essere consultabile su Internet.

L’art. 2 stabilisce le sanzioni in caso di inottemperanza alla legge. Se dalla denuncia dell’interessato trascorrono tre mesi senza che i dati personali riguardanti vecchi reati vengano rimossi, il Garante della Privacy può applicare nei confronti dei soggetti responsabili un’ammenda che va dai 5.000 ai 100.000 euro e disporre la rimozione dei dati personali trattati illecitamente.

L’art. 3 è una sorta di "contentino", in quanto stabilisce una serie di tutele in cui tale legge non si può applicare, ovvero in caso di condanna all’ergastolo, di reato di terrorismo, di genocidio o di strage. Inoltre il DDL non si applica al trattamento dei dati per ragioni di giustizia da parte degli organi giudiziari, del CSM e del Ministero della Giustizia o per ragioni di ricostruzione storica e giornalistica.

L’art. 4 riconosce all’interessato il diritto al risarcimento del danno.

L’art. 5 compie delle modifiche sostanziali al decreto legislativo n. 196 del 30 giugno 2003, applicando la stringa "su Internet" alle disposizioni vigenti in materia di tutela di diritto all’oblio.



Premesso che politici ovviamente non interessa un fico secco della tutela dei cittadini, il DDL è semplicemente l’ennesimo provvedimento governativo volto a limitare sempre più la libertà su Internet. Una sorta di lottizzazione che, dopo aver intaccato televisione e giornali, mira anche ad Internet. Anche perchè la semplice minaccia pecuniaria di 100.000 euro indurrà automaticamente i provider ad oscurare quelle pagine che riportano dei dati sensibili.

Ci chiediamo ora: è giusto che un diritto sacrosanto come quello all’oblio venga strumentalizzato per fini politici? Perchè poi mirare direttamente alla Rete? Il forte rischio è che i reati commessi da politici ed industriali vengano per legge cancellati e dunque dimenticati dall’opinione pubblica.


Fonte:
Agoravox

NUCLEARE A FASANO: I MEDICI DICONO "NO"



L'impegno di Vinci presidente nazionale della commissione ambientale dell'ordine dei medici
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L'impegno di Vinci presidente nazionale della commissione ambientale dell'ordine dei medici

GIUSEPPE SCIANO' RANDAZZO 28 GIUGNO 2009 ANTONIO CANEPA ECCIDIO DI MURAZZU RUTTU



Comemorazione della Strage eccidio di Randazzo Murazzu Ruttu ,Murazzo Rotto, del 17 giugno 1945. I militanti dell'EVIS. Esercito dei volontari per l'Indipendenza della Sicilia furono sorpresi in questo luogo dal fuoco incrociato di armi d'ordinanza dei reali carabinieri e di armi da guerra di cui non si conosce la provenienza. In quella strage morirono dopo 38 ore di sofferenze, Antonio Canepa ed i suoi giovani volontari.
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Comemorazione della Strage eccidio di Randazzo Murazzu Ruttu ,Murazzo Rotto, del 17 giugno 1945. I militanti dell'EVIS. Esercito dei volontari per l'Indipendenza della Sicilia furono sorpresi in questo luogo dal fuoco incrociato di armi d'ordinanza dei reali carabinieri e di armi da guerra di cui non si conosce la provenienza. In quella strage morirono dopo 38 ore di sofferenze, Antonio Canepa ed i suoi giovani volontari.

lunedì 29 giugno 2009

Marchionne: "Siamo in un mercato spietato...Termini Imerese non ha ragione di esistere"


Le dichiarazioni dell’ad Fiat non lasciano spazio ad alcun margine di trattativa, il destino del sito siciliano del Lingotto sembra adesso segnato, mentre i sindacati metalmeccanici annunciano manifestazioni e sit-in a cominciare da lunedì prossimo.

Tutti noi italiani abbiamo nei mesi scorsi tifato per la politica strategica di espansione trans-europea portata avanti dal numero uno della casa di automobili torinese, tutti noi abbiamo esultato per il raggiungimento dell’obiettivo Chrysler, e ci siamo rammaricati per l’esclusione del piano industriale per l’acquisizione della tedesca Opel.

Non possiamo che essere in sintonia con Marchionne quando si batte per la creazione di un gruppo industriale che, nel mondo, porterebbe ad una capacità produttiva pari a sette/otto milioni di autoveicoli; abbiamo sostenuto, senza remore, il suo operato capendo bene che dalla riuscita di tali operazioni anche l’Italia come nazione ne sarebbe uscita rafforzata, in un’ottica di lungo periodo.

Mai però ci siamo illusi di poter evitare sacrifici, soprattutto quando si chiede di farli fare sempre ai soliti, a coloro cioè che rischiano di perdere il posto nel nome di indicatori economici e di bilancio, sempre freddi e spietati.

Non possiamo, al contempo, non rammaricarci per il modo in cui queste notizie vengono diffuse, dette, comunicate, sempre "a margine" di qualche convegno a cui partecipano quelli che contano: mentre quelli che invece non contano vengono scaricati senza umanità, nell’assoluto disprezzo di qualunque dignità.

"A Termini Imerese non c’è indotto, è un luogo stranissimo dove non c’è niente intorno. Noi non stampiamo a Termini e lì ci sono costi di logistica che sono enormi...D’altronde se faccio un centro di stampaggio in centro Italia posso fornire quattro stabilimenti. Siamo in un mercato spietato dove se la vettura non c’è perdo il cliente e poi la cosa si ripercuote sui ricambi.....". .

Adesso i nodi vengono al pettine, e possiamo dire quello che forse in cuor nostro sapevamo gia: il destino dei siti meridionali della Fiat era gia segnato in maniera indipendente dalla riuscita dell’operazione tedesca per la casa di Ruesselsheim.

E a quanto pare a temere non è solo il sito siciliano, ma anche quello di Pomigliano.

Nelle settimane passate non abbiamo affatto capito le parole dello stesso ad Fiat, quando ha criticato i costi imposti alle case produttrici di automobili dall’Unione Europea in merito alle disposizioni normative di tipo ambientale, che a detta dello stesso Marchionne, gravano sui bilanci societari per 45 miliardi di euro all’anno.

Ma come! Ci facciamo paladini dell’ambientalismo in America grazie alla nostra capacità di produrre veicoli a basso impatto ambientale, "costringiamo" i nord-americani a circolare in "cinquecento", incassiamo il plauso del Presidente Usa Barack Obama per la nostra capacità di ottimizzare le risorse disponibili, e poi ci lamentiamo delle norme dell’Unione che tutelano in primo luogo il nostro stato di salute, la quantità di polveri sottili che facciamo respirare ai nostri bambini?

Non è solo il mercato ad essere spietato, lo è anche questa politica economica dei nostri manager, fatta solo di retorica e di ipocrisia, di affarismo ed egoismo, di calcolo di convenienza ed opportunismo.

"A Termini non c’è niente intorno...ci sono costi di logistica enormi"


Questo lo sapevamo, caro Marchionne, e come noi lo sapeva anche Lei, e lo sapeva anche il nostro "UTILIZZATORE FINALE" che qualche giorno addietro ha detto di tifare per il "signor Fiat", convinto di riuscire a portare a buon fine l’accordo per Opel: forse infondendo anche a Lei un po’ di quel sano ottimismo col quale ci continua ad ammorbare da un anno a questa parte.

"Non c’è la convenienza a costruire centri di stampaggio in Sicilia": e per forza!

Nessuna azienda avrebbe la capacità di sostenere costi per l’indotto, con un sistema di trasporto assolutamente inesistente, privo di ferrovie e di autostrade, privo di collegamenti o di snodi logistici adeguati.

Allora perchè far pagare il costo di questa epocale inefficienza a duemila lavoratori, che significa duemila famiglie, sempre ai più deboli, a coloro che si fanno il "mazzo" sulle catene di montaggio, allora perche non chiedere conto a coloro che vanno sponsorizzando il Ponte sullo Stretto, a coloro che illudono e buttano fumo negli occhi ad una popolazione sempre più disinformata, e quindi vulnerabile?

Vada a Termini il Presidente del Consiglio adesso, a tappare la bocca a duemila operai che rischiano di perdere il proprio futuro, vada a Termini il nostro premier ad infondere ottimismo, vada a Termini il Cavaliere a dire che la crisi è tutta colpa della stampa disfattista, vada a Termini il nostro amante delle escort e dei festini a luce rosse a far capire alla gente che i loro principali problemi sono la privacy e le intercettazioni, vada a Termini a dire a duemila operai che il primo provvedimento, quello più urgente, del suo governo è stato il "Lodo Alfano", oppure ci mandi il loro corregionale, lo stesso ministro Guardasigilli, a dire che giustizia è fatta.


Fonte:Agoravox
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Le dichiarazioni dell’ad Fiat non lasciano spazio ad alcun margine di trattativa, il destino del sito siciliano del Lingotto sembra adesso segnato, mentre i sindacati metalmeccanici annunciano manifestazioni e sit-in a cominciare da lunedì prossimo.

Tutti noi italiani abbiamo nei mesi scorsi tifato per la politica strategica di espansione trans-europea portata avanti dal numero uno della casa di automobili torinese, tutti noi abbiamo esultato per il raggiungimento dell’obiettivo Chrysler, e ci siamo rammaricati per l’esclusione del piano industriale per l’acquisizione della tedesca Opel.

Non possiamo che essere in sintonia con Marchionne quando si batte per la creazione di un gruppo industriale che, nel mondo, porterebbe ad una capacità produttiva pari a sette/otto milioni di autoveicoli; abbiamo sostenuto, senza remore, il suo operato capendo bene che dalla riuscita di tali operazioni anche l’Italia come nazione ne sarebbe uscita rafforzata, in un’ottica di lungo periodo.

Mai però ci siamo illusi di poter evitare sacrifici, soprattutto quando si chiede di farli fare sempre ai soliti, a coloro cioè che rischiano di perdere il posto nel nome di indicatori economici e di bilancio, sempre freddi e spietati.

Non possiamo, al contempo, non rammaricarci per il modo in cui queste notizie vengono diffuse, dette, comunicate, sempre "a margine" di qualche convegno a cui partecipano quelli che contano: mentre quelli che invece non contano vengono scaricati senza umanità, nell’assoluto disprezzo di qualunque dignità.

"A Termini Imerese non c’è indotto, è un luogo stranissimo dove non c’è niente intorno. Noi non stampiamo a Termini e lì ci sono costi di logistica che sono enormi...D’altronde se faccio un centro di stampaggio in centro Italia posso fornire quattro stabilimenti. Siamo in un mercato spietato dove se la vettura non c’è perdo il cliente e poi la cosa si ripercuote sui ricambi.....". .

Adesso i nodi vengono al pettine, e possiamo dire quello che forse in cuor nostro sapevamo gia: il destino dei siti meridionali della Fiat era gia segnato in maniera indipendente dalla riuscita dell’operazione tedesca per la casa di Ruesselsheim.

E a quanto pare a temere non è solo il sito siciliano, ma anche quello di Pomigliano.

Nelle settimane passate non abbiamo affatto capito le parole dello stesso ad Fiat, quando ha criticato i costi imposti alle case produttrici di automobili dall’Unione Europea in merito alle disposizioni normative di tipo ambientale, che a detta dello stesso Marchionne, gravano sui bilanci societari per 45 miliardi di euro all’anno.

Ma come! Ci facciamo paladini dell’ambientalismo in America grazie alla nostra capacità di produrre veicoli a basso impatto ambientale, "costringiamo" i nord-americani a circolare in "cinquecento", incassiamo il plauso del Presidente Usa Barack Obama per la nostra capacità di ottimizzare le risorse disponibili, e poi ci lamentiamo delle norme dell’Unione che tutelano in primo luogo il nostro stato di salute, la quantità di polveri sottili che facciamo respirare ai nostri bambini?

Non è solo il mercato ad essere spietato, lo è anche questa politica economica dei nostri manager, fatta solo di retorica e di ipocrisia, di affarismo ed egoismo, di calcolo di convenienza ed opportunismo.

"A Termini non c’è niente intorno...ci sono costi di logistica enormi"


Questo lo sapevamo, caro Marchionne, e come noi lo sapeva anche Lei, e lo sapeva anche il nostro "UTILIZZATORE FINALE" che qualche giorno addietro ha detto di tifare per il "signor Fiat", convinto di riuscire a portare a buon fine l’accordo per Opel: forse infondendo anche a Lei un po’ di quel sano ottimismo col quale ci continua ad ammorbare da un anno a questa parte.

"Non c’è la convenienza a costruire centri di stampaggio in Sicilia": e per forza!

Nessuna azienda avrebbe la capacità di sostenere costi per l’indotto, con un sistema di trasporto assolutamente inesistente, privo di ferrovie e di autostrade, privo di collegamenti o di snodi logistici adeguati.

Allora perchè far pagare il costo di questa epocale inefficienza a duemila lavoratori, che significa duemila famiglie, sempre ai più deboli, a coloro che si fanno il "mazzo" sulle catene di montaggio, allora perche non chiedere conto a coloro che vanno sponsorizzando il Ponte sullo Stretto, a coloro che illudono e buttano fumo negli occhi ad una popolazione sempre più disinformata, e quindi vulnerabile?

Vada a Termini il Presidente del Consiglio adesso, a tappare la bocca a duemila operai che rischiano di perdere il proprio futuro, vada a Termini il nostro premier ad infondere ottimismo, vada a Termini il Cavaliere a dire che la crisi è tutta colpa della stampa disfattista, vada a Termini il nostro amante delle escort e dei festini a luce rosse a far capire alla gente che i loro principali problemi sono la privacy e le intercettazioni, vada a Termini a dire a duemila operai che il primo provvedimento, quello più urgente, del suo governo è stato il "Lodo Alfano", oppure ci mandi il loro corregionale, lo stesso ministro Guardasigilli, a dire che giustizia è fatta.


Fonte:Agoravox

Quelle ditte sospette al lavoro sul piano Case


Già nel primo cantiere appaiono forti dubbi su una delle aziende coinvolte nella ricostruzione. Le domande sono: chi controlla chi? E l’autocertificazione può bastare?



di Angelo Venti su Terra

Aperti i cantieri per la realizzazione delle new town sbandierate da Berlusconi e temute dagli aquilani.
Nei pressi di Bazzano e Sant’Elia, lungo la statale 17 che da L’Aquila porta a Onna, la frazione che è diventata il simbolo del terremoto del 6 aprile, si lavora giorno e notte per poter dimostrare ai grandi, che durante il G8 percorreranno questa strada, che la ricostruzione è finalmente partita.
Ma è proprio il cartello per i “Lavori relativi agli scavi e ai movimenti di terra lotto TS”, esposto in bella mostra all’ingresso del cantiere, che fa sorgere i primi dubbi sui controlli di trasparenza da parte della Protezione civile nell’assegnazione degli appalti e sui rischi che possono derivare dalla fretta e dall’emergenza.
Questo appalto è stato aggiudicato a diverse imprese marsicane riunite in Ati. La capogruppo è la P.R.S. produzione e servizi srl di Avezzano, mentre le imprese mandanti sono la Idio Ridolfi e figli srl di Avezzano (che lavora anche all’adeguamento dell’Aeroporto di Preturo per il G8); la Codisab srl di Carsoli; la Ing. Emilio e Paolo Salsiccia srl di Tagliacozzo e infine la Impresa di Marco srl con sede a Carsoli, via Tiburtina km. 70,00.
Ed è proprio quest’ultima società che fa tornare alla mente l’operazione “Alba d’oro” di Tagliacozzo – che gli inquirenti hanno definito come il primo «caso conclamato di presenza mafiosa in Abruzzo». Proprio qui, il 16 marzo scorso, i Gico della Guardia di finanza hanno arrestato tre imprenditori del luogo con l’accusa di aver reinvestito, attraverso la società “Alba d’oro”, capitali provenienti dal cosiddetto “tesoro di Vito Ciancimino”.
Precisiamo subito che sia l’impresa Di Marco che i suoi soci non risultano coinvolti in nessun processo relativo alle infiltrazioni criminali in Abruzzo, ma alcuni particolari meritano di essere ricordati e approfonditi, perché testimoniano delle strategie di penetrazione in Abruzzo da parte del gruppo riconducibile a Lapis e Ciancimino. Costituita nel lontano 1993, l’Impresa di Marco srl conta circa 20 dipendenti, ha un capitale sociale di 130mila euro, l’amministratore unico è Dante di Marco, mentre i soci sono Gennarino ed Eleana di Marco e Dante di Marco.
Quest’ultimo risulta anche come socio fondatore della Marsica plastica srl, (con sede a Carsoli, insieme a Giuseppe Italiano, Tommaso Vergopia, Achille Ricci, Roberto Mangano, Dante di Marco, Wolfgang Scholl, Marilena Lo Curto ed Ermelinda di Stefano. Alcune precisazioni: Italiano figura anche in uno dei pizzini di Provenzano, Di Stefano è la moglie di Gianni Lapis, Mangano è uno degli avvocati di Ciancimino al processo di Palermo mentre Achille Ricci è uno degli imprenditori tagliacozzani arrestati, insieme a Nino Zangari e Augusto Ricci, nell’operazione “Alba d’oro” del marzo scorso.

La Marsica plastica srl fu costituita presso uno studio notarile di Avezzano nel 2006, insieme alla Ecologica abruzzi srl. Entrambe le società dovevano operare nel settore della produzione di energia e dei rifiuti e, insieme alla Ricci e Zangari srl, avevano costituito il Consorzio A.R.S., sempre con sede a Carsoli allo stesso indirizzo.

Fonte:
Pietro Orsatti
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Già nel primo cantiere appaiono forti dubbi su una delle aziende coinvolte nella ricostruzione. Le domande sono: chi controlla chi? E l’autocertificazione può bastare?



di Angelo Venti su Terra

Aperti i cantieri per la realizzazione delle new town sbandierate da Berlusconi e temute dagli aquilani.
Nei pressi di Bazzano e Sant’Elia, lungo la statale 17 che da L’Aquila porta a Onna, la frazione che è diventata il simbolo del terremoto del 6 aprile, si lavora giorno e notte per poter dimostrare ai grandi, che durante il G8 percorreranno questa strada, che la ricostruzione è finalmente partita.
Ma è proprio il cartello per i “Lavori relativi agli scavi e ai movimenti di terra lotto TS”, esposto in bella mostra all’ingresso del cantiere, che fa sorgere i primi dubbi sui controlli di trasparenza da parte della Protezione civile nell’assegnazione degli appalti e sui rischi che possono derivare dalla fretta e dall’emergenza.
Questo appalto è stato aggiudicato a diverse imprese marsicane riunite in Ati. La capogruppo è la P.R.S. produzione e servizi srl di Avezzano, mentre le imprese mandanti sono la Idio Ridolfi e figli srl di Avezzano (che lavora anche all’adeguamento dell’Aeroporto di Preturo per il G8); la Codisab srl di Carsoli; la Ing. Emilio e Paolo Salsiccia srl di Tagliacozzo e infine la Impresa di Marco srl con sede a Carsoli, via Tiburtina km. 70,00.
Ed è proprio quest’ultima società che fa tornare alla mente l’operazione “Alba d’oro” di Tagliacozzo – che gli inquirenti hanno definito come il primo «caso conclamato di presenza mafiosa in Abruzzo». Proprio qui, il 16 marzo scorso, i Gico della Guardia di finanza hanno arrestato tre imprenditori del luogo con l’accusa di aver reinvestito, attraverso la società “Alba d’oro”, capitali provenienti dal cosiddetto “tesoro di Vito Ciancimino”.
Precisiamo subito che sia l’impresa Di Marco che i suoi soci non risultano coinvolti in nessun processo relativo alle infiltrazioni criminali in Abruzzo, ma alcuni particolari meritano di essere ricordati e approfonditi, perché testimoniano delle strategie di penetrazione in Abruzzo da parte del gruppo riconducibile a Lapis e Ciancimino. Costituita nel lontano 1993, l’Impresa di Marco srl conta circa 20 dipendenti, ha un capitale sociale di 130mila euro, l’amministratore unico è Dante di Marco, mentre i soci sono Gennarino ed Eleana di Marco e Dante di Marco.
Quest’ultimo risulta anche come socio fondatore della Marsica plastica srl, (con sede a Carsoli, insieme a Giuseppe Italiano, Tommaso Vergopia, Achille Ricci, Roberto Mangano, Dante di Marco, Wolfgang Scholl, Marilena Lo Curto ed Ermelinda di Stefano. Alcune precisazioni: Italiano figura anche in uno dei pizzini di Provenzano, Di Stefano è la moglie di Gianni Lapis, Mangano è uno degli avvocati di Ciancimino al processo di Palermo mentre Achille Ricci è uno degli imprenditori tagliacozzani arrestati, insieme a Nino Zangari e Augusto Ricci, nell’operazione “Alba d’oro” del marzo scorso.

La Marsica plastica srl fu costituita presso uno studio notarile di Avezzano nel 2006, insieme alla Ecologica abruzzi srl. Entrambe le società dovevano operare nel settore della produzione di energia e dei rifiuti e, insieme alla Ricci e Zangari srl, avevano costituito il Consorzio A.R.S., sempre con sede a Carsoli allo stesso indirizzo.

Fonte:
Pietro Orsatti

Berlusconi contestato a L'Aquila 27-06-2009



Ancora contestazioni da parte dei cittadini aquilani. E dopo tanto tempo riappare l'effige di Berlusconi con il naso di Pinocchio
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Ancora contestazioni da parte dei cittadini aquilani. E dopo tanto tempo riappare l'effige di Berlusconi con il naso di Pinocchio

«Anche Rothschild era uno schiavista» Ora la banca è chiamata a risponderne


Chi l'avrebbe mai detto...



Rivelazioni sui pionieri della City in documenti segreti dell’Ottocento


Di Fabio Cavalera


LONDRA — Gli «antischiavisti» erano degli schiavisti. Centinaia di documenti con il marchio «T71», conservati negli Archivi di Stato, mettono con le spalle al muro due fra i nomi che hanno scritto la storia della City e della grande finanza. Natham Mayer Rothschild e James William Freshfield, vissuti nella prima metà dell’Ottocento, hanno avuto per quasi due secoli il profilo di bravi precursori del capitalismo illuminato, fermi oppositori della brutalità schiavista. Oggi le loro biografie sono da rivedere sotto lenti ben diverse. Questo cambiamento lo si deve a Nick Draper che ha lavorato alla banca d’affari «JP Morgan» per venticinque anni ma che, una volta abbandonata la scrivania del prestigioso istituto per dedicarsi ai suoi interessi di storico dell’economia all’University College di Londra, ha cominciato a indagare sui rapporti fra la City e il traffico di uomini e donne deportati dalle colonie.

Un tema che viene affrontato con molta cautela negli ambienti dell’alta finanza londinese, perché, dietro ad alcuni dei bei nomi delle famiglie che hanno trasformato il «Miglio Quadrato» sulla sponda nord del Tamigi nel crocevia del business mondiale, vi possono essere imbarazzanti percorsi di arricchimento e che inconfessabili relazioni intrattenute con chi fece fortuna mettendo i ceppi alle caviglie e ai polsi di milioni di africani. Gli eredi e i successori, in molti casi, hanno riparato con fondi a sostegno delle popolazioni nere povere e riconoscendo le colpe dei fondatori. In altri casi, quelle vergogne sono rimaste sepolte e blindate. I Rothschild, ad esempio, dinastia di banchieri che ha cominciato ad operare in Inghilterra nel 1808, e i Freshfields, dinastia di illustri e potenti avvocati che conosce i segreti della City e che vanta una ragnatela di 2600 legali associati oltre a una infinità di studi sparsi in ogni angolo del mondo (Europa, America, Arabia Saudita, Vietnam, Cina e Giappone) si trovano improvvisamente sotto la luce dei riflettori a rispondere delle macchie del passato. Proprio Nick Draper ha scovato infatti, negli archivi di Kew Garden, i dossier su Natham Mayer Rothschild, figlio di Meyer Aemchel Rothschild che avviò la carriera a Francoforte, e James William Freshfield dai quali risulta che entrambi beneficiarono dello schiavismo.

Il Financial Times, la bibbia della City, ieri vi ha dedicato il titolo di apertura del giornale, sei colonne in prima pagina: i documenti rivelano i legami dei fondatori di Rothschild e Freshfields con la schiavitù. Per quanto riguarda il banchiere vi è un dossier che contiene gli originali di una richiesta di compensazione, avanzata da Natham Mayer Rothschild e dal fratello il barone James, a copertura di una garanzia di 3 mila sterline concessa a Lord James O’Bryen. Tale compensazione, nel 1830, fu rivendicata all'indomani dell'atto di abolizione della schiavitù nel Regno Unito. Che cosa era accaduto? Un tale Lord James O'Bryen aveva chiesto un credito ai fratelli Rothschild i quali, in cambio, avevano sollecitato e ottenuto «un'ipoteca» sulla proprietà del debitore, ad Antigua, comprensiva degli 88 schiavi che lì erano sfruttati. Lord James finì insolvente e i Rothschild pretesero l'adempimento dell'impegno. Nel frattempo però la schiavitù fu dichiarata illegale. Per rientrare di quell'impegno, i banchieri si rivolsero al governo di Sua Maestà, presentando gli atti del loro business, e alla fine ebbero le loro 3 mila sterline.

È la dimostrazione che i Rothschild intrattennero stretti rapporti d'affari con i proprietari terrieri e con l'aristocrazia schiavista. E che, nonostante le dichiarate posizioni contrarie alla tratta, non abbandonarono mai l'idea di vendersi ripagare il prestito con 88 schiavi. Più compromettente è il coinvolgimento dell'avvocato James William Freshfield e del figlio, titolare dello studio legale più importante della City: per conto di alcuni clienti operarono con mandato di fiduciari e amministratori nel trasferimento di proprietà, anche in questo caso, «comprensive » di decine di schiavi. E’ evidente che dagli accordi conclusi, dunque, che dal traffico di schiavi trassero buone parcelle. Notizie e rivelazioni che ribaltano l'immagine del vecchio James William Freshfield a quei tempi, membro attivo della Church Missionary Society. Sconcertate le reazioni in casa Rothschild e da parte dello studio Freshfields. La responsabile degli archivi Rothschild ha ammesso che la documentazione è nuova e che non era a conoscenza di questi legami compromettenti dei due fratelli Natham e James. Mentre lo studio legale, «orgoglioso della sua lunga tradizione a supporto dei diritti umani» promette una «investigazione» attenta sulle circostanze che sono emerse: quel volto della City che chissà come è rimasto segreto per quasi due secoli.

Fonte:
Corriere della Sera del 28 giugno 2009
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Chi l'avrebbe mai detto...



Rivelazioni sui pionieri della City in documenti segreti dell’Ottocento


Di Fabio Cavalera


LONDRA — Gli «antischiavisti» erano degli schiavisti. Centinaia di documenti con il marchio «T71», conservati negli Archivi di Stato, mettono con le spalle al muro due fra i nomi che hanno scritto la storia della City e della grande finanza. Natham Mayer Rothschild e James William Freshfield, vissuti nella prima metà dell’Ottocento, hanno avuto per quasi due secoli il profilo di bravi precursori del capitalismo illuminato, fermi oppositori della brutalità schiavista. Oggi le loro biografie sono da rivedere sotto lenti ben diverse. Questo cambiamento lo si deve a Nick Draper che ha lavorato alla banca d’affari «JP Morgan» per venticinque anni ma che, una volta abbandonata la scrivania del prestigioso istituto per dedicarsi ai suoi interessi di storico dell’economia all’University College di Londra, ha cominciato a indagare sui rapporti fra la City e il traffico di uomini e donne deportati dalle colonie.

Un tema che viene affrontato con molta cautela negli ambienti dell’alta finanza londinese, perché, dietro ad alcuni dei bei nomi delle famiglie che hanno trasformato il «Miglio Quadrato» sulla sponda nord del Tamigi nel crocevia del business mondiale, vi possono essere imbarazzanti percorsi di arricchimento e che inconfessabili relazioni intrattenute con chi fece fortuna mettendo i ceppi alle caviglie e ai polsi di milioni di africani. Gli eredi e i successori, in molti casi, hanno riparato con fondi a sostegno delle popolazioni nere povere e riconoscendo le colpe dei fondatori. In altri casi, quelle vergogne sono rimaste sepolte e blindate. I Rothschild, ad esempio, dinastia di banchieri che ha cominciato ad operare in Inghilterra nel 1808, e i Freshfields, dinastia di illustri e potenti avvocati che conosce i segreti della City e che vanta una ragnatela di 2600 legali associati oltre a una infinità di studi sparsi in ogni angolo del mondo (Europa, America, Arabia Saudita, Vietnam, Cina e Giappone) si trovano improvvisamente sotto la luce dei riflettori a rispondere delle macchie del passato. Proprio Nick Draper ha scovato infatti, negli archivi di Kew Garden, i dossier su Natham Mayer Rothschild, figlio di Meyer Aemchel Rothschild che avviò la carriera a Francoforte, e James William Freshfield dai quali risulta che entrambi beneficiarono dello schiavismo.

Il Financial Times, la bibbia della City, ieri vi ha dedicato il titolo di apertura del giornale, sei colonne in prima pagina: i documenti rivelano i legami dei fondatori di Rothschild e Freshfields con la schiavitù. Per quanto riguarda il banchiere vi è un dossier che contiene gli originali di una richiesta di compensazione, avanzata da Natham Mayer Rothschild e dal fratello il barone James, a copertura di una garanzia di 3 mila sterline concessa a Lord James O’Bryen. Tale compensazione, nel 1830, fu rivendicata all'indomani dell'atto di abolizione della schiavitù nel Regno Unito. Che cosa era accaduto? Un tale Lord James O'Bryen aveva chiesto un credito ai fratelli Rothschild i quali, in cambio, avevano sollecitato e ottenuto «un'ipoteca» sulla proprietà del debitore, ad Antigua, comprensiva degli 88 schiavi che lì erano sfruttati. Lord James finì insolvente e i Rothschild pretesero l'adempimento dell'impegno. Nel frattempo però la schiavitù fu dichiarata illegale. Per rientrare di quell'impegno, i banchieri si rivolsero al governo di Sua Maestà, presentando gli atti del loro business, e alla fine ebbero le loro 3 mila sterline.

È la dimostrazione che i Rothschild intrattennero stretti rapporti d'affari con i proprietari terrieri e con l'aristocrazia schiavista. E che, nonostante le dichiarate posizioni contrarie alla tratta, non abbandonarono mai l'idea di vendersi ripagare il prestito con 88 schiavi. Più compromettente è il coinvolgimento dell'avvocato James William Freshfield e del figlio, titolare dello studio legale più importante della City: per conto di alcuni clienti operarono con mandato di fiduciari e amministratori nel trasferimento di proprietà, anche in questo caso, «comprensive » di decine di schiavi. E’ evidente che dagli accordi conclusi, dunque, che dal traffico di schiavi trassero buone parcelle. Notizie e rivelazioni che ribaltano l'immagine del vecchio James William Freshfield a quei tempi, membro attivo della Church Missionary Society. Sconcertate le reazioni in casa Rothschild e da parte dello studio Freshfields. La responsabile degli archivi Rothschild ha ammesso che la documentazione è nuova e che non era a conoscenza di questi legami compromettenti dei due fratelli Natham e James. Mentre lo studio legale, «orgoglioso della sua lunga tradizione a supporto dei diritti umani» promette una «investigazione» attenta sulle circostanze che sono emerse: quel volto della City che chissà come è rimasto segreto per quasi due secoli.

Fonte:
Corriere della Sera del 28 giugno 2009

L'Aquila: manifestazione "100% ricostruzione"



di Djefar

L'Aquila manifestazione 100% ricostruzione, condivisione, trasparenza... istruzione
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di Djefar

L'Aquila manifestazione 100% ricostruzione, condivisione, trasparenza... istruzione

Il sole catturato dal deserto nei piani di Germania e Italia


Sul fotovoltaico si preferisce investire in Libia.
La conferma che il meridione (Sicilia compresa) è destinato alla costruzione delle nuove centrali nucleari....
.
Grazie agli incentivi del governo tedesco la quota delle energie rinnovabili ha raggiunto il 14%. Nel nostro Paese i sussidi più alti nell’area Ue


Di Danilo Taino



BERLINO — Sembreranno file in­finite di sedie a sdraio, nella sabbia del deserto del Nord Africa. Blu, co­me lo sono i pannelli solari. Si chia­ma Desertec ed è un progetto da 400 miliardi (sì, miliardi) di euro che sarà lanciato il 13 luglio a Mo­naco. L’idea è del gigante assicurati­vo Munich Re, che ha messo insie­me un gruppo di imprese per realiz­zare un vecchio sogno: produrre energia pulita dove c’è molto sole ed esportarla in Europa. Secondo il piano, dal 2019 il Vecchio Continen­te potrebbe essere approvvigiona­to, per il 15% dei suoi consumi, da energia solare in arrivo dal Sahara. Alla conferenza ci saranno impre­se come Deutsche Bank, Siemens, Rwe, E.On, il governo di Berlino, la Lega Araba, il Club di Roma, centri di studio tedeschi e probabilmente anche imprese italiane e spagnole. Una cosa seria. Non risolverà il pro­blema della dipendenza energetica da aree politicamente instabili e non sarà facile da realizzare. Ma è il segno che il sole è pronto a fare un salto di qualità nell’economia del mondo e che la Germania dirige le danze. Nonostante il Paese non sia un paradiso tropicale, da quasi un ven­tennio i governi tedeschi — ancor più quello in carica di Angela Me­rkel — incentivano lo sviluppo del­le tecnologie per estrarre energia dal sole. Dal 2004 in modo aggressi­vo.

Il risultato di questa politica (e dell’amore dei tedeschi per l’am­biente) è che la Germania produce oltre il 14% dei suoi consumi elettri­ci da energie rinnovabili (anche vento e biomasse). Se ci fosse più sole, i risultati sarebbero straordi­nari. L’incentivo, simile a quello ita­liano ma precedente, consiste nel fatto che lo Stato compra dai priva­ti (anche famiglie) l’energia solare prodotta con pannelli e non consu­mata a un prezzo più alto di quello di mercato: un sussidio per incenti­vare le fonti rinnovabili. Interi quar­tieri, ad esempio in città come Fri­burgo e Ulm, hanno tetti a pannelli fotovoltaici. Alcune cittadine, Mar­burg per dire, tendono a rendere obbligatorio il sistema solare sul tetto. Grandi aree sono dedicate al­lo stesso scopo: a fine 2008, un ex campo d’aviazione della Germania Est — Waldpolenz — è diventato il primo o secondo parco fotovoltai­co del mondo: 40 megawatt. Nel Paese ci sono 160 istituti che fanno ricerca nel campo. Il primo produt­tore mondiale di celle fotovoltai­che è tedesco, Q-cell, e i grandi gruppi, a partire da Siemens, sono coinvolti nelle diverse fasi del pro­cesso. L’idea dei tedeschi è che quella del sole (ma anche del ven­to) sia l’industria del futuro, in gran parte destinata all’export. Tra dieci anni — calcola il professor Ei­cke Weber, del Fraunhofer di Fri­burgo, nel campo, l’istituto forse più importante al mondo — «l’energia solare costerà meno del­l’energia tradizionale, il fotovoltai­co avrà una grande diffusione.

I Pa­esi che si occupano in modo positi­vo e aggressivo di questa tecnolo­gia avranno un futuro migliore. I lettori del Corriere della Sera do­vrebbero rendersene conto». In effetti, l’Italia se n’è resa con­to, almeno in teoria. Attraverso il Conto Energia (non troppo diver­so dal meccanismo tedesco), il mercato della Penisola è diventato il più generoso in Europa in fatto di sussidi (da 36 a 49 centesimi al chilowattora), tanto che attrae molti investitori dall’estero. Uno studio recente della Scuola di Ma­nagement del Politecnico di Mila­no prevede che nel 2011 si raggiun­geranno i 1.200 megawatt di poten­za fotovoltaica installata grazie agli incentivi del Conto Energia, cifra oltre la quale il sussidio dovrà cala­re. Ciò nonostante, lo stesso stu­dio stima che nel 2012 si possa arri­vare (nello scenario migliore) a 2.430 megawatt installati. Una for­te crescita: 37 mila impianti in eser­cizio, 5 mila dei quali creati nel pri­mo trimestre del 2009 (il mercato, oggi, vale mille miliardi, il triplo se si conta l’indotto). Non solo. L’Italia potrebbe esse­re — grazie al rendimento dei siste­mi fotovoltaici e al calo dei loro co­sti — il primo Paese al mondo a rag­giungere la parità dei prezzi di ener­gia solare e energia tradizionale: se­condo qualcuno già l’anno prossi­mo, più probabilmente un po’ do­po. I sussidi dovranno a quel punto essere ridotti fino ad arrivare a zero ma per il settore si aprirà una sta­gione nuova.

Il problema è che la burocrazia ne ostacola lo sviluppo, con cavilli, ostacoli e un sistema di autorizzazioni diverse da comune a comune. Anche così in Italia il setto­re attraversa un boom, che sarebbe maggiore se non ci fosse stata la cri­si finanziaria, la quale, calcola il Po­litecnico, nel 2009 farà perdere 300 megawatt di potenza installata. Il Vaticano ha messo i pannelli sulla Sala Nervi con un progetto ita­lo- tedesco, la Sicilia è giustamente all’avanguardia e a Noto si dovreb­be realizzare una delle centrali foto­voltaiche più grandi al mondo, l’Enel finirà quest’anno un impian­to da 5 megawatt con una tecnolo­gia innovativa. E il colonnello Gheddafi ha parlato poche settima­ne fa con l’amministratore delega­to dell’Eni Paolo Scaroni di un gran­de progetto per coprire di pannelli solari parte del deserto libico meri­dionale: energia a basso costo per i Paesi confinanti più poveri. Sedie a sdraio ovunque.


Fonte:
Corriere della sera del 28 giugno 2009

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Sul fotovoltaico si preferisce investire in Libia.
La conferma che il meridione (Sicilia compresa) è destinato alla costruzione delle nuove centrali nucleari....
.
Grazie agli incentivi del governo tedesco la quota delle energie rinnovabili ha raggiunto il 14%. Nel nostro Paese i sussidi più alti nell’area Ue


Di Danilo Taino



BERLINO — Sembreranno file in­finite di sedie a sdraio, nella sabbia del deserto del Nord Africa. Blu, co­me lo sono i pannelli solari. Si chia­ma Desertec ed è un progetto da 400 miliardi (sì, miliardi) di euro che sarà lanciato il 13 luglio a Mo­naco. L’idea è del gigante assicurati­vo Munich Re, che ha messo insie­me un gruppo di imprese per realiz­zare un vecchio sogno: produrre energia pulita dove c’è molto sole ed esportarla in Europa. Secondo il piano, dal 2019 il Vecchio Continen­te potrebbe essere approvvigiona­to, per il 15% dei suoi consumi, da energia solare in arrivo dal Sahara. Alla conferenza ci saranno impre­se come Deutsche Bank, Siemens, Rwe, E.On, il governo di Berlino, la Lega Araba, il Club di Roma, centri di studio tedeschi e probabilmente anche imprese italiane e spagnole. Una cosa seria. Non risolverà il pro­blema della dipendenza energetica da aree politicamente instabili e non sarà facile da realizzare. Ma è il segno che il sole è pronto a fare un salto di qualità nell’economia del mondo e che la Germania dirige le danze. Nonostante il Paese non sia un paradiso tropicale, da quasi un ven­tennio i governi tedeschi — ancor più quello in carica di Angela Me­rkel — incentivano lo sviluppo del­le tecnologie per estrarre energia dal sole. Dal 2004 in modo aggressi­vo.

Il risultato di questa politica (e dell’amore dei tedeschi per l’am­biente) è che la Germania produce oltre il 14% dei suoi consumi elettri­ci da energie rinnovabili (anche vento e biomasse). Se ci fosse più sole, i risultati sarebbero straordi­nari. L’incentivo, simile a quello ita­liano ma precedente, consiste nel fatto che lo Stato compra dai priva­ti (anche famiglie) l’energia solare prodotta con pannelli e non consu­mata a un prezzo più alto di quello di mercato: un sussidio per incenti­vare le fonti rinnovabili. Interi quar­tieri, ad esempio in città come Fri­burgo e Ulm, hanno tetti a pannelli fotovoltaici. Alcune cittadine, Mar­burg per dire, tendono a rendere obbligatorio il sistema solare sul tetto. Grandi aree sono dedicate al­lo stesso scopo: a fine 2008, un ex campo d’aviazione della Germania Est — Waldpolenz — è diventato il primo o secondo parco fotovoltai­co del mondo: 40 megawatt. Nel Paese ci sono 160 istituti che fanno ricerca nel campo. Il primo produt­tore mondiale di celle fotovoltai­che è tedesco, Q-cell, e i grandi gruppi, a partire da Siemens, sono coinvolti nelle diverse fasi del pro­cesso. L’idea dei tedeschi è che quella del sole (ma anche del ven­to) sia l’industria del futuro, in gran parte destinata all’export. Tra dieci anni — calcola il professor Ei­cke Weber, del Fraunhofer di Fri­burgo, nel campo, l’istituto forse più importante al mondo — «l’energia solare costerà meno del­l’energia tradizionale, il fotovoltai­co avrà una grande diffusione.

I Pa­esi che si occupano in modo positi­vo e aggressivo di questa tecnolo­gia avranno un futuro migliore. I lettori del Corriere della Sera do­vrebbero rendersene conto». In effetti, l’Italia se n’è resa con­to, almeno in teoria. Attraverso il Conto Energia (non troppo diver­so dal meccanismo tedesco), il mercato della Penisola è diventato il più generoso in Europa in fatto di sussidi (da 36 a 49 centesimi al chilowattora), tanto che attrae molti investitori dall’estero. Uno studio recente della Scuola di Ma­nagement del Politecnico di Mila­no prevede che nel 2011 si raggiun­geranno i 1.200 megawatt di poten­za fotovoltaica installata grazie agli incentivi del Conto Energia, cifra oltre la quale il sussidio dovrà cala­re. Ciò nonostante, lo stesso stu­dio stima che nel 2012 si possa arri­vare (nello scenario migliore) a 2.430 megawatt installati. Una for­te crescita: 37 mila impianti in eser­cizio, 5 mila dei quali creati nel pri­mo trimestre del 2009 (il mercato, oggi, vale mille miliardi, il triplo se si conta l’indotto). Non solo. L’Italia potrebbe esse­re — grazie al rendimento dei siste­mi fotovoltaici e al calo dei loro co­sti — il primo Paese al mondo a rag­giungere la parità dei prezzi di ener­gia solare e energia tradizionale: se­condo qualcuno già l’anno prossi­mo, più probabilmente un po’ do­po. I sussidi dovranno a quel punto essere ridotti fino ad arrivare a zero ma per il settore si aprirà una sta­gione nuova.

Il problema è che la burocrazia ne ostacola lo sviluppo, con cavilli, ostacoli e un sistema di autorizzazioni diverse da comune a comune. Anche così in Italia il setto­re attraversa un boom, che sarebbe maggiore se non ci fosse stata la cri­si finanziaria, la quale, calcola il Po­litecnico, nel 2009 farà perdere 300 megawatt di potenza installata. Il Vaticano ha messo i pannelli sulla Sala Nervi con un progetto ita­lo- tedesco, la Sicilia è giustamente all’avanguardia e a Noto si dovreb­be realizzare una delle centrali foto­voltaiche più grandi al mondo, l’Enel finirà quest’anno un impian­to da 5 megawatt con una tecnolo­gia innovativa. E il colonnello Gheddafi ha parlato poche settima­ne fa con l’amministratore delega­to dell’Eni Paolo Scaroni di un gran­de progetto per coprire di pannelli solari parte del deserto libico meri­dionale: energia a basso costo per i Paesi confinanti più poveri. Sedie a sdraio ovunque.


Fonte:
Corriere della sera del 28 giugno 2009

domenica 28 giugno 2009

Convegno Brusciano: "L'esercito del Regno delle Due Sicilie"



27.06.2009 - Le poesie di Antimo Ceparano, l'introduzione di Angelo D'Ambra, l'intervento di Massimo Cuofano
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27.06.2009 - Le poesie di Antimo Ceparano, l'introduzione di Angelo D'Ambra, l'intervento di Massimo Cuofano

Attenti a quei P2


Di Marco Travaglio



Veronica Berlusconi protesta con il Corriere della sera per la vergognosa intervista dell’altro giorno ad Angelo Rizzoli che, per difendere Al Pappone, s’è permesso di criticare le amiche della signora e financo di intrufolarsi nelle convinzioni religiose del figlio Luigi.“Non si sa da quale pulpito”, aggiunge Veronica, visto che “non ho mai conosciuto” né lui né la moglie Melania, che sempre sul Corriere “era già stata prodiga di consigli non richiesti e non graditi”. Beata ingenuità: il pulpito è quello della loggia P2, di cui Rizzoli era “maestro” (tessera E.19.77), mentre Silvio era solo “apprendista muratore” (tessera 1816). I fratelli, si sa, si vedono nel momento del bisogno. A fine anni 70 il Corriere, che Rizzoli aveva appena regalato alla P2 di Gelli, Ortolani e Tassan Din, scoprì un giovane virgulto del giornalismo italiano: tale Silvio Berlusconi, subito ingaggiato per vergare sapidi commenti di economia. Ora, trent’anni dopo, riecco il maestro correre in soccorso del muratorino in difficoltà, sempre sul Corriere. La coppia, peraltro, non s’era mai separata: Angelo, già celebre per una strepitosa bancarotta fraudolenta con arresto incorporato, lavora da anni per Raifiction (già feudo del berlusclone Saccà) e per Mediaset con due società di produzione: la Rizzoli Film e la Jules Verne Film. Quest’ultima, nel 2004, dichiarò di aver finanziato An, il partito del ministro Gasparri che aveva appena regalato al muratorino l’omonima legge salva-Mediaset. Bello vedere che, dopo tanto tempo, i sentimenti di fratellanza sono rimasti intatti. I valori della famiglia.

Fonte:
L'Unità
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Di Marco Travaglio



Veronica Berlusconi protesta con il Corriere della sera per la vergognosa intervista dell’altro giorno ad Angelo Rizzoli che, per difendere Al Pappone, s’è permesso di criticare le amiche della signora e financo di intrufolarsi nelle convinzioni religiose del figlio Luigi.“Non si sa da quale pulpito”, aggiunge Veronica, visto che “non ho mai conosciuto” né lui né la moglie Melania, che sempre sul Corriere “era già stata prodiga di consigli non richiesti e non graditi”. Beata ingenuità: il pulpito è quello della loggia P2, di cui Rizzoli era “maestro” (tessera E.19.77), mentre Silvio era solo “apprendista muratore” (tessera 1816). I fratelli, si sa, si vedono nel momento del bisogno. A fine anni 70 il Corriere, che Rizzoli aveva appena regalato alla P2 di Gelli, Ortolani e Tassan Din, scoprì un giovane virgulto del giornalismo italiano: tale Silvio Berlusconi, subito ingaggiato per vergare sapidi commenti di economia. Ora, trent’anni dopo, riecco il maestro correre in soccorso del muratorino in difficoltà, sempre sul Corriere. La coppia, peraltro, non s’era mai separata: Angelo, già celebre per una strepitosa bancarotta fraudolenta con arresto incorporato, lavora da anni per Raifiction (già feudo del berlusclone Saccà) e per Mediaset con due società di produzione: la Rizzoli Film e la Jules Verne Film. Quest’ultima, nel 2004, dichiarò di aver finanziato An, il partito del ministro Gasparri che aveva appena regalato al muratorino l’omonima legge salva-Mediaset. Bello vedere che, dopo tanto tempo, i sentimenti di fratellanza sono rimasti intatti. I valori della famiglia.

Fonte:
L'Unità

Il miracolo economico del Sud nel Regno delle Due Sicilie


Il brano qui riprodotto è stato tratto dal volume
“I Savoia e il massacro del Sud”, di Antonio Ciano,
edito da GRANDMELÒ, Roma 1996





«Per difendere l’economia del suo regno, Ferdinando Il il 15 dicembre del 1823 ed il 20 novembre del 1824 emise provvedimenti doganali che proteggevano lo sviluppo industriale autoctono. Già nel 1818, pochi anni dopo la Restaurazione, abbandonando i criteri liberistici che producevano utili per pochi e disoccupazione per molti, il Sovrano napoletano aveva imposto dazi elevati sui prodotti stranieri importati e dazi minimi sulle merci d’importazione necessarie allo sviluppo delle sue terre. Quanto alle esportazioni, erano stati fissati dazi elevati per le materie prime che potevano essere lavorate dall’industria napoletana. Fin dal 1821, inoltre, erano stati aboliti i regolamenti sulle corporazioni. Erano stati spesso anticipati capitali ai manifatturieri da parte della Cassa di Sconto .
Questa politica fece dell’industria tessile e metalmeccanica due settori trainanti che portarono molti stranieri ad investire nel Meridione d’Italia.
Tra essi ricordiamo l’industriale Guppy che, col suo connazionale Pattison, aveva intrapreso a Napoli la costruzione di macchine agricole per modernizzare l’agricoltura e la costruzione di locomotive a vapore. La fonderia di Macry ed Henry, con sede al Ponte della Maddalena, con mille addetti operava nel settore del ferro fuso.
Ferdinando Il divenne, di fatto, il più dinamico imprenditore del Regno. Nacque così il Reale Opificio Meccanico e Politecnico di Pietrarsa, nei pressi di Napoli, con mille operai specializzati, fiore all’occhiello dell’industria partenopea.
Lo stabilimento fu inaugurato nel 1840 da Ferdinando II di Borbone. Pietrarsa fu il primo nucleo veramente industriale italiano; lì si producevano, con tecnologie avanzate, treni e locomotive. Al Nord le officine della Breda nacquero 44 anni più tardi e la Fiat 57 anni dopo.

Sempre su iniziativa del Re venne istituita la Real fonderia in Castelnuovo (500 operai), la Real Manifattura delle armi in Torre Annunziata (500 operai), l’Arsenale di Napoli ed il Cantiere Navale di Castellammare (2.000 operai). 1.500 operai lavoravano alle Ferriere Mongiana in Calabria, con stabilimenti a Pazzano e a Bigonci.
Quattro altiforni producevano 21.000 quintali di ghisa, mentre 200 operai specializzati lavoravano nello stabilimento metalmeccanico di Cardinale, sempre in Calabria, e producevano 2.000 quintali di ferro.
Altri centri siderurgici e meccanici erano sorti a Fuscaldo (Calabria), Picinisco (Terra di Lavoro), Picciano (Abruzzo), Atripalda (Avellino). Altri ancora a Lecce, Foggia, Spinazzola: questi ultimi tutti specializzati nel produrre macchina agricole.

In ogni paese nacquero piccole industrie che erano il nerbo dell’economia del regno. Di notevole importanza erano le industrie per la lavorazione del cuoio e per la produzione dei colori, della pasta alimentare, delle maioliche, di vetri, cristalli, cappelli, acidi, cera, coralli, metalli preziosi, stoviglie, saponi, mobili, strumenti musicali di precisione.

Il 3 ottobre 1839 venne inaugurata la Napoli-Portici, la prima ferrovia italiana: la locomotiva a vapore coprì la distanza tra le due città in nove minuti, tra due ali di folla festante e curiosa di vedere tanta potenza in quello sbuffare di vapore.
I pennivendoli post-unitari si affannarono per sostenere l’inutilità di detta ferrovia, ritenuta un passatempo ed un balocco nelle mani del Re Borbone.
In realtà quegli intellettuali da strapazzo tentarono di oscurare la grandezza illuminata di Ferdinando Il che, fortissimamente, aveva voluto dare impulso all’intero assetto industriale del Regno. Altro che balocco! Dietro quella locomotiva c’erano le industrie di Pietrarsa, della Mongiana e molte altre; industrie con personale qualificato e specializzato e che preparavano i ragazzi con corsi di formazione.

Durante il discorso d’inaugurazione, Ferdinando Il espose il suo progetto ferroviario. Il Sud doveva essere attraversato da due grandi dorsali ferroviarie; la prima doveva collegare Napoli a Brindisi e dalla città pugliese la ferrovia avrebbe dovuto raggiungere Pescara, Ancona e Bologna e passando per Venezia avrebbe dovuto ricongiungersi con le ferrovie danubiane e renane. La seconda, partendo dalla Calabria e dalla Basilicata avrebbe dovuto raggiungere Roma per poi proseguire per Firenze, Genova e Torino. Nel 1840 la via ferrata raggiunge Torre del Greco, nel 1842 Castellammare di Stabia, nel 1844 Nocera e quindi Salerno. A nord di Napoli si lavorava speditamente: nel 1843 la ferrovia giunse a Caserta e nel 1844 a Capua e Sparanise.

Sulla Gazzetta Piemontese del 30 marzo 1847 Ilarione Petitti di Roreto, esprimeva la sua ammirazione per il programma ferroviario avviato nel Regno delle Due Sicilie. Il Piemonte arretrato e guerrafondaio riteneva detti programmi fantascientifici; Cavour aveva altro a cui pen- sare e la storiografia ufficiale di regime fece passare per «grandi opere» la costruzione del canale chiamato poi di Cavour.
Il 16 aprile 1855 Ferdinando Il emanò un decreto sottofirmato dal Direttore di Stato dei lavori pubblici, Salvatore Murena. L’art. 1 così recitava: “...Accordiamo concessione al Sig. Emanuele Melisburgo di costruire una ferrovia da Napoli a Brindisi…”.

Nello stesso giorno il Re firmò un altro decreto in cui all’ art. 1 dichiarava: “...accordiamo concessione al Barone D. Panfilo De Riseis, di costruire una ferrovia da Napoli agli Abruzzi, fino al Tronto, con una diramazione per Ceprano, una per Popoli, una per Teramo ed una per Sansevero…”.
Ferdinando Il aveva previsto persino una ferrovia per il trasporto degli armenti dagli Abruzzi nelle Puglie per alleviare le fatiche dei mandriani e le relative perdite di giumente compensate così da un trasporto a tariffa conveniente.
Il Nord, il Piemonte in particolar modo, non erano in grado di produrre tecnologia avanzata né di produrre cultura o arte. Il Piemonte produceva solo cannoni, la Lombardia latte, che serviva a sfamare i figli degli austriaci, ed i Veneti andavano ad ingrossare la folla di emigranti che prendevano la via delle Americhe. Edoardo Spagnuolo, nel numero 5 dei quaderni di Nazione Napoletana così commenta la fine del sogno vissuto dalle popolazioni meridionali dopo l’annessione piemontese:
“…I grandi progetti ferroviari del Governo Borbonico avevano dunque un fine preciso. Le strade ferrate dovevano divenire un supporto fondamentale per l’economia meridionale ed essere di servizio allo sviluppo industriale che il Mezzogiorno d’Italia andava mirabilmente realizzando in quei tempi.
Il governo unitario, dopo aver distrutto le fabbriche del Sud a proprio vantaggio realizzò un sistema ferroviario obsoleto che, assieme alle vie marittime, servì non per trasportare merci per le manifatture e gli opifici del meridione ma per caricare masse di diseredati verso le grigie e nebbiose contrade del Nord o delle Americhe”.»
Fonte:Retesud
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Il brano qui riprodotto è stato tratto dal volume
“I Savoia e il massacro del Sud”, di Antonio Ciano,
edito da GRANDMELÒ, Roma 1996





«Per difendere l’economia del suo regno, Ferdinando Il il 15 dicembre del 1823 ed il 20 novembre del 1824 emise provvedimenti doganali che proteggevano lo sviluppo industriale autoctono. Già nel 1818, pochi anni dopo la Restaurazione, abbandonando i criteri liberistici che producevano utili per pochi e disoccupazione per molti, il Sovrano napoletano aveva imposto dazi elevati sui prodotti stranieri importati e dazi minimi sulle merci d’importazione necessarie allo sviluppo delle sue terre. Quanto alle esportazioni, erano stati fissati dazi elevati per le materie prime che potevano essere lavorate dall’industria napoletana. Fin dal 1821, inoltre, erano stati aboliti i regolamenti sulle corporazioni. Erano stati spesso anticipati capitali ai manifatturieri da parte della Cassa di Sconto .
Questa politica fece dell’industria tessile e metalmeccanica due settori trainanti che portarono molti stranieri ad investire nel Meridione d’Italia.
Tra essi ricordiamo l’industriale Guppy che, col suo connazionale Pattison, aveva intrapreso a Napoli la costruzione di macchine agricole per modernizzare l’agricoltura e la costruzione di locomotive a vapore. La fonderia di Macry ed Henry, con sede al Ponte della Maddalena, con mille addetti operava nel settore del ferro fuso.
Ferdinando Il divenne, di fatto, il più dinamico imprenditore del Regno. Nacque così il Reale Opificio Meccanico e Politecnico di Pietrarsa, nei pressi di Napoli, con mille operai specializzati, fiore all’occhiello dell’industria partenopea.
Lo stabilimento fu inaugurato nel 1840 da Ferdinando II di Borbone. Pietrarsa fu il primo nucleo veramente industriale italiano; lì si producevano, con tecnologie avanzate, treni e locomotive. Al Nord le officine della Breda nacquero 44 anni più tardi e la Fiat 57 anni dopo.

Sempre su iniziativa del Re venne istituita la Real fonderia in Castelnuovo (500 operai), la Real Manifattura delle armi in Torre Annunziata (500 operai), l’Arsenale di Napoli ed il Cantiere Navale di Castellammare (2.000 operai). 1.500 operai lavoravano alle Ferriere Mongiana in Calabria, con stabilimenti a Pazzano e a Bigonci.
Quattro altiforni producevano 21.000 quintali di ghisa, mentre 200 operai specializzati lavoravano nello stabilimento metalmeccanico di Cardinale, sempre in Calabria, e producevano 2.000 quintali di ferro.
Altri centri siderurgici e meccanici erano sorti a Fuscaldo (Calabria), Picinisco (Terra di Lavoro), Picciano (Abruzzo), Atripalda (Avellino). Altri ancora a Lecce, Foggia, Spinazzola: questi ultimi tutti specializzati nel produrre macchina agricole.

In ogni paese nacquero piccole industrie che erano il nerbo dell’economia del regno. Di notevole importanza erano le industrie per la lavorazione del cuoio e per la produzione dei colori, della pasta alimentare, delle maioliche, di vetri, cristalli, cappelli, acidi, cera, coralli, metalli preziosi, stoviglie, saponi, mobili, strumenti musicali di precisione.

Il 3 ottobre 1839 venne inaugurata la Napoli-Portici, la prima ferrovia italiana: la locomotiva a vapore coprì la distanza tra le due città in nove minuti, tra due ali di folla festante e curiosa di vedere tanta potenza in quello sbuffare di vapore.
I pennivendoli post-unitari si affannarono per sostenere l’inutilità di detta ferrovia, ritenuta un passatempo ed un balocco nelle mani del Re Borbone.
In realtà quegli intellettuali da strapazzo tentarono di oscurare la grandezza illuminata di Ferdinando Il che, fortissimamente, aveva voluto dare impulso all’intero assetto industriale del Regno. Altro che balocco! Dietro quella locomotiva c’erano le industrie di Pietrarsa, della Mongiana e molte altre; industrie con personale qualificato e specializzato e che preparavano i ragazzi con corsi di formazione.

Durante il discorso d’inaugurazione, Ferdinando Il espose il suo progetto ferroviario. Il Sud doveva essere attraversato da due grandi dorsali ferroviarie; la prima doveva collegare Napoli a Brindisi e dalla città pugliese la ferrovia avrebbe dovuto raggiungere Pescara, Ancona e Bologna e passando per Venezia avrebbe dovuto ricongiungersi con le ferrovie danubiane e renane. La seconda, partendo dalla Calabria e dalla Basilicata avrebbe dovuto raggiungere Roma per poi proseguire per Firenze, Genova e Torino. Nel 1840 la via ferrata raggiunge Torre del Greco, nel 1842 Castellammare di Stabia, nel 1844 Nocera e quindi Salerno. A nord di Napoli si lavorava speditamente: nel 1843 la ferrovia giunse a Caserta e nel 1844 a Capua e Sparanise.

Sulla Gazzetta Piemontese del 30 marzo 1847 Ilarione Petitti di Roreto, esprimeva la sua ammirazione per il programma ferroviario avviato nel Regno delle Due Sicilie. Il Piemonte arretrato e guerrafondaio riteneva detti programmi fantascientifici; Cavour aveva altro a cui pen- sare e la storiografia ufficiale di regime fece passare per «grandi opere» la costruzione del canale chiamato poi di Cavour.
Il 16 aprile 1855 Ferdinando Il emanò un decreto sottofirmato dal Direttore di Stato dei lavori pubblici, Salvatore Murena. L’art. 1 così recitava: “...Accordiamo concessione al Sig. Emanuele Melisburgo di costruire una ferrovia da Napoli a Brindisi…”.

Nello stesso giorno il Re firmò un altro decreto in cui all’ art. 1 dichiarava: “...accordiamo concessione al Barone D. Panfilo De Riseis, di costruire una ferrovia da Napoli agli Abruzzi, fino al Tronto, con una diramazione per Ceprano, una per Popoli, una per Teramo ed una per Sansevero…”.
Ferdinando Il aveva previsto persino una ferrovia per il trasporto degli armenti dagli Abruzzi nelle Puglie per alleviare le fatiche dei mandriani e le relative perdite di giumente compensate così da un trasporto a tariffa conveniente.
Il Nord, il Piemonte in particolar modo, non erano in grado di produrre tecnologia avanzata né di produrre cultura o arte. Il Piemonte produceva solo cannoni, la Lombardia latte, che serviva a sfamare i figli degli austriaci, ed i Veneti andavano ad ingrossare la folla di emigranti che prendevano la via delle Americhe. Edoardo Spagnuolo, nel numero 5 dei quaderni di Nazione Napoletana così commenta la fine del sogno vissuto dalle popolazioni meridionali dopo l’annessione piemontese:
“…I grandi progetti ferroviari del Governo Borbonico avevano dunque un fine preciso. Le strade ferrate dovevano divenire un supporto fondamentale per l’economia meridionale ed essere di servizio allo sviluppo industriale che il Mezzogiorno d’Italia andava mirabilmente realizzando in quei tempi.
Il governo unitario, dopo aver distrutto le fabbriche del Sud a proprio vantaggio realizzò un sistema ferroviario obsoleto che, assieme alle vie marittime, servì non per trasportare merci per le manifatture e gli opifici del meridione ma per caricare masse di diseredati verso le grigie e nebbiose contrade del Nord o delle Americhe”.»
Fonte:Retesud

28 giugno 1940: cade Balbo, «l'aquila del fascismo»


E' l'unico gerarca che il duce tema. "L'unico - dice a denti stretti Mussolini - che sarebbe capace di uccidermi". L'unico che gli dia del tu in pubblico, che si permetta di scherzare a Palazzo Venezia, che lo provochi chiamandolo presidente, quasi a voler ostentare che complessi di inferiorità non ne ha. Lui, con quell'aria spregiudicata e moschettiera che seduce e irrita Mussolini, è Italo Balbo, virtuoso dello squadrismo, quadrumviro, trasvolatore, padre dell'aeronautica, grande amatore, ministro, governatore della Libia, il solo politico fascista, oltre al duce, celebre in tutto il mondo. Il solo, con Mussolini, a possedere il carisma del capo.

Il bastian contrario
La sua storia è la favola realizzata dell'uomo della strada che dice "se comandassi io" e arriva davvero a comandare, coautore, complice e vittima del sistema. Balbo è il bastian contrario del regime, con quel carattere orgoglioso, ironico e giocoso, di uno che va controcorrente e se ne vanta. Brucia le tappe con un'ansia febbrile. In apparenza, sembra un condottiero rinascimentale, una cavaliere di ventura del Cinquecento paracadutato nel Ventesimo secolo, il Giovanni dalle Bande Nere del suo tempo. In realtà, è qualcosa di più: la sua immagine, complessa e sfaccettata, è quella di un leader moderno, che sa sfruttare i mass media, eccitare e pilotare le masse, crearsi una straordinaria popolarità come piedestallo per l'assalto al potere. Ma il potere vero è un altro film e ha un altro nome: quello di Mussolini, il capo che accetta solo gregari. E così, dopo i trionfi di Rio e di New York e il mito dell'eroe azzurro nell'immensità del cielo, ecco giungere puntuale lo schiaffo dell'"esilio" in Libia, ras di uno scatolone di sabbia. E' una sconfitta che gli resterà sempre dentro. Fino a quel fatale 28 giugno 1940, quando nel cielo di Tobruk, nel cuore di quella guerra che detesta, viene abbattuto dalla distratta contraerea italiana. La sua ala viene spezzata dal destino: tragica beffa per l'"aquila del regime" e per la presunzione del vincente, che nella vita si era sempre divertito a scommettere sulla fortuna.

La morte
Sono le 17,35 del diciannovesimo giorno di guerra. L'Italia è impegnata in Africa contro gli inglesi. Le mitragliere da venti dell'incrociatore San Giorgio, ancorato in rada, spediscono verso il cielo bordate di proiettili. Il bersaglio? Due aerei presunti inglesi, in realtà due trimotori color piombo, i "gobbi maledetti" dell'aviazione italiana, resi sospetti da una precedente incursione della Raf e dal gioco del sole. Il primo aereo, raggiunto sotto l'ala destra, è in difficoltà. Il pilota si avvicina alla pista per atterrare. Il bersaglio è troppo facile, un invito a nozze. Una fiammata investe la fusoliera, centrata in pieno. Il Savoia Marchetti esplode in una palla di fuoco. Si leva rauco un grido di esultanza, i serventi ai pezzi si abbracciano festosi. Pochi minuti e apprenderanno di avere abbattuto l'aereo del loro comandante, l'SM 79 I Manu di Italo Balbo. Nove passeggeri, nessun superstite. Il "moschettiere" di Ferrara è morto come è vissuto, a modo suo. Irruente, innamorato del rischio, schierato sulle barricate. Volendo sempre, e comunque, vivere pericolosamente.

Fonte:
Il Sole 24 ore
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E' l'unico gerarca che il duce tema. "L'unico - dice a denti stretti Mussolini - che sarebbe capace di uccidermi". L'unico che gli dia del tu in pubblico, che si permetta di scherzare a Palazzo Venezia, che lo provochi chiamandolo presidente, quasi a voler ostentare che complessi di inferiorità non ne ha. Lui, con quell'aria spregiudicata e moschettiera che seduce e irrita Mussolini, è Italo Balbo, virtuoso dello squadrismo, quadrumviro, trasvolatore, padre dell'aeronautica, grande amatore, ministro, governatore della Libia, il solo politico fascista, oltre al duce, celebre in tutto il mondo. Il solo, con Mussolini, a possedere il carisma del capo.

Il bastian contrario
La sua storia è la favola realizzata dell'uomo della strada che dice "se comandassi io" e arriva davvero a comandare, coautore, complice e vittima del sistema. Balbo è il bastian contrario del regime, con quel carattere orgoglioso, ironico e giocoso, di uno che va controcorrente e se ne vanta. Brucia le tappe con un'ansia febbrile. In apparenza, sembra un condottiero rinascimentale, una cavaliere di ventura del Cinquecento paracadutato nel Ventesimo secolo, il Giovanni dalle Bande Nere del suo tempo. In realtà, è qualcosa di più: la sua immagine, complessa e sfaccettata, è quella di un leader moderno, che sa sfruttare i mass media, eccitare e pilotare le masse, crearsi una straordinaria popolarità come piedestallo per l'assalto al potere. Ma il potere vero è un altro film e ha un altro nome: quello di Mussolini, il capo che accetta solo gregari. E così, dopo i trionfi di Rio e di New York e il mito dell'eroe azzurro nell'immensità del cielo, ecco giungere puntuale lo schiaffo dell'"esilio" in Libia, ras di uno scatolone di sabbia. E' una sconfitta che gli resterà sempre dentro. Fino a quel fatale 28 giugno 1940, quando nel cielo di Tobruk, nel cuore di quella guerra che detesta, viene abbattuto dalla distratta contraerea italiana. La sua ala viene spezzata dal destino: tragica beffa per l'"aquila del regime" e per la presunzione del vincente, che nella vita si era sempre divertito a scommettere sulla fortuna.

La morte
Sono le 17,35 del diciannovesimo giorno di guerra. L'Italia è impegnata in Africa contro gli inglesi. Le mitragliere da venti dell'incrociatore San Giorgio, ancorato in rada, spediscono verso il cielo bordate di proiettili. Il bersaglio? Due aerei presunti inglesi, in realtà due trimotori color piombo, i "gobbi maledetti" dell'aviazione italiana, resi sospetti da una precedente incursione della Raf e dal gioco del sole. Il primo aereo, raggiunto sotto l'ala destra, è in difficoltà. Il pilota si avvicina alla pista per atterrare. Il bersaglio è troppo facile, un invito a nozze. Una fiammata investe la fusoliera, centrata in pieno. Il Savoia Marchetti esplode in una palla di fuoco. Si leva rauco un grido di esultanza, i serventi ai pezzi si abbracciano festosi. Pochi minuti e apprenderanno di avere abbattuto l'aereo del loro comandante, l'SM 79 I Manu di Italo Balbo. Nove passeggeri, nessun superstite. Il "moschettiere" di Ferrara è morto come è vissuto, a modo suo. Irruente, innamorato del rischio, schierato sulle barricate. Volendo sempre, e comunque, vivere pericolosamente.

Fonte:
Il Sole 24 ore

LODO ALFANO: Berlusconi e Alfano a cena con 2 giudici costituzionali ?!



http://news.illecito.com/ - Silvio Berlusconi e Angelino Alfano a cena coi giudici costituzionali.
Il commento della costituzionalista Lorenza Carlassare. Fonte traccia audio: MicroMega
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http://news.illecito.com/ - Silvio Berlusconi e Angelino Alfano a cena coi giudici costituzionali.
Il commento della costituzionalista Lorenza Carlassare. Fonte traccia audio: MicroMega

Il Sud e lo strano caso della "Banca del Mezzogiorno"


Ricevo da Redazione Due Sicilie e posto questa interessante segnalazione:
.
Di Emilia Urso Anfuso
.
A volte, risalire al bandolo della matassa di certi fatti, appare difficile. Lo diviene ancor più, se nel fatto coesistono interessi economici. E la difficoltà, cresce in maniera esponenziale, nel momento in cui questi interessi economici hanno commistione fra il pubblico ed il privato. La “Banca del mezzogiorno” è uno di questi fatti. Nella Finanziaria del 2006 il Ministro Tremonti, inserì la costituzione di questa Banca, che nell’immaginario del mondo economico nazionale, doveva – e dovrebbe ancora – rappresentare un punto di riferimento per il credito agevolato delle zone cosidette “sottoutilizzate”.

Il Sud, si sa, ha perso negli anni ‘90 la propria identità territoriale bancaria con l’assorbimento del Banco di Sicilia da parte del Gruppo Unicredit e del Banco di Napoli da parte del Gruppo S. Paolo IMI.

L’identità economica del Sud, viene così inglobata nei gruppi più estesi e rappresentativi del nostro sistema bancario.

Il Mezzogiorno, rimane un’area molto importante del nostro Paese, che da sempre subisce però le storture di un Sistema socio economico che non ha mai consentito uno sviluppo omogeneo del territorio, lasciando che molte regioni camminassero come su un binario parallelo pur sullo stesso territorio.

Non si è mai fatto nulla di realmente concreto al fine di sviluppare ad esempio, le risorse agroalimentari del Sud, o lo sviluppo del settore artigianale, che avrebbe consentito a queste aree di poter rivalutare se stesse, impiegando peraltro risorse interne.

Invece, come spesso accade, per una somma di motivazioni che come sempre non vengono rese note alla nazione, il Mezzogiorno resta ed è da sempre, una sorta di “terzo mondo” nazionale, cui guardare come una sorta di un pallido ricordo di ciò per cui furono istituiti. A nulla servono peraltro, i ripetuti messaggi ed appelli delle amministrazioni locali del Mezzogiorno. Un soliloquio perenne ormai fra piccole realtà locali e Stato.

Ecco quindi, che con un progetto presentato all’interno della Finanziaria 2006, il Ministro Tremonti sortisce quella che ancor oggi appare come una mistificazione di intenti.

Ecco cosa si legge nel testo della Finanziaria in questione, datata 23 Dicembre 2005 al comma 377: “Con l’obiettivo di sostenere lo sviluppo economico del Mezzogiorno è costituita, in forma di società per azioni, la Banca del Mezzogiorno, di seguito denominata «Banca». Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con il decreto di cui al comma 377, è istituito il comitato promotore con il compito di dare attuazione a quanto previsto dal presente comma.” E’ in quel “è costituita” che si perde il senso della realtà dei fatti. E’ in quel “entro trenta giorni dalla presente è costituito il comitato promotore” che ci si comincia a perdere in un reticolato di informazioni che si perdono per poi, in maniera del tutto atipica, ritrovarle in dichiarazioni che non vengono ancor oggi – siamo nel 2009 – supportate dai fatti.

Insomma: di questa “Banca del Mezzogiorno” si è scritto e parlato, ma negli ambiti
strettamente dedicati al mondo politico ed economico. Considerando che questa entità economica dovrebbe poi essere un’entità Pubblica a partecipazione privata – i cittadini acquistano quote divenendo azionisti e creando il capitale sociale – ci si chiede come, quando e con queli mezzi la cittadinanza sia stata informata.
E’ necessario fare una fitta serie di ricerche. E poi, ricerche nelle ricerche, per individuare ad esempio il “comitato promotore” nell’organizzazione di un servizio ai contribuenti che si propone sul Web col sito istituzionale www.comitatopromotorebancadelsud.it per scoprire un po’ di cose.
Fra il 2006 ed il 2007, hanno “aderito” arisorsa cui attingere attraverso una strana forma di interventi che, all’atto pratico, non sono intese al miglioramento delle aree sottoutilizzate bensì al loro sfruttamento.

Utilizzate come una sorta di vessillo quando il momento storico impone strategie che portino la Comunità nazionale ed internazionale a pensare che si stia facendo qualcosa di utile per lo sviluppo economico.

Ne è un esempio, la costituzione nel 2003 degli ormai famosi F.A.S. fondi per le Aree Sottoutilizzate, che nell’atto costitutivo conservano un miraggio di progettualità di riforma e consolidamento del nostro Sud, ma che nella realtà sono divenuti subito il salvadanaio di scorta dei conti pubblici Italiani.
Dai fondi F.A.S. si attinge a piene mani.

Per motivazioni che non conservano nepppure questa “Banca del Mezzogiorno” sottoscrivendo pacchetti azionari: Maurizio Romiti, figlio di quel Cesare Romiti già condannato nel 2000 irregolarità relative al periodo in cui ricopriva la carica di amministratore delegato del gruppo Fiat ed in quaklità di consigliere in Rcs MediaGroup. Ricordo peraltro, che cesare Romiti è il fondatore della Impregilo s.p.a. tristemente nota alle cronache attuali per esser stata l’impresa a partecipazione statale che creò quello scempio di non agibilità, chiamato Ospedale S. Salvatore dell’Aquila, crollato sotto il peso di appalti facili e materiali di quart’ordine.
Cesare Romiti quindi, manda avanti il figliol prodigo che acquista per nome della sua Pentar s.p.a. impresa che opera – guardacaso – nel settore finanziario, ben 250.000 euro di azioni: il massimo consentito in una unica operazione. Romiti, raddoppierà l’investimento prima della chiusura della raccolta.

Ma c’è di più. Molto di più. Dal 2006 al 2007, acquistano quote azionarie persino il Banco di Napoli e la Banca Popolare di Puglia e Basilicata.

E la “chicca fra le chicche”: si scopre, con una plateale strategia che è servita a confondere ancora di più le acque che c’è un mistero nell’indicazione del nome. Nella Finaziaria del 2006, il Ministro Tremonti indicava in “Banca del Mezzogiorno” quella che, attraverso il comitato promotore della stessa viene invece chiamata “Banca del Sud” L’inghippo: lo stesso comitato promotore, peraltro designato dal Governo in carica, aveva registrato il marchio non più come “Banca del Mezzogiorno” ma come “Banca del Sud”. Un po’ di fumo in più, a rendere il tutto più oscuro.
Nesssuno poi chiarisce nulla. Scarni comunicati dello stesso Comitato Promotore che più che chiarire confondono ancor più le idee. Provate voi stessi a decifrare il contenuto di questo articolo di cui peraltro non si conosce provenienza certa:
http://www.comitatopromotorebancadelsud.it/rassegna/EconomyMarzo2006.jpg

Sta di fatto che, fra “Banca del Sud” e “Banca del Mezzogiorno” si perdono i confini reali di un progetto di Stato che si confondee nelle profonde oscurità di economie private, fondi che passano di mano in mano e strategie finanziarie da azionisti di primo livello
Ad oggi: la “Banca del Sud” è un Istituto con sedi a Napoli e Caserta, fondato nel 2007, il cui Presidente appare essere quel Giulio lanciotti facente parte del Comitato Promotore istituito da Giulio Tremonti nella finanziaria 2006.

La “Banca del Mezzogiorno” non è stata ancora costituita, se non per la proclamazione della stessa ed una confusione epocale sui nomi e la sorgente di acquiso dei pacchetti azionari. Una “ Banca Popolare del Meridione” appare a Maggio in un articolo di “Caserta News” (apri link all’articolo:
http://www.casertanews.it/public/articoli/200905/art_20090508081413.htm) e sembra avere tutte le connotazioni del progetto originario denominato “Banca del Mezzogiorno”.

Dal cappello a cilindro, dalle scatole cinesi, dale Matrioske del nostro sistema economico, una volta in più per tentare di comprendere, dobbiamo essere in grado di scavare e scavare fra brandelli di verità ed informazioni scarse e frammentate.
E sperare peraltro, di capirci qualcosa che sia utile alla comprensione. Ciò che appare chiaro di tutta questa vicenda a mio avviso, è che si sono create più opportunità per alcune entità - che avevano probabilmente necessità di convertire parte dei propri fondi in qulacosa di diverso dalle loro imprese - e che una volta di più, il Sud rimane quel profondo mistero di una nazione che non consente sviluppo alcuno. Se non delle stesse entità istituzionali.
.....
Dal sito: “comitatopromotorebancadelsud.it) leggi gli articoli apparsi sulla Stampa nazionale:
http://www.comitatopromotorebancadelsud.it/
Il Sito Istituzionale di “Banca del Sud”:
http://www.bancadelsud.com/
Fonte:Agoravox
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Ricevo da Redazione Due Sicilie e posto questa interessante segnalazione:
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Di Emilia Urso Anfuso
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A volte, risalire al bandolo della matassa di certi fatti, appare difficile. Lo diviene ancor più, se nel fatto coesistono interessi economici. E la difficoltà, cresce in maniera esponenziale, nel momento in cui questi interessi economici hanno commistione fra il pubblico ed il privato. La “Banca del mezzogiorno” è uno di questi fatti. Nella Finanziaria del 2006 il Ministro Tremonti, inserì la costituzione di questa Banca, che nell’immaginario del mondo economico nazionale, doveva – e dovrebbe ancora – rappresentare un punto di riferimento per il credito agevolato delle zone cosidette “sottoutilizzate”.

Il Sud, si sa, ha perso negli anni ‘90 la propria identità territoriale bancaria con l’assorbimento del Banco di Sicilia da parte del Gruppo Unicredit e del Banco di Napoli da parte del Gruppo S. Paolo IMI.

L’identità economica del Sud, viene così inglobata nei gruppi più estesi e rappresentativi del nostro sistema bancario.

Il Mezzogiorno, rimane un’area molto importante del nostro Paese, che da sempre subisce però le storture di un Sistema socio economico che non ha mai consentito uno sviluppo omogeneo del territorio, lasciando che molte regioni camminassero come su un binario parallelo pur sullo stesso territorio.

Non si è mai fatto nulla di realmente concreto al fine di sviluppare ad esempio, le risorse agroalimentari del Sud, o lo sviluppo del settore artigianale, che avrebbe consentito a queste aree di poter rivalutare se stesse, impiegando peraltro risorse interne.

Invece, come spesso accade, per una somma di motivazioni che come sempre non vengono rese note alla nazione, il Mezzogiorno resta ed è da sempre, una sorta di “terzo mondo” nazionale, cui guardare come una sorta di un pallido ricordo di ciò per cui furono istituiti. A nulla servono peraltro, i ripetuti messaggi ed appelli delle amministrazioni locali del Mezzogiorno. Un soliloquio perenne ormai fra piccole realtà locali e Stato.

Ecco quindi, che con un progetto presentato all’interno della Finanziaria 2006, il Ministro Tremonti sortisce quella che ancor oggi appare come una mistificazione di intenti.

Ecco cosa si legge nel testo della Finanziaria in questione, datata 23 Dicembre 2005 al comma 377: “Con l’obiettivo di sostenere lo sviluppo economico del Mezzogiorno è costituita, in forma di società per azioni, la Banca del Mezzogiorno, di seguito denominata «Banca». Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con il decreto di cui al comma 377, è istituito il comitato promotore con il compito di dare attuazione a quanto previsto dal presente comma.” E’ in quel “è costituita” che si perde il senso della realtà dei fatti. E’ in quel “entro trenta giorni dalla presente è costituito il comitato promotore” che ci si comincia a perdere in un reticolato di informazioni che si perdono per poi, in maniera del tutto atipica, ritrovarle in dichiarazioni che non vengono ancor oggi – siamo nel 2009 – supportate dai fatti.

Insomma: di questa “Banca del Mezzogiorno” si è scritto e parlato, ma negli ambiti
strettamente dedicati al mondo politico ed economico. Considerando che questa entità economica dovrebbe poi essere un’entità Pubblica a partecipazione privata – i cittadini acquistano quote divenendo azionisti e creando il capitale sociale – ci si chiede come, quando e con queli mezzi la cittadinanza sia stata informata.
E’ necessario fare una fitta serie di ricerche. E poi, ricerche nelle ricerche, per individuare ad esempio il “comitato promotore” nell’organizzazione di un servizio ai contribuenti che si propone sul Web col sito istituzionale www.comitatopromotorebancadelsud.it per scoprire un po’ di cose.
Fra il 2006 ed il 2007, hanno “aderito” arisorsa cui attingere attraverso una strana forma di interventi che, all’atto pratico, non sono intese al miglioramento delle aree sottoutilizzate bensì al loro sfruttamento.

Utilizzate come una sorta di vessillo quando il momento storico impone strategie che portino la Comunità nazionale ed internazionale a pensare che si stia facendo qualcosa di utile per lo sviluppo economico.

Ne è un esempio, la costituzione nel 2003 degli ormai famosi F.A.S. fondi per le Aree Sottoutilizzate, che nell’atto costitutivo conservano un miraggio di progettualità di riforma e consolidamento del nostro Sud, ma che nella realtà sono divenuti subito il salvadanaio di scorta dei conti pubblici Italiani.
Dai fondi F.A.S. si attinge a piene mani.

Per motivazioni che non conservano nepppure questa “Banca del Mezzogiorno” sottoscrivendo pacchetti azionari: Maurizio Romiti, figlio di quel Cesare Romiti già condannato nel 2000 irregolarità relative al periodo in cui ricopriva la carica di amministratore delegato del gruppo Fiat ed in quaklità di consigliere in Rcs MediaGroup. Ricordo peraltro, che cesare Romiti è il fondatore della Impregilo s.p.a. tristemente nota alle cronache attuali per esser stata l’impresa a partecipazione statale che creò quello scempio di non agibilità, chiamato Ospedale S. Salvatore dell’Aquila, crollato sotto il peso di appalti facili e materiali di quart’ordine.
Cesare Romiti quindi, manda avanti il figliol prodigo che acquista per nome della sua Pentar s.p.a. impresa che opera – guardacaso – nel settore finanziario, ben 250.000 euro di azioni: il massimo consentito in una unica operazione. Romiti, raddoppierà l’investimento prima della chiusura della raccolta.

Ma c’è di più. Molto di più. Dal 2006 al 2007, acquistano quote azionarie persino il Banco di Napoli e la Banca Popolare di Puglia e Basilicata.

E la “chicca fra le chicche”: si scopre, con una plateale strategia che è servita a confondere ancora di più le acque che c’è un mistero nell’indicazione del nome. Nella Finaziaria del 2006, il Ministro Tremonti indicava in “Banca del Mezzogiorno” quella che, attraverso il comitato promotore della stessa viene invece chiamata “Banca del Sud” L’inghippo: lo stesso comitato promotore, peraltro designato dal Governo in carica, aveva registrato il marchio non più come “Banca del Mezzogiorno” ma come “Banca del Sud”. Un po’ di fumo in più, a rendere il tutto più oscuro.
Nesssuno poi chiarisce nulla. Scarni comunicati dello stesso Comitato Promotore che più che chiarire confondono ancor più le idee. Provate voi stessi a decifrare il contenuto di questo articolo di cui peraltro non si conosce provenienza certa:
http://www.comitatopromotorebancadelsud.it/rassegna/EconomyMarzo2006.jpg

Sta di fatto che, fra “Banca del Sud” e “Banca del Mezzogiorno” si perdono i confini reali di un progetto di Stato che si confondee nelle profonde oscurità di economie private, fondi che passano di mano in mano e strategie finanziarie da azionisti di primo livello
Ad oggi: la “Banca del Sud” è un Istituto con sedi a Napoli e Caserta, fondato nel 2007, il cui Presidente appare essere quel Giulio lanciotti facente parte del Comitato Promotore istituito da Giulio Tremonti nella finanziaria 2006.

La “Banca del Mezzogiorno” non è stata ancora costituita, se non per la proclamazione della stessa ed una confusione epocale sui nomi e la sorgente di acquiso dei pacchetti azionari. Una “ Banca Popolare del Meridione” appare a Maggio in un articolo di “Caserta News” (apri link all’articolo:
http://www.casertanews.it/public/articoli/200905/art_20090508081413.htm) e sembra avere tutte le connotazioni del progetto originario denominato “Banca del Mezzogiorno”.

Dal cappello a cilindro, dalle scatole cinesi, dale Matrioske del nostro sistema economico, una volta in più per tentare di comprendere, dobbiamo essere in grado di scavare e scavare fra brandelli di verità ed informazioni scarse e frammentate.
E sperare peraltro, di capirci qualcosa che sia utile alla comprensione. Ciò che appare chiaro di tutta questa vicenda a mio avviso, è che si sono create più opportunità per alcune entità - che avevano probabilmente necessità di convertire parte dei propri fondi in qulacosa di diverso dalle loro imprese - e che una volta di più, il Sud rimane quel profondo mistero di una nazione che non consente sviluppo alcuno. Se non delle stesse entità istituzionali.
.....
Dal sito: “comitatopromotorebancadelsud.it) leggi gli articoli apparsi sulla Stampa nazionale:
http://www.comitatopromotorebancadelsud.it/
Il Sito Istituzionale di “Banca del Sud”:
http://www.bancadelsud.com/
Fonte:Agoravox
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sabato 27 giugno 2009

Chi (e come) gestisce i depuratori in Campania?


Una catena di S.Antonio che vede protagonisti cittadini, comuni, Regione e Hydrogest alla base dei disastri ecologici causati dai depuratori campani.


Non si fermano le polemiche relative al disastro ambientale che si è consumato nei giorni scorsi sul litorale Flegreo-Domitio, in seguito al mancato funzionamento del depuratore di Cuma, causato da uno
sciopero dei dipendenti della Hydrogest, la ditta che gestisce l’impianto,che non vengono pagati dal mese di aprile.

Il polverone è stato scatenato dal sindaco di monte di Procida che ha vietato la balneazione su tutta la fascia costiera comunale e ha convocato un Consiglio Comunale monotematico proprio per riflettere sulla situazione, invitando anche i rappresentati degli altri comuni coinvolti.


La domanda sorge spontanea, è mai possibile che nella nostra Regione si prendano provvedimenti solo quando ormai la tragedia si è consumata? Come mai le istituzioni, ma anche la stampa, regionale e non, solo ora si ricordano che dei cinque depuratori della Campania nessuno funziona a pieno regime?

Eppure le segnalazioni c’erano state, da parte di numerose associazioni cittadine e anche da parte
nostra. Il problema è sotto gli occhi di tutti da tempo, sono trenta anni che il depuratore di Cuma non funziona correttamente (in realtà non ha mai funzionato) perché necessita di un forte intervento di ristrutturazione, sono almeno otto anni poi che questi lavori, affidati dalla Regione alla Hydrogest non vengono nemmeno cominciati. Intanto, in tutti questi anni a farne le spese sono stati l’ambiente e i cittadini. L’ambiente, perché basta fare un giro su quel litorale per vedere le condizioni del mare, ma anche dell’aria, che è irrespirabile; i cittadini perché sono costretti da anni a vivere in un territorio malsano, costretti a respirare aria puzzolente, a non poter fare il bagno nel loro mare, a fare i conti con scarichi abusivi di rifiuti tossici che avvelenano la loro terra.

Di chi è allora la colpa? Perché non vengono mai puniti i responsabili?
Per cercare i responsabili è necessario prima chiarire come funzionano i depuratori dal punto di vista amministrativo.

In Campania tutto funziona, o meglio dovrebbe funzionare, come una catena.
I cittadini pagano, per la depurazione delle acque, una tassa ai Comuni che ne girano i proventi alla Regione Campania, affinché questa depuri le acque. La regione Campania però ha affidato cinque depuratori, tra i quali quello di Cuma, ad una società privata, la Hydrogest S.p.A.

Nel 2003 la Hydrogest si è aggiudicata la gara di appalto per la gestione e la rifunzionalizzazione degli impianti. Spesa prevista: 150 milioni di euro. Venti dei quali era previsto li spendesse lo Stato, 130 i privati, secondo il project financing. Questo prevedeva che la Hydrogest avesse in gestione gli impianti e li mettesse a norma, poi in cambio avrebbe ricevuto i canoni che i Comuni girano alla Regione per la depurazione delle acque.

L’Hydrogest ha però ricevuto gli impianti solo nel 2006. Il Consiglio di Stato infatti nel 2006 ha ribaltato il verdetto del Tar, che aveva dato ragione alla cordata di imprenditori sconfitti, restituendo la vittoria a Hydrogest. Quest’ultima in ben tre anni non ha iniziato i lavori, lamentando più volte di non aver ricevuto i canoni dalla Regione; la Regione invece, nella persona di Pasquale Fontana, delegato dall’assessore regionale Walter Ganapini, ha replicato affermando che la Regione ha sempre versato con regolarità i canoni alla Hydrogest, ma anzi sono proprio i comuni che spesso non versano nei tempi prestabiliti i proventi della tassa sulla depurazione che pagano i cittadini.

Insomma un vergognoso scaricabarile che va a danno dei cittadini che pagano le tasse ma non sanno queste dove vanno a finire. Una tassa che i cittadini potrebbero anche non pagare vista la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il pagamento della tariffa di depurazione in caso di mancanza o cattivo funzionamento dell’impianto (Sentenza 335/2008).

Se si ragionano in questi termini i Comuni, la Regione e la Hydrogest sono autori di una maxi-truffa ai danni dei cittadini, che continuano a pagare per un servizio che non ricevono.

I Comuni perché continuano a riscuotere i canoni della depurazione delle acque ai cittadini, sapendo benissimo che il depuratore di Cuma funziona solo al 25%.

La Regione perché è da anni che è al corrente della situazione, come dimostrano numerose deliberazioni in materia. La Regione conosce benissimo lo stato dei depuratori e anche se sa della pericolosità di questi ultimi non si impegna direttamente per metterli a norma, facendosi scudo con un accordo preso con la Hydrogest ben 6 anni fa. Perché la Regione, pur conoscendo la situazione, non ha rimosso dal suo incarico questa società che era inadempiente?

La Hydrogest è anche essa una complice della Regione perché in ben tre anni di gestione effettiva degli impianti, non ha mai avviato i lavori previsti dal project financing siglato con la regione nel lontano 2003.

Ultima possibile “complice” è l’Arpac (Agenzia regionale per la protezione ambientale della Campania). Questa ha il compito di controllare lo stato dell’ambiente in Campania, ma è controllata dalla regione che ne nomina il suo amministratore.

L’Arpac nei giorni nei quali il depuratore sversava direttamente a mare i suoi liquami non ha emesso alcun comunicato per vietare la balneazione sulla fascia costiera interessata dal fenomeno; questo ci porta a pensare che o l’Arpac non fa i controlli, cosa non possibile stando a quanto riferito dall’responsabile della regione Fontana che ha detto pochi giorni fa di aver “appena finanziato un sistema di monitoraggio delle acque costiere con 6 milioni di euro che è già in funzione, oppure che questi controlli non sono fatti in modo corretto…a buon intenditor poche parole.

Fonte:
Agoravox
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Una catena di S.Antonio che vede protagonisti cittadini, comuni, Regione e Hydrogest alla base dei disastri ecologici causati dai depuratori campani.


Non si fermano le polemiche relative al disastro ambientale che si è consumato nei giorni scorsi sul litorale Flegreo-Domitio, in seguito al mancato funzionamento del depuratore di Cuma, causato da uno
sciopero dei dipendenti della Hydrogest, la ditta che gestisce l’impianto,che non vengono pagati dal mese di aprile.

Il polverone è stato scatenato dal sindaco di monte di Procida che ha vietato la balneazione su tutta la fascia costiera comunale e ha convocato un Consiglio Comunale monotematico proprio per riflettere sulla situazione, invitando anche i rappresentati degli altri comuni coinvolti.


La domanda sorge spontanea, è mai possibile che nella nostra Regione si prendano provvedimenti solo quando ormai la tragedia si è consumata? Come mai le istituzioni, ma anche la stampa, regionale e non, solo ora si ricordano che dei cinque depuratori della Campania nessuno funziona a pieno regime?

Eppure le segnalazioni c’erano state, da parte di numerose associazioni cittadine e anche da parte
nostra. Il problema è sotto gli occhi di tutti da tempo, sono trenta anni che il depuratore di Cuma non funziona correttamente (in realtà non ha mai funzionato) perché necessita di un forte intervento di ristrutturazione, sono almeno otto anni poi che questi lavori, affidati dalla Regione alla Hydrogest non vengono nemmeno cominciati. Intanto, in tutti questi anni a farne le spese sono stati l’ambiente e i cittadini. L’ambiente, perché basta fare un giro su quel litorale per vedere le condizioni del mare, ma anche dell’aria, che è irrespirabile; i cittadini perché sono costretti da anni a vivere in un territorio malsano, costretti a respirare aria puzzolente, a non poter fare il bagno nel loro mare, a fare i conti con scarichi abusivi di rifiuti tossici che avvelenano la loro terra.

Di chi è allora la colpa? Perché non vengono mai puniti i responsabili?
Per cercare i responsabili è necessario prima chiarire come funzionano i depuratori dal punto di vista amministrativo.

In Campania tutto funziona, o meglio dovrebbe funzionare, come una catena.
I cittadini pagano, per la depurazione delle acque, una tassa ai Comuni che ne girano i proventi alla Regione Campania, affinché questa depuri le acque. La regione Campania però ha affidato cinque depuratori, tra i quali quello di Cuma, ad una società privata, la Hydrogest S.p.A.

Nel 2003 la Hydrogest si è aggiudicata la gara di appalto per la gestione e la rifunzionalizzazione degli impianti. Spesa prevista: 150 milioni di euro. Venti dei quali era previsto li spendesse lo Stato, 130 i privati, secondo il project financing. Questo prevedeva che la Hydrogest avesse in gestione gli impianti e li mettesse a norma, poi in cambio avrebbe ricevuto i canoni che i Comuni girano alla Regione per la depurazione delle acque.

L’Hydrogest ha però ricevuto gli impianti solo nel 2006. Il Consiglio di Stato infatti nel 2006 ha ribaltato il verdetto del Tar, che aveva dato ragione alla cordata di imprenditori sconfitti, restituendo la vittoria a Hydrogest. Quest’ultima in ben tre anni non ha iniziato i lavori, lamentando più volte di non aver ricevuto i canoni dalla Regione; la Regione invece, nella persona di Pasquale Fontana, delegato dall’assessore regionale Walter Ganapini, ha replicato affermando che la Regione ha sempre versato con regolarità i canoni alla Hydrogest, ma anzi sono proprio i comuni che spesso non versano nei tempi prestabiliti i proventi della tassa sulla depurazione che pagano i cittadini.

Insomma un vergognoso scaricabarile che va a danno dei cittadini che pagano le tasse ma non sanno queste dove vanno a finire. Una tassa che i cittadini potrebbero anche non pagare vista la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il pagamento della tariffa di depurazione in caso di mancanza o cattivo funzionamento dell’impianto (Sentenza 335/2008).

Se si ragionano in questi termini i Comuni, la Regione e la Hydrogest sono autori di una maxi-truffa ai danni dei cittadini, che continuano a pagare per un servizio che non ricevono.

I Comuni perché continuano a riscuotere i canoni della depurazione delle acque ai cittadini, sapendo benissimo che il depuratore di Cuma funziona solo al 25%.

La Regione perché è da anni che è al corrente della situazione, come dimostrano numerose deliberazioni in materia. La Regione conosce benissimo lo stato dei depuratori e anche se sa della pericolosità di questi ultimi non si impegna direttamente per metterli a norma, facendosi scudo con un accordo preso con la Hydrogest ben 6 anni fa. Perché la Regione, pur conoscendo la situazione, non ha rimosso dal suo incarico questa società che era inadempiente?

La Hydrogest è anche essa una complice della Regione perché in ben tre anni di gestione effettiva degli impianti, non ha mai avviato i lavori previsti dal project financing siglato con la regione nel lontano 2003.

Ultima possibile “complice” è l’Arpac (Agenzia regionale per la protezione ambientale della Campania). Questa ha il compito di controllare lo stato dell’ambiente in Campania, ma è controllata dalla regione che ne nomina il suo amministratore.

L’Arpac nei giorni nei quali il depuratore sversava direttamente a mare i suoi liquami non ha emesso alcun comunicato per vietare la balneazione sulla fascia costiera interessata dal fenomeno; questo ci porta a pensare che o l’Arpac non fa i controlli, cosa non possibile stando a quanto riferito dall’responsabile della regione Fontana che ha detto pochi giorni fa di aver “appena finanziato un sistema di monitoraggio delle acque costiere con 6 milioni di euro che è già in funzione, oppure che questi controlli non sono fatti in modo corretto…a buon intenditor poche parole.

Fonte:
Agoravox

Rara intervista a Paolo Borsellino

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L'Aquila tradita


Di Riccardo Bocca


Da un lato lo spiegamento di forze e l'efficienza per il G8. Dall'altro la disperazione nelle tendopoli. Tra disagi, spaccio di droga e violenze. Mentre la terra non smette di tremare



Sono le sette di mattina del 19 giugno, quando una Punto bianca si ferma sul ciglio della statale 17 che attraversa L'Aquila. Al volante c'è un uomo in giacca e cravatta che spegne il motore, abbassa i finestrini e sfoglia il giornale appena acquistato. Vita quotidiana, niente di strano. Eppure all'improvviso il clima cambia, diventa teso. Dalla corsia opposta, spunta una berlina metallizzata che fa inversione inchiodando davanti alla Punto. Scende un giovane alto, palestrato, in jeans slavati e maglietta attillata. Si affianca al conducente e chiede i documenti senza qualificarsi. "Ma cosa sta succedendo? E lei chi è?", replica allarmato il conducente. "Attenda", risponde lo sconosciuto. Annota la targa della Punto, si attacca al cellulare, e infine torna con un sorriso finto: "A posto, può andare...".

L'assedio, lo chiamano gli aquilani. La soffocante militarizzazione che sta stressando il territorio in vista del G8. Migliaia di soldati, poliziotti, carabinieri, agenti dei servizi segreti e paracadutisti calati in città nelle ultime settimane. Forze operative giorno e notte. Per le strade, sulle colline. Ovunque. Tutti ossessionati dalla sicurezza dei 23 capi di Stato e di governo che, dall'8 al 10 luglio, si confronteranno con le loro delegazioni nella caserma della Guardia di finanza ?Vincenzo Giudice?. "Prevenzione indispensabile", è definita dalla Protezione civile. Ma anche una presenza che esaspera gli sfollati del post terremoto, inchiodati a tutt'altre priorità. A quasi tre mesi dall'apocalisse del 6 aprile, la terra continua a tremare. Tre punto due, tre punto tre, fino a quattro punto cinque come lunedì 22 giugno. Numeri che sulla carta dicono poco, ma da queste parti sono muri che vibrano, angoscia che non passa, riflesso a correre in strada. "Abbiamo sempre in testa l'odore delle macerie, le urla dei feriti e lo strazio dei 300 cadaveri", dice Rinaldo Tordera, direttore generale della Cassa di risparmio della provincia dell'Aquila. Lui per primo, racconta, si è faticosamente imposto di non mollare, di "annodare la cravatta e tirare avanti". Ma la volontà non basta.


Gli ostacoli sono tanti, in questo Abruzzo triste: a partire dal crollo economico. "Per la prima volta in vent'anni", informa l'Istat, "la regione segna un tasso di disoccupazione (9,7 per cento) superiore a quello italiano (7,9)". Dal 2008 al 2009 sono scomparsi 26 mila posti di lavoro. E a leggere questi dati, gli artigiani, gli operai, ma anche i manager e i professionisti ospitati dalle tendopoli tremano, sovrastati dal -14 della produzione industriale.

"Superata la prima emergenza, dovrebbe essere questa la principale preoccupazione ", dice il presidente della Provincia Stefania Pezzopane (Pd). "Dovremmo concentrarci sulle necessità pratiche e psicologiche delle 25 mila persone ancora accampate, senza dimenticare le 35 mila esiliate sulla costa adriatica". Invece non è così. Capita qualcosa di grottesco, e crudele, davanti agli occhi dei terremotati: "La città si sta spaccando in due", spiega Marco Morante del Collettivo 99 (composto da una cinquantina di giovani ingegneri, architetti e geologi aquilani). "In primo piano, sotto i riflettori, c'è l'efficentismo sfrenato per adeguare la città al G8. E intanto in penombra, trascurata della politica, cresce la frustrazione della gente comune, vittima di una quotidianità invivibile e di una ricostruzione avventata".

Parole che trovano continui riscontri, girando per l'Aquila. Basta raggiungere la caserma della Guardia di finanza, in zona Coppito, e chiedere alle imprese associate I platani e Todima come hanno realizzato la strada che collegherà la sede del G8 all'aeroporto di Preturo. "In soli 24 giorni abbiamo allargato e sistemato un percorso di due chilometri e 800 metri", dicono i titolari. Il tutto con un impiego massiccio di mezzi: "60 tra ruspe e scavatori", attivi sette giorni su sette, grazie ai quali "abbiamo costruito anche tre rotatorie e un piccolo ponte sul fiume Aterno". Il massimo, con i 3 milioni 200 mila euro stanziati dal Provveditorato alle opere pubbliche. E altrettanto apprezzabile è il rifacimento dell'aeroporto, fino a ieri snobbato per mancanza di strumentazioni, e oggi "dotato di ottimi sistemi radar e illuminazione della pista", assicura un tecnico dell'aeronautica.

Insomma: basta pronunciare la parola G8 e tutto scorre, tutto funziona. "Sobrietà con efficienza", aveva promesso il capo della Protezione civile Guido Bertolaso. Ed è stato di parola. Ha affidato il coordinamento a Marcello Fiori, l'uomo che ha gestito i funerali di papa Wojtyla, puntando su due fronti: "Il primo", spiega un ufficiale della Guardia di finanza, "riguarda la caserma dove alloggeranno i capi di Stato, presentata ai mass media come ideale per il G8, ma in realtà bisognosa di forti interventi ". Altro che rinfrescata generale o aggiunta di mobili: il piano di adeguamento, riassunto in un documento del ministero delle Infrastrutture, mostra ben cinque ditte abruzzesi (Iannini, Edilfrair costruzioni generali, Mancini, Di Vincenzo Dino & C. e Iciet Engineering) all'opera per reinventare le palazzine alloggi "B1, B2, D, E, E1, F4, F5, F6, H, M, P1 e P2". Quanto al secondo fronte, quello della sicurezza fuori dalla caserma, è tutto indicato in una mappa riservata e titolata "Sistema delle misure interdittive ". Una cartina da cui si vede che nei giorni cruciali sarà proibita la "circolazione veicolare, pedonale e di sosta"in tre strade essenziali (la statale 80, viale Fiamme Gialle e la provinciale 33), mentre in altre zone sarà impossibile "il transito di mezzi pesanti" o si accederà a piedi.

"Complessivamente un'ottima organizzazione ", commenta un alto grado dell'esercito. "Ma anche un cumulo di spese che offende gli sfollati". Il riferimento, esplicito, è "alla disperazione che regna in certe tendopoli ". Qualcosa di impossibile da immaginare, per chi abita altrove, ma che diventa realtà allucinante entrando nel campo di piazza d'Armi, gestito dalla Protezione civile e vietato alla stampa. All'interno, un migliaio di senzatetto sopravvivono in tende che bruciano quando c'è il sole (fino a 48 gradi) e si allagano appena piove. "E c'è di peggio", testimonia un'anziana: "Le tende hanno otto brande, e le famiglie vengono mischiate con i balordi". Sere fa, racconta, è esploso uno scontro tra slavi con coltelli e botte. Quanto alla droga, c'è l'imbarazzo della scelta tra leggera e pesante. Così le retate aumentano (il 19 giugno sono finiti in manette un invalido e un minorenne, che spacciavano nelle tendopoli 3 chili di hashish) e gli sfollati si rassegnano. Gli uomini, quelli senza lavoro, avviliti, camminano avanti e indietro nell'afa come animali in gabbia. Le mogli, mentre i bambini giocano, si arrangiano con gli stendibiancheria, infilati tra tende appiccicate una all'altra. E persino i poliziotti, dopo mesi di superlavoro, hanno di che lamentarsi: "Una collega, sfollata nel centro di piazza d'Armi, è costretta ad alloggiare davanti alla tenda di un delinquente ai domiciliari. Possibile? Torna a fine turno, appoggia la pistola sulla branda, e sa che qualcuno può rubargliela...".

Problemi che pochi conoscono, e ancora meno considerano. Nel caos endemico del dopo terremoto, le sofferenze private non trovano ascolto. Spariscono coperte dalle urgenze pubbliche, dal timore di nuove scosse devastanti. Tanta è la confusione, in queste settimane, che passano sotto silenzio anche questioni gravissime, come i tentati stupri avvenuti nelle tendopoli. Fatti confermati dalle forze dell'ordine, ma che non arrivano all'opinione pubblica. La parola d'ordine è chiara, sia a livello politico che di Protezione civile: costruire l'ottimismo. Puntare sul fascino del G8. Sul futuro vincente dell'Abruzzo testardo. Che sarà anche una scelta cinica, ma funziona: "Domenica scorsa, c'è stata la riapertura di un minuscolo pezzo del centro storico", dice l'avvocato Luisa Leopardi, dell'associazione ?Un centro storico da salvare?. "La notizia è finita sui quotidiani nazionali, si è spiegato all'Italia intera che era un segnale importante, tornare a bere il caffè in piazza Duomo nel bar di Ninetto Nurzia. Si è scritto, anche, che gli aquilani erano entusiasti, di passeggiare in centro per qualche centinaio di metri (a gruppi di massimo 60 persone, dalle 11 alle 22, ndr)". Ma non è vero, testimonia Leopardi. "Siamo stanchi di questi colpi d'immagine. Il nostro centro è ancora macerie, infinite macerie, e sofferenza viva. Tant'è che il sottosegretario Gianni Letta, presente alla riapertura, è stato sonoramente fischiato".

Piuttosto, concordano i comitati cittadini, quello che gli abruzzesi vorrebbero al più presto è una ricostruzione ragionevole. Condivisa. Lungimirante. Ne parlano di continuo, gli sfollati, ai margini della zona rossa dove giacciono cumuli di mattoni e ferraglia. Ripensano alle promesse del premier Berlusconi e masticano amaro: "Dove sono le ville che dovevano ospitarci?", urla un avvocato rimasto senza casa e studio. "E le crociere che ci doveva pagare?", scuote la testa Rita, 23 anni, sulla sedia a rotelle a causa del 6 aprile. In compenso, si potrebbe ribattere, sono iniziati a L'Aquila i lavori per costruire 150 palazzine antisismiche, finanziate con 700 milioni di euro, destinate a circa 13 mila persone e sparse su venti siti periferici. "Ma anche qui non c'è da gioire", dice l'architetto Marco Morante. "Quello che resterà, alla fine di questa storia, è un mostruoso stravolgimento urbanistico; un intervento che massacra i piccoli centri limitrofi, sopraffatti dalla nuova edilizia, senza restituire un'identità cittadina". Ragionamenti che i comitati popolari stanno girando ai politici, assieme a progetti alternativi e meno invasivi. Ma ad accoglierli ci sono disinteresse e sarcasmo. L'onorevole pidiellino Giorgio Straquadanio, ad esempio, per giustificare questa ricostruzione discutibile, ha replicato che "quando si allaga una casa bisogna togliere l'acqua, non salvare i quadri...". E se qualcuno non è d'accordo, ha aggiunto, pazienza: deve prendere atto che "siamo in democrazia, e che il Pdl alle europee ha ottenuto la maggioranza aquilana" (verissimo, anche se a votare è stato un misero 27,9 per cento, figlio proprio della rivolta antipolitica). "Il pericolo", dice il presidente della Provincia Pezzopane, "è che gli italiani credano alla campagna d'immagine lanciata dal governo Berlusconi. Che si convincano che tutto procede, che siamo tranquilli, e ci lascino soli". Un rischio probabile. Basti pensare al flusso di notizie fantasiose uscite in questi mesi sulle scuole aquilane. Dopo il sisma, un quotidiano nazionale ha titolato entusiasta ?Il miracolo di palazzo Quinzi?. "Eppure questa struttura, che ospita il mio liceo classico, è a pezzi", s'indigna il preside Angelo Mancini, "sono crollate le volte a crociera e si trovano danni ovunque, dalle scale alle aule agli uffici". Poi è toccato al sottosegretario all'Ambiente, Roberto Menia, dichiarare che "l'80 per cento delle scuole è già praticabile". ("Anche se l'unico istituto superiore completamente agibile", documenta Mancini, "è l'Accademia di belle arti, mentre tra materne, elementari e medie le scuole pronte sono 14 su 49"). Fino al paradosso di sabato 28 giugno, quando un quotidiano abruzzese ha inserito nella tabella ?Scuole agibili? 15 istituti classificati in fascia B: ossia "temporaneamente inagibili, totalmentete o parzialmente ", per citare l'ordinanza 3.779 del presidente del Consiglio.

Cambierà la situazione? Tornerà un barlume di vita normale? Finiranno le polemiche attorno al decreto casa, assicurando a tutti un sostegno sicuro? Finirà lo strazio degli appartamenti sventrati, dei negozi chiusi, degli anziani sacrificati in camper, dell'ospedale improvvisato nelle tende accanto a quello inagibile di San Salvatore, dove la gente attende stremata, in fila sotto il sole, per l'accettazione?"Ci vorranno anni", rispondono a registratore spento le istituzioni. Non certo i pochi giorni "bastati per smontare a La Maddalena un ottimo ospedale da campo (40 posti letto e due sale operatorie) e trasferirlo a L'Aquila per il G8". Ma si sa: tutto è possibile, in onore dei 23 leader mondiali. Anche che Berlusconi sfoderi, nel bel mezzo della tre giorni internazionale, la sua sorpresa più ambiziosa: un lavoro preparato ad hoc dal ministero dei Beni culturali, dalla Protezione civile e dalla Direzione regionale per i beni culturali abruzzesi. "Fotografie e schede", informa una nota riservata, con i monumenti danneggiati "adottabili dai Paesi esteri".

Il colpo di teatro per un premier traballante. Ma anche l'estrema speranza per una terra in ginocchio.

Fonte:
L'Espresso 24 giugno 2009
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Di Riccardo Bocca


Da un lato lo spiegamento di forze e l'efficienza per il G8. Dall'altro la disperazione nelle tendopoli. Tra disagi, spaccio di droga e violenze. Mentre la terra non smette di tremare



Sono le sette di mattina del 19 giugno, quando una Punto bianca si ferma sul ciglio della statale 17 che attraversa L'Aquila. Al volante c'è un uomo in giacca e cravatta che spegne il motore, abbassa i finestrini e sfoglia il giornale appena acquistato. Vita quotidiana, niente di strano. Eppure all'improvviso il clima cambia, diventa teso. Dalla corsia opposta, spunta una berlina metallizzata che fa inversione inchiodando davanti alla Punto. Scende un giovane alto, palestrato, in jeans slavati e maglietta attillata. Si affianca al conducente e chiede i documenti senza qualificarsi. "Ma cosa sta succedendo? E lei chi è?", replica allarmato il conducente. "Attenda", risponde lo sconosciuto. Annota la targa della Punto, si attacca al cellulare, e infine torna con un sorriso finto: "A posto, può andare...".

L'assedio, lo chiamano gli aquilani. La soffocante militarizzazione che sta stressando il territorio in vista del G8. Migliaia di soldati, poliziotti, carabinieri, agenti dei servizi segreti e paracadutisti calati in città nelle ultime settimane. Forze operative giorno e notte. Per le strade, sulle colline. Ovunque. Tutti ossessionati dalla sicurezza dei 23 capi di Stato e di governo che, dall'8 al 10 luglio, si confronteranno con le loro delegazioni nella caserma della Guardia di finanza ?Vincenzo Giudice?. "Prevenzione indispensabile", è definita dalla Protezione civile. Ma anche una presenza che esaspera gli sfollati del post terremoto, inchiodati a tutt'altre priorità. A quasi tre mesi dall'apocalisse del 6 aprile, la terra continua a tremare. Tre punto due, tre punto tre, fino a quattro punto cinque come lunedì 22 giugno. Numeri che sulla carta dicono poco, ma da queste parti sono muri che vibrano, angoscia che non passa, riflesso a correre in strada. "Abbiamo sempre in testa l'odore delle macerie, le urla dei feriti e lo strazio dei 300 cadaveri", dice Rinaldo Tordera, direttore generale della Cassa di risparmio della provincia dell'Aquila. Lui per primo, racconta, si è faticosamente imposto di non mollare, di "annodare la cravatta e tirare avanti". Ma la volontà non basta.


Gli ostacoli sono tanti, in questo Abruzzo triste: a partire dal crollo economico. "Per la prima volta in vent'anni", informa l'Istat, "la regione segna un tasso di disoccupazione (9,7 per cento) superiore a quello italiano (7,9)". Dal 2008 al 2009 sono scomparsi 26 mila posti di lavoro. E a leggere questi dati, gli artigiani, gli operai, ma anche i manager e i professionisti ospitati dalle tendopoli tremano, sovrastati dal -14 della produzione industriale.

"Superata la prima emergenza, dovrebbe essere questa la principale preoccupazione ", dice il presidente della Provincia Stefania Pezzopane (Pd). "Dovremmo concentrarci sulle necessità pratiche e psicologiche delle 25 mila persone ancora accampate, senza dimenticare le 35 mila esiliate sulla costa adriatica". Invece non è così. Capita qualcosa di grottesco, e crudele, davanti agli occhi dei terremotati: "La città si sta spaccando in due", spiega Marco Morante del Collettivo 99 (composto da una cinquantina di giovani ingegneri, architetti e geologi aquilani). "In primo piano, sotto i riflettori, c'è l'efficentismo sfrenato per adeguare la città al G8. E intanto in penombra, trascurata della politica, cresce la frustrazione della gente comune, vittima di una quotidianità invivibile e di una ricostruzione avventata".

Parole che trovano continui riscontri, girando per l'Aquila. Basta raggiungere la caserma della Guardia di finanza, in zona Coppito, e chiedere alle imprese associate I platani e Todima come hanno realizzato la strada che collegherà la sede del G8 all'aeroporto di Preturo. "In soli 24 giorni abbiamo allargato e sistemato un percorso di due chilometri e 800 metri", dicono i titolari. Il tutto con un impiego massiccio di mezzi: "60 tra ruspe e scavatori", attivi sette giorni su sette, grazie ai quali "abbiamo costruito anche tre rotatorie e un piccolo ponte sul fiume Aterno". Il massimo, con i 3 milioni 200 mila euro stanziati dal Provveditorato alle opere pubbliche. E altrettanto apprezzabile è il rifacimento dell'aeroporto, fino a ieri snobbato per mancanza di strumentazioni, e oggi "dotato di ottimi sistemi radar e illuminazione della pista", assicura un tecnico dell'aeronautica.

Insomma: basta pronunciare la parola G8 e tutto scorre, tutto funziona. "Sobrietà con efficienza", aveva promesso il capo della Protezione civile Guido Bertolaso. Ed è stato di parola. Ha affidato il coordinamento a Marcello Fiori, l'uomo che ha gestito i funerali di papa Wojtyla, puntando su due fronti: "Il primo", spiega un ufficiale della Guardia di finanza, "riguarda la caserma dove alloggeranno i capi di Stato, presentata ai mass media come ideale per il G8, ma in realtà bisognosa di forti interventi ". Altro che rinfrescata generale o aggiunta di mobili: il piano di adeguamento, riassunto in un documento del ministero delle Infrastrutture, mostra ben cinque ditte abruzzesi (Iannini, Edilfrair costruzioni generali, Mancini, Di Vincenzo Dino & C. e Iciet Engineering) all'opera per reinventare le palazzine alloggi "B1, B2, D, E, E1, F4, F5, F6, H, M, P1 e P2". Quanto al secondo fronte, quello della sicurezza fuori dalla caserma, è tutto indicato in una mappa riservata e titolata "Sistema delle misure interdittive ". Una cartina da cui si vede che nei giorni cruciali sarà proibita la "circolazione veicolare, pedonale e di sosta"in tre strade essenziali (la statale 80, viale Fiamme Gialle e la provinciale 33), mentre in altre zone sarà impossibile "il transito di mezzi pesanti" o si accederà a piedi.

"Complessivamente un'ottima organizzazione ", commenta un alto grado dell'esercito. "Ma anche un cumulo di spese che offende gli sfollati". Il riferimento, esplicito, è "alla disperazione che regna in certe tendopoli ". Qualcosa di impossibile da immaginare, per chi abita altrove, ma che diventa realtà allucinante entrando nel campo di piazza d'Armi, gestito dalla Protezione civile e vietato alla stampa. All'interno, un migliaio di senzatetto sopravvivono in tende che bruciano quando c'è il sole (fino a 48 gradi) e si allagano appena piove. "E c'è di peggio", testimonia un'anziana: "Le tende hanno otto brande, e le famiglie vengono mischiate con i balordi". Sere fa, racconta, è esploso uno scontro tra slavi con coltelli e botte. Quanto alla droga, c'è l'imbarazzo della scelta tra leggera e pesante. Così le retate aumentano (il 19 giugno sono finiti in manette un invalido e un minorenne, che spacciavano nelle tendopoli 3 chili di hashish) e gli sfollati si rassegnano. Gli uomini, quelli senza lavoro, avviliti, camminano avanti e indietro nell'afa come animali in gabbia. Le mogli, mentre i bambini giocano, si arrangiano con gli stendibiancheria, infilati tra tende appiccicate una all'altra. E persino i poliziotti, dopo mesi di superlavoro, hanno di che lamentarsi: "Una collega, sfollata nel centro di piazza d'Armi, è costretta ad alloggiare davanti alla tenda di un delinquente ai domiciliari. Possibile? Torna a fine turno, appoggia la pistola sulla branda, e sa che qualcuno può rubargliela...".

Problemi che pochi conoscono, e ancora meno considerano. Nel caos endemico del dopo terremoto, le sofferenze private non trovano ascolto. Spariscono coperte dalle urgenze pubbliche, dal timore di nuove scosse devastanti. Tanta è la confusione, in queste settimane, che passano sotto silenzio anche questioni gravissime, come i tentati stupri avvenuti nelle tendopoli. Fatti confermati dalle forze dell'ordine, ma che non arrivano all'opinione pubblica. La parola d'ordine è chiara, sia a livello politico che di Protezione civile: costruire l'ottimismo. Puntare sul fascino del G8. Sul futuro vincente dell'Abruzzo testardo. Che sarà anche una scelta cinica, ma funziona: "Domenica scorsa, c'è stata la riapertura di un minuscolo pezzo del centro storico", dice l'avvocato Luisa Leopardi, dell'associazione ?Un centro storico da salvare?. "La notizia è finita sui quotidiani nazionali, si è spiegato all'Italia intera che era un segnale importante, tornare a bere il caffè in piazza Duomo nel bar di Ninetto Nurzia. Si è scritto, anche, che gli aquilani erano entusiasti, di passeggiare in centro per qualche centinaio di metri (a gruppi di massimo 60 persone, dalle 11 alle 22, ndr)". Ma non è vero, testimonia Leopardi. "Siamo stanchi di questi colpi d'immagine. Il nostro centro è ancora macerie, infinite macerie, e sofferenza viva. Tant'è che il sottosegretario Gianni Letta, presente alla riapertura, è stato sonoramente fischiato".

Piuttosto, concordano i comitati cittadini, quello che gli abruzzesi vorrebbero al più presto è una ricostruzione ragionevole. Condivisa. Lungimirante. Ne parlano di continuo, gli sfollati, ai margini della zona rossa dove giacciono cumuli di mattoni e ferraglia. Ripensano alle promesse del premier Berlusconi e masticano amaro: "Dove sono le ville che dovevano ospitarci?", urla un avvocato rimasto senza casa e studio. "E le crociere che ci doveva pagare?", scuote la testa Rita, 23 anni, sulla sedia a rotelle a causa del 6 aprile. In compenso, si potrebbe ribattere, sono iniziati a L'Aquila i lavori per costruire 150 palazzine antisismiche, finanziate con 700 milioni di euro, destinate a circa 13 mila persone e sparse su venti siti periferici. "Ma anche qui non c'è da gioire", dice l'architetto Marco Morante. "Quello che resterà, alla fine di questa storia, è un mostruoso stravolgimento urbanistico; un intervento che massacra i piccoli centri limitrofi, sopraffatti dalla nuova edilizia, senza restituire un'identità cittadina". Ragionamenti che i comitati popolari stanno girando ai politici, assieme a progetti alternativi e meno invasivi. Ma ad accoglierli ci sono disinteresse e sarcasmo. L'onorevole pidiellino Giorgio Straquadanio, ad esempio, per giustificare questa ricostruzione discutibile, ha replicato che "quando si allaga una casa bisogna togliere l'acqua, non salvare i quadri...". E se qualcuno non è d'accordo, ha aggiunto, pazienza: deve prendere atto che "siamo in democrazia, e che il Pdl alle europee ha ottenuto la maggioranza aquilana" (verissimo, anche se a votare è stato un misero 27,9 per cento, figlio proprio della rivolta antipolitica). "Il pericolo", dice il presidente della Provincia Pezzopane, "è che gli italiani credano alla campagna d'immagine lanciata dal governo Berlusconi. Che si convincano che tutto procede, che siamo tranquilli, e ci lascino soli". Un rischio probabile. Basti pensare al flusso di notizie fantasiose uscite in questi mesi sulle scuole aquilane. Dopo il sisma, un quotidiano nazionale ha titolato entusiasta ?Il miracolo di palazzo Quinzi?. "Eppure questa struttura, che ospita il mio liceo classico, è a pezzi", s'indigna il preside Angelo Mancini, "sono crollate le volte a crociera e si trovano danni ovunque, dalle scale alle aule agli uffici". Poi è toccato al sottosegretario all'Ambiente, Roberto Menia, dichiarare che "l'80 per cento delle scuole è già praticabile". ("Anche se l'unico istituto superiore completamente agibile", documenta Mancini, "è l'Accademia di belle arti, mentre tra materne, elementari e medie le scuole pronte sono 14 su 49"). Fino al paradosso di sabato 28 giugno, quando un quotidiano abruzzese ha inserito nella tabella ?Scuole agibili? 15 istituti classificati in fascia B: ossia "temporaneamente inagibili, totalmentete o parzialmente ", per citare l'ordinanza 3.779 del presidente del Consiglio.

Cambierà la situazione? Tornerà un barlume di vita normale? Finiranno le polemiche attorno al decreto casa, assicurando a tutti un sostegno sicuro? Finirà lo strazio degli appartamenti sventrati, dei negozi chiusi, degli anziani sacrificati in camper, dell'ospedale improvvisato nelle tende accanto a quello inagibile di San Salvatore, dove la gente attende stremata, in fila sotto il sole, per l'accettazione?"Ci vorranno anni", rispondono a registratore spento le istituzioni. Non certo i pochi giorni "bastati per smontare a La Maddalena un ottimo ospedale da campo (40 posti letto e due sale operatorie) e trasferirlo a L'Aquila per il G8". Ma si sa: tutto è possibile, in onore dei 23 leader mondiali. Anche che Berlusconi sfoderi, nel bel mezzo della tre giorni internazionale, la sua sorpresa più ambiziosa: un lavoro preparato ad hoc dal ministero dei Beni culturali, dalla Protezione civile e dalla Direzione regionale per i beni culturali abruzzesi. "Fotografie e schede", informa una nota riservata, con i monumenti danneggiati "adottabili dai Paesi esteri".

Il colpo di teatro per un premier traballante. Ma anche l'estrema speranza per una terra in ginocchio.

Fonte:
L'Espresso 24 giugno 2009

venerdì 26 giugno 2009

“La valigia con lo spago”, parola ai Migranti


Ricevo da Blog Cattolici e posto:

Roma (Agenzia Fides) - In onda su Rai Uno, a partire da lunedì 29 giugno in seconda serata per quattro settimane, “La valigia con lo spago” apre una
finestra nuova sull’universo dei migranti, facendo raccontare dalla loro viva voce cosa significa l’esperienza della speranza, trasformata spesso
in sofferenza e dolore. Nel corso delle quattro puntate, “La valigia con lo spago”, ci conduce in tutto il mondo, in Argentina, Moldavia, Slovacchia, Francia, Inghilterra, Spagna, Italia, Stati Uniti, Canada, Thailandia,
dove il dramma dei migranti è differente, ma profondamente uguale ed umano, e dove il nostro unico compito di cittadini, telespettatori, cristiani è
quello di riconoscere, guardare, ed abbracciare, come noi siamo stati abbracciati nell’incontro con la fede che determina la nostra vita.

Si passa in America, in cui il sogno americano non esiste più, nonostante
ogni anno migliaia di persone cerchino di varcare il deserto tra Messico e Stati Uniti; ed in questo viaggio trovano, per la maggior parte, la morte.
Come Lucrezia, che ha dato la poca acqua da bere ai suoi figli, Jesus e Nora, e li ha salvati dalla morte che, invece, ha colpito lei. Il sogno è infranto: si vive da clandestini, in un paese per cui si è fatto molto, dove l’immigrazione e le violenze sono state viste troppo da vicino.

In Moldavia il problema più grande è il numero di bambini abbandonati, circa 900 mila all’anno, da genitori che partono in cerca di fortuna, e che non tornano, o a causa della vergogna, o perché vittime della criminalità.
Soprattutto le donne, di ogni paese, purché giovani e belle, sono soggette alla macchia della tratta, meschinità perpetrata soprattutto a sfondo sessuale. “La valigia con lo spago” ci aiuta anche a liberarci di alcune convinzioni che la mentalità comune ha reso troppo ingombranti, nelle
nostre menti, per esempio, tutti i falsi miti che riguardano i rom: incontriamo,
fra gli altri migranti protagonisti del programma, una giovane donna, fuggita dalla famiglia rom, che racconta un dramma comprensibile a pochi:
“Nessuna di noi nasce ladra o prostituta, sono loro a piegarci con la violenza”. La violenza fin dentro la famiglia, la delinquenza non è un problema di struttura, ma di educazione.

In un mondo di sofferenze e difficoltà, tanti sono i raggi che la speranza e la carità cristiana emanano: la missione di Fratel Biagio Conte a Palermo, come quella di Padre Josaphat, missionario tra gli zingari, la Caritas di Cuenca in Spagna; esempi di come la diversità non sia per forza un male incurabile, ma possa divenire ricchezza nello scambio reciproco, nella
carità, nella gratuità, nella condivisione. Non più ciechi, quindi, ma collaboratori della pace, della giustizia, della solidarietà e dell’uguaglianza. A noi spetta riconoscere nel migrante il volto stesso di Gesù, migrante anche Lui, durante la fuga in Egitto; la sua vita è stata una costante ricerca ed affermazione della dignità umana.

Questa la ragione profonda de “La valigia dello spago”; ed in questa avventura la guida è rappresentata dalle parole di Benedetto XVI, quando era ancora Cardinale: “ La comprensione per le persone ai margini della società, ai margini della Chiesa, per i falliti ed i sofferenti, per coloro che porgono delle domande, per gli scoraggiati e gli abbandonati, così da
infondere fiducia e di suscitare la volontà di sostenersi vicendevolmente, è il vero nocciolo della moralità cristiana.” I testi e la regia de “La valigia con lo spago” sono di Luca De Mata.. La colonna sonora de “La valigia con lo spago” è del giovanissimo autore Aurelio Canonici. (Agenzia
Fides 26/6/2009; righe 40, parole 588)

Il sito de “La valigia con lo spago”

http://www.lavaligiaconlospago.tv
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Ricevo da Blog Cattolici e posto:

Roma (Agenzia Fides) - In onda su Rai Uno, a partire da lunedì 29 giugno in seconda serata per quattro settimane, “La valigia con lo spago” apre una
finestra nuova sull’universo dei migranti, facendo raccontare dalla loro viva voce cosa significa l’esperienza della speranza, trasformata spesso
in sofferenza e dolore. Nel corso delle quattro puntate, “La valigia con lo spago”, ci conduce in tutto il mondo, in Argentina, Moldavia, Slovacchia, Francia, Inghilterra, Spagna, Italia, Stati Uniti, Canada, Thailandia,
dove il dramma dei migranti è differente, ma profondamente uguale ed umano, e dove il nostro unico compito di cittadini, telespettatori, cristiani è
quello di riconoscere, guardare, ed abbracciare, come noi siamo stati abbracciati nell’incontro con la fede che determina la nostra vita.

Si passa in America, in cui il sogno americano non esiste più, nonostante
ogni anno migliaia di persone cerchino di varcare il deserto tra Messico e Stati Uniti; ed in questo viaggio trovano, per la maggior parte, la morte.
Come Lucrezia, che ha dato la poca acqua da bere ai suoi figli, Jesus e Nora, e li ha salvati dalla morte che, invece, ha colpito lei. Il sogno è infranto: si vive da clandestini, in un paese per cui si è fatto molto, dove l’immigrazione e le violenze sono state viste troppo da vicino.

In Moldavia il problema più grande è il numero di bambini abbandonati, circa 900 mila all’anno, da genitori che partono in cerca di fortuna, e che non tornano, o a causa della vergogna, o perché vittime della criminalità.
Soprattutto le donne, di ogni paese, purché giovani e belle, sono soggette alla macchia della tratta, meschinità perpetrata soprattutto a sfondo sessuale. “La valigia con lo spago” ci aiuta anche a liberarci di alcune convinzioni che la mentalità comune ha reso troppo ingombranti, nelle
nostre menti, per esempio, tutti i falsi miti che riguardano i rom: incontriamo,
fra gli altri migranti protagonisti del programma, una giovane donna, fuggita dalla famiglia rom, che racconta un dramma comprensibile a pochi:
“Nessuna di noi nasce ladra o prostituta, sono loro a piegarci con la violenza”. La violenza fin dentro la famiglia, la delinquenza non è un problema di struttura, ma di educazione.

In un mondo di sofferenze e difficoltà, tanti sono i raggi che la speranza e la carità cristiana emanano: la missione di Fratel Biagio Conte a Palermo, come quella di Padre Josaphat, missionario tra gli zingari, la Caritas di Cuenca in Spagna; esempi di come la diversità non sia per forza un male incurabile, ma possa divenire ricchezza nello scambio reciproco, nella
carità, nella gratuità, nella condivisione. Non più ciechi, quindi, ma collaboratori della pace, della giustizia, della solidarietà e dell’uguaglianza. A noi spetta riconoscere nel migrante il volto stesso di Gesù, migrante anche Lui, durante la fuga in Egitto; la sua vita è stata una costante ricerca ed affermazione della dignità umana.

Questa la ragione profonda de “La valigia dello spago”; ed in questa avventura la guida è rappresentata dalle parole di Benedetto XVI, quando era ancora Cardinale: “ La comprensione per le persone ai margini della società, ai margini della Chiesa, per i falliti ed i sofferenti, per coloro che porgono delle domande, per gli scoraggiati e gli abbandonati, così da
infondere fiducia e di suscitare la volontà di sostenersi vicendevolmente, è il vero nocciolo della moralità cristiana.” I testi e la regia de “La valigia con lo spago” sono di Luca De Mata.. La colonna sonora de “La valigia con lo spago” è del giovanissimo autore Aurelio Canonici. (Agenzia
Fides 26/6/2009; righe 40, parole 588)

Il sito de “La valigia con lo spago”

http://www.lavaligiaconlospago.tv

L’unità d’Italia nel Medio Evo? Un sogno tedesco


Parola ai lettori

Carissimo dottor Granzotto, vorrei prendermi una boccata d’aria pura e parlare di qualcosa che non sia la vita privata del capo del governo e quella pubblica delle varie escort che però ai miei tempi si chiamavano in altro modo. La questione che le pongo è questa: nel 2011 si celebreranno i centocinquant’anni dell’unità d’Italia e immagino che saremo sommersi da mostre, convegni, libri d’ogni genere. L’occhio sarà presumibilmente puntato sul Risorgimento e sulle figure dei «Padri della patria», magari con qualche «madre» perché ora vanno di moda le quote rosa. Ma se si parla di unità d’Italia non le sembra che bisognerebbe andare molto più indietro e ricordare che fu un «puer» tedesco, Federico II, a prefigurare per primo una Italia unita sotto una sola corona? O non se ne farà niente perché per via del dissenso con il Papato la figura dello «stupor mundi» non risulta politicamente corretta?

Fonte: Il Giornale del 25/06/2009 segnalazione Redazione Due Sicilie
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Parola ai lettori

Carissimo dottor Granzotto, vorrei prendermi una boccata d’aria pura e parlare di qualcosa che non sia la vita privata del capo del governo e quella pubblica delle varie escort che però ai miei tempi si chiamavano in altro modo. La questione che le pongo è questa: nel 2011 si celebreranno i centocinquant’anni dell’unità d’Italia e immagino che saremo sommersi da mostre, convegni, libri d’ogni genere. L’occhio sarà presumibilmente puntato sul Risorgimento e sulle figure dei «Padri della patria», magari con qualche «madre» perché ora vanno di moda le quote rosa. Ma se si parla di unità d’Italia non le sembra che bisognerebbe andare molto più indietro e ricordare che fu un «puer» tedesco, Federico II, a prefigurare per primo una Italia unita sotto una sola corona? O non se ne farà niente perché per via del dissenso con il Papato la figura dello «stupor mundi» non risulta politicamente corretta?

Fonte: Il Giornale del 25/06/2009 segnalazione Redazione Due Sicilie

Codex Alimentarius - Lento sterminio di massa

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Il basso imperatore del basso impero


Di Gianni Barbacetto


Il satrapo anziano, l'utilizzatore finale, l'uomo col cerone in faccia s'incammina tristemente verso il declino. Non sappiamo quanto durerà questa agonia, ma sappiamo che è già iniziata e che è irreversibile. Per quanto si sforzerà di dimostrarsi un uomo di Stato, chi lo guarda avrà sempre in mente le immagini delle feste a Palazzo Grazioli o a Villa Certosa, la ragazzina minorenne che viene da Casoria, l'harem delle squillo di lusso che lo chiamano "papi", le farfalline in regalo per tutte, il ballo stretto con la escort "Alessia", il lettone dove lei lo ha aspettato e dove ha passato la notte con lui. Fatti privati? Gossip? Complotto internazionale? I suoi dipendenti e i suoi servi, politici e giornalisti, ripetono il ritornello. Ma restano i fatti. Certo: il Tg1 di Augusto Minzolini, lo Squalo diventato acciuga, non li racconta. Certo: Alfonso Signorini, sugli house organ di famiglia (scusate la parola), "Chi" e "Il Giornale", tenta di mostrare un nonno affettuoso dall'immagine irreprensibile. Ma i fatti resistono perfino alla poderosa propaganda di regime.

C'è uno strano imprenditore barese, Gianpiero Tarantini, che procura appalti per sé e affari per altri con una intensa attività di lobbing a suon di sesso e droga, prostitute e cocaina. Riesce a diventare amico del presidente del Consiglio, inviandogli frotte di ragazze disponibili a fare da cornice alla sua vecchiaia di uomo potente e solo. Fatti privati, come dicono i servi? No, per molti motivi, che elenchiamo in ordine di peso crescente.
1. Il presidente del Consiglio non è un privato cittadino, che può fare nel suo letto ciò che vuole: è un uomo pubblico, deve avere uno stile di vita sobrio, adeguato al suo ruolo.
2. Deve mostrarsi anche coerente con i principi che professa: se si proclama cattolico e vuole i voti dei cattolici, non può contraddire troppo palesemente la morale cattolica.
3. Tarantini è un imprenditore il cui fine è realizzare affari, fare soldi: se il presidente del Consiglio accetta, come "utilizzatore finale", le ragazze che lui gli manda, poi per "ringraziarlo" dovrà dare in cambio qualcosa. Contatti? Appalti? Entrature? Ma questo scambio ha un nome: corruzione.
4. I comportamenti sessuali di una persona restano privati solo finché non interferiscono con il suo ruolo pubblico e istituzionale. Nel caso di "papi", le interferenze sono molteplici: ha chiesto assunzioni in Rai (tramite Saccà) per compensare le sue amichette; ha promesso candidature elettorali e carriere politiche a ragazze che lo avevano compiaciuto (alcune candidature sono state confermate, altre bloccate solo dopo le critiche di Fini e la denuncia di Veronica; del resto, anche la escort Patrizia D'Addario, in arte "Alessia", è stata candidata alle elezioni a Bari nella lista "La Puglia prima di tutto"); gli affari di letto diventano più importanti degli affari di Stato, se è vero che la notte del 4 novembre 2008 "papi" ha preferito trattenersi con le squillo piuttosto che partecipare, come programmato, alla notte elettorale in cui Obama è diventato presidente degli Stati Uniti.
5. Un uomo che ha incarichi istituzionali non deve mai mettersi in condizione di essere ricattabile. Perché ne andrebbero di mezzo non gli affari suoi, ma gli affari di Stato. Un uomo di Stato ricattabile è un pericolo per le istituzioni. E quanta ricattabilità si incontra nelle vicende di "papi", dalle telefonate dell'inchiesta Saccà (per esempio quelle tra Evelina Manna e Elena Russo) fino alle escort baresi.

In questo clima da basso impero, tra una festa e l'altra in stile brianzolo-briatoresco, la crisi economica continua, la disoccupazione sale, il pil scende. Per evitare il ridicolo, oltre che l'ingorgo in Parlamento, la maggioranza di governo ha fatto slittare a settembre la discussione della nuova legge sulla prostituzione, che punisce anche il cliente delle prostitute (l'«utilizzatore finale»). Va avanti invece sulle intercettazioni, con la tentazione di utilizzare la nuova legge-bavaglio per bloccare anche l'indagine di Bari. Intanto le ragazze coinvolte nelle feste si moltiplicano e si cominciano a individuare organizzatori e "api regine". Sul piano politico, si apprende quali sono i meriti acquisiti presso Berlusconi da una candidata al Parlamento europeo, Licia Ronzulli, molto spinta da "papi" e dal partito, tanto da superare in preferenze, lei giovane e sconosciuta, tanti politici più esperti e scafati: è stata l'organizzatrice delle feste a Villa Certosa, la responsabile della "logistica", efficientissima a smistare ospiti e ragazze. Questo è gossip o politica? (25 giugno 2009)

Fonte:Società civile
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Di Gianni Barbacetto


Il satrapo anziano, l'utilizzatore finale, l'uomo col cerone in faccia s'incammina tristemente verso il declino. Non sappiamo quanto durerà questa agonia, ma sappiamo che è già iniziata e che è irreversibile. Per quanto si sforzerà di dimostrarsi un uomo di Stato, chi lo guarda avrà sempre in mente le immagini delle feste a Palazzo Grazioli o a Villa Certosa, la ragazzina minorenne che viene da Casoria, l'harem delle squillo di lusso che lo chiamano "papi", le farfalline in regalo per tutte, il ballo stretto con la escort "Alessia", il lettone dove lei lo ha aspettato e dove ha passato la notte con lui. Fatti privati? Gossip? Complotto internazionale? I suoi dipendenti e i suoi servi, politici e giornalisti, ripetono il ritornello. Ma restano i fatti. Certo: il Tg1 di Augusto Minzolini, lo Squalo diventato acciuga, non li racconta. Certo: Alfonso Signorini, sugli house organ di famiglia (scusate la parola), "Chi" e "Il Giornale", tenta di mostrare un nonno affettuoso dall'immagine irreprensibile. Ma i fatti resistono perfino alla poderosa propaganda di regime.

C'è uno strano imprenditore barese, Gianpiero Tarantini, che procura appalti per sé e affari per altri con una intensa attività di lobbing a suon di sesso e droga, prostitute e cocaina. Riesce a diventare amico del presidente del Consiglio, inviandogli frotte di ragazze disponibili a fare da cornice alla sua vecchiaia di uomo potente e solo. Fatti privati, come dicono i servi? No, per molti motivi, che elenchiamo in ordine di peso crescente.
1. Il presidente del Consiglio non è un privato cittadino, che può fare nel suo letto ciò che vuole: è un uomo pubblico, deve avere uno stile di vita sobrio, adeguato al suo ruolo.
2. Deve mostrarsi anche coerente con i principi che professa: se si proclama cattolico e vuole i voti dei cattolici, non può contraddire troppo palesemente la morale cattolica.
3. Tarantini è un imprenditore il cui fine è realizzare affari, fare soldi: se il presidente del Consiglio accetta, come "utilizzatore finale", le ragazze che lui gli manda, poi per "ringraziarlo" dovrà dare in cambio qualcosa. Contatti? Appalti? Entrature? Ma questo scambio ha un nome: corruzione.
4. I comportamenti sessuali di una persona restano privati solo finché non interferiscono con il suo ruolo pubblico e istituzionale. Nel caso di "papi", le interferenze sono molteplici: ha chiesto assunzioni in Rai (tramite Saccà) per compensare le sue amichette; ha promesso candidature elettorali e carriere politiche a ragazze che lo avevano compiaciuto (alcune candidature sono state confermate, altre bloccate solo dopo le critiche di Fini e la denuncia di Veronica; del resto, anche la escort Patrizia D'Addario, in arte "Alessia", è stata candidata alle elezioni a Bari nella lista "La Puglia prima di tutto"); gli affari di letto diventano più importanti degli affari di Stato, se è vero che la notte del 4 novembre 2008 "papi" ha preferito trattenersi con le squillo piuttosto che partecipare, come programmato, alla notte elettorale in cui Obama è diventato presidente degli Stati Uniti.
5. Un uomo che ha incarichi istituzionali non deve mai mettersi in condizione di essere ricattabile. Perché ne andrebbero di mezzo non gli affari suoi, ma gli affari di Stato. Un uomo di Stato ricattabile è un pericolo per le istituzioni. E quanta ricattabilità si incontra nelle vicende di "papi", dalle telefonate dell'inchiesta Saccà (per esempio quelle tra Evelina Manna e Elena Russo) fino alle escort baresi.

In questo clima da basso impero, tra una festa e l'altra in stile brianzolo-briatoresco, la crisi economica continua, la disoccupazione sale, il pil scende. Per evitare il ridicolo, oltre che l'ingorgo in Parlamento, la maggioranza di governo ha fatto slittare a settembre la discussione della nuova legge sulla prostituzione, che punisce anche il cliente delle prostitute (l'«utilizzatore finale»). Va avanti invece sulle intercettazioni, con la tentazione di utilizzare la nuova legge-bavaglio per bloccare anche l'indagine di Bari. Intanto le ragazze coinvolte nelle feste si moltiplicano e si cominciano a individuare organizzatori e "api regine". Sul piano politico, si apprende quali sono i meriti acquisiti presso Berlusconi da una candidata al Parlamento europeo, Licia Ronzulli, molto spinta da "papi" e dal partito, tanto da superare in preferenze, lei giovane e sconosciuta, tanti politici più esperti e scafati: è stata l'organizzatrice delle feste a Villa Certosa, la responsabile della "logistica", efficientissima a smistare ospiti e ragazze. Questo è gossip o politica? (25 giugno 2009)

Fonte:Società civile

giovedì 25 giugno 2009

Lo scandalo del depuratore di Cuma: un disastro che dura da oltre 25 anni...


“La depurazione è il sistema tecnologico che si realizza e si attiva per eliminare dai corpi liquidi e gassosi sostanze estranee o inquinanti. Si svolge un processo composto da una serie di azioni programmate di carattere meccanico, fisico e biologico.”

Tutto ha inizio alla fine degli anni ’70 quando la Italimpianti S.p.a,la stessa ditta che ha costruito parte degli impianti ormai dismessi di Bagnoli, iniziò la costruzione di un depuratore per la depurazione delle acque reflue dei comuni dell’area compresa tra i campi flegrei e parte del litorale domitio.
I lavori furono completati negli anni ’80,completati per modo di dire infatti già nel 1986,quattro anni dopo l’apertura,l’impianto fu chiuso su ordinanza del presidente della Provincia Antonio Somma che decise “per la chiusura dell' impianto fino a quando la Casmez non avrà risolto i problemi tecnici”.
Questi “problemi tecnici” consistevano nella quantità spropositata di idrogeno solforato liberato nell’aria dall’impianto che risultava superiore ai livelli di tollerabilità. Le analisi dell’amministrazione provinciale hanno sentenziato una pericolosità (anche 150 microgrammi per metro cubo) ben oltre il limite accettabile di quaranta microgrammi. Le analisi effettuate su campioni di fanghi essiccati, inoltre, rilevarono percentuali crescenti di cromo, tali da farli ritenere “tossici e nocivi”.
La regione però si prodigò per la riapertura che puntualmente avvenne.
Si decise di riaprire l’impianto solo a metà, consentendo “il trattamento biologico delle acque nere” mentre fu bloccato “la linea dei fanghi prodotti dalla depurazione dei liquami”. Si trattò quindi di un compromesso politico,di una pagliacciata che vide come attori protagonisti Regione,sindaco di Napoli,Provincia,Casmez e tecnici che si azzuffarono sul da farsi non concludendo nulla, decidendo infine di riaprire il depuratore,ma solo a metà servizio,in attesa dei lavori di adeguamento affidati alla Casmez.
In sostanza non si poteva chiudere un’opera costata ben 200 miliardi di lire del tempo,rovinando in questo modo l’immagine dei numerosi politici che si vantavano di aver risolto il problema degli scarichi fognari: il depuratore doveva restare aperto a tutti i costi.
L’allora sindaco di Napoli Carlo d’Amato dichiarò che “L'impianto che è costato duecento miliardi ha esercitato, al di là delle tracce di inquinamento atmosferico un effetto risolutivo sulle condizioni del mare”. Secondo il sindaco quindi non era importante che l’impianto immettesse nell’aria sostanze pericolose, l’importante era che il mare fosse (anzi sembrasse) ”pulito”. In altre parole era conveniente non inquinare il mare, inquinando l’aria.

Inutile dire che i lavori della Casmez non sono mai partiti, la Cassa per il Mezzogiorno fu soppressa proprio in quell’anno da Bettino Craxi e tutt’oggi è in corso un’inchiesta per verificare l’operato di questo fondo speciale per il Sud;l’eredità della Casmez è infatti pesante si parla di circa 22.000 pratiche ancora aperte per una somma che si aggira attorno ai 7 mila miliardi tra contenzioso e fondi per completare i lavori in sospeso.

A finanziare i lavori di adeguamento però ci ha pensato la Regione Campania che nel 2000 ha stanziato 1350 miliardi (in project financing)per la “realizzazione e gestione di sistemi di depurazione”. Nelle voci di spesa di questo “
Strumento di Programmazione” figurano investimenti per “Cuma: Impianto di depurazione di Cuma - Impianto di sollevamento Alveo Camaldoli e Licola Mare” e per “Cuma: Ristrutturazione statica e funzionale del collettore”.

I lavori anche questa volta però non si sa per quale motivo non sono partiti; pare che la Tme Spa Termomeccanica Ecologica,la ditta che doveva attuare i lavori,abbia presentato al Commissariato di governo un progetto lacunoso e erroneo. Fatto sta che i lavori non sono partiti, come risulta da un rapporto dell’
“ENEA” del 2001 l’impianto non risulta per nulla a norma con le normative vigenti ma anzi presenta carenze strutturali. Secondo il rapporto risulta che:

“·Non tutti i collettamenti fognari previsti dal progetto sono stati realizzati.
· Il canale di alimentazione impianto nel tratto finale risulta intasato da sabbie e da sedime in modo particolarmente grave[…]presenza di odori e pessime condizioni igieniche sanitarie.
· Presenza di scarichi abusivi di natura industriale

· Pretrattamenti di grigliatura e dissabbiatura fuori uso

· La centrale di cogenerazione e l’unità di desolforazione sono fuori esercizio.

[…]Il responsabile dell’impianto ci ha informato solo della presenza di nitriti al di sopra dei limiti consentiti.

In conclusione nel rapporto veniva ribadito circa lo stato generale delle opere:

· Obsolescenza delle opere e delle apparecchiature
· Cattivo stato di conservazione delle opere in esercizio
· Carenza di manutenzione straordinaria delle opere elettromeccaniche

Nel 2006 la regione ha stanziato nuovamente 63 milioni e 700 mila. La gara è stata vinta dal Consorzio "Uniter C.S. a r.l."e lo scopo dei lavori erano il risanamento statico dell’impianto,la progettazione di sistemi integrati di condotte a mare allo scopo di allontanare dal litorale le acque reflue e molti interventi per evitare che le acque malsane finissero nel lago d’Averno e sul litorale domitio.

Sempre nel 2006 si è poi conclusa la gara che era stata avviata nel 2003 dalla Regione per affidare la gestione dell’impianto, la gara è stata vinta dalla “Hidrogest Spa” che ha avuto in concessione l’impianto per quindici anni.
Ma i guai non sono finiti, infatti il sito è stato perquisito più volte dalla polizia Ecologica e nel 2009 durante un incontro tenutosi presso il municipio di Pozzuoli, cui hanno preso parte l'assessore all'ambiente del capoluogo flegreo, Michelangelo Luongo, alcuni tecnici dell'Asl e un rappresentante della Hydrogest, è stato ribadito che il che “l'impianto di Cuma non ha l'autorizzazione per lo scarico in mare e che a tutt'oggi non sono stati avviati i lavori per l'adeguamento dell'impianto” in quanto il depuratore non rispetta i limiti massimi di alcune sostanze chimiche contenute nei liquami che finiscono in mare dopo il trattamento presso l'impianto.

Insomma,siamo tornati al punto di partenza,è dal 1986 che l’impianto necessita di lavori di adeguamento che ad oggi (nel 2009 per chi non lo sapesse) non sono stati ancora effettuati.

Come se non bastasse il sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, ha di recente denunciato che anche «L’ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli scarica i suoi rifiuti direttamente in mare, saltando l’impianto di depurazione»,il tutto dovuto al mancato funzionamento del derivatore di Toiano”.

Tutto questo scempio in una delle zone più belle della Campania,ricca di beni archeologici e paesaggistici.
L’ecosistema di Cuma, il cui habitat naturale è ritenuto sito di importanza comunitaria (SIC) e zona di protezione speciale (ZPS), “comprende una vasta banda dunare caratterizzata da una vegetazione variegata e non esente da rarità; per quanto riguarda la fauna, molteplici sono le varietà di uccelli che vi trovano riparo, palustri e migratori, incluse talune specie rare quali aironi e cormorani”. C’è inoltre la possibilità che una specie al limite d’estinzione, la tartaruga caretta caretta sia minacciata.” L’intera area è stata altresì inserita nel parco Regionale dei Campi Flegrei e qualificata come “area di riserva generale” (zona B) e pertanto protetta da rigide regole che non dovrebbero essere violate. Nonostante tutto questo il malfunzionamento della struttura ha fatto si che tutta la fascia costiera interessata dallo sversamento nelle acque del depuratore ricevesse la Bandiera Nera di Legambiente,distruggendo ben 40 km di costa.

A questo agghiacciante resoconto c’è veramente poco da aggiungere.
Il depuratore di Cuma risulta essere l’emblema di quanto di cattivo c’è nella nostra regione e in coloro che ci governano e ci hanno governato.
E’tutto compreso in pochi chilometri quadrati, non manca nulla:c’è l’incapacità e la disonestà di una intera classe politica,c’è lo spreco di danaro pubblico,c’è la violazione delle leggi sulla salvaguardia dell’ambiente,c’è l’infiltrazione della criminalità organizzata negli appalti pubblici, c’è quel lassismo che permette che un’opera non sia completata dopo più di venticinque anni dalla sua costruzione,c’è il permissivismo di tutti coloro che dovevano controllare e che non lo hanno fatto,c’è l’assenza dello Stato e c’è il degrado,ma soprattutto c’è un senso di abbandono percepito da tutti quei cittadini che vivono nella melma…

Fonte:
Free Campania
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“La depurazione è il sistema tecnologico che si realizza e si attiva per eliminare dai corpi liquidi e gassosi sostanze estranee o inquinanti. Si svolge un processo composto da una serie di azioni programmate di carattere meccanico, fisico e biologico.”

Tutto ha inizio alla fine degli anni ’70 quando la Italimpianti S.p.a,la stessa ditta che ha costruito parte degli impianti ormai dismessi di Bagnoli, iniziò la costruzione di un depuratore per la depurazione delle acque reflue dei comuni dell’area compresa tra i campi flegrei e parte del litorale domitio.
I lavori furono completati negli anni ’80,completati per modo di dire infatti già nel 1986,quattro anni dopo l’apertura,l’impianto fu chiuso su ordinanza del presidente della Provincia Antonio Somma che decise “per la chiusura dell' impianto fino a quando la Casmez non avrà risolto i problemi tecnici”.
Questi “problemi tecnici” consistevano nella quantità spropositata di idrogeno solforato liberato nell’aria dall’impianto che risultava superiore ai livelli di tollerabilità. Le analisi dell’amministrazione provinciale hanno sentenziato una pericolosità (anche 150 microgrammi per metro cubo) ben oltre il limite accettabile di quaranta microgrammi. Le analisi effettuate su campioni di fanghi essiccati, inoltre, rilevarono percentuali crescenti di cromo, tali da farli ritenere “tossici e nocivi”.
La regione però si prodigò per la riapertura che puntualmente avvenne.
Si decise di riaprire l’impianto solo a metà, consentendo “il trattamento biologico delle acque nere” mentre fu bloccato “la linea dei fanghi prodotti dalla depurazione dei liquami”. Si trattò quindi di un compromesso politico,di una pagliacciata che vide come attori protagonisti Regione,sindaco di Napoli,Provincia,Casmez e tecnici che si azzuffarono sul da farsi non concludendo nulla, decidendo infine di riaprire il depuratore,ma solo a metà servizio,in attesa dei lavori di adeguamento affidati alla Casmez.
In sostanza non si poteva chiudere un’opera costata ben 200 miliardi di lire del tempo,rovinando in questo modo l’immagine dei numerosi politici che si vantavano di aver risolto il problema degli scarichi fognari: il depuratore doveva restare aperto a tutti i costi.
L’allora sindaco di Napoli Carlo d’Amato dichiarò che “L'impianto che è costato duecento miliardi ha esercitato, al di là delle tracce di inquinamento atmosferico un effetto risolutivo sulle condizioni del mare”. Secondo il sindaco quindi non era importante che l’impianto immettesse nell’aria sostanze pericolose, l’importante era che il mare fosse (anzi sembrasse) ”pulito”. In altre parole era conveniente non inquinare il mare, inquinando l’aria.

Inutile dire che i lavori della Casmez non sono mai partiti, la Cassa per il Mezzogiorno fu soppressa proprio in quell’anno da Bettino Craxi e tutt’oggi è in corso un’inchiesta per verificare l’operato di questo fondo speciale per il Sud;l’eredità della Casmez è infatti pesante si parla di circa 22.000 pratiche ancora aperte per una somma che si aggira attorno ai 7 mila miliardi tra contenzioso e fondi per completare i lavori in sospeso.

A finanziare i lavori di adeguamento però ci ha pensato la Regione Campania che nel 2000 ha stanziato 1350 miliardi (in project financing)per la “realizzazione e gestione di sistemi di depurazione”. Nelle voci di spesa di questo “
Strumento di Programmazione” figurano investimenti per “Cuma: Impianto di depurazione di Cuma - Impianto di sollevamento Alveo Camaldoli e Licola Mare” e per “Cuma: Ristrutturazione statica e funzionale del collettore”.

I lavori anche questa volta però non si sa per quale motivo non sono partiti; pare che la Tme Spa Termomeccanica Ecologica,la ditta che doveva attuare i lavori,abbia presentato al Commissariato di governo un progetto lacunoso e erroneo. Fatto sta che i lavori non sono partiti, come risulta da un rapporto dell’
“ENEA” del 2001 l’impianto non risulta per nulla a norma con le normative vigenti ma anzi presenta carenze strutturali. Secondo il rapporto risulta che:

“·Non tutti i collettamenti fognari previsti dal progetto sono stati realizzati.
· Il canale di alimentazione impianto nel tratto finale risulta intasato da sabbie e da sedime in modo particolarmente grave[…]presenza di odori e pessime condizioni igieniche sanitarie.
· Presenza di scarichi abusivi di natura industriale

· Pretrattamenti di grigliatura e dissabbiatura fuori uso

· La centrale di cogenerazione e l’unità di desolforazione sono fuori esercizio.

[…]Il responsabile dell’impianto ci ha informato solo della presenza di nitriti al di sopra dei limiti consentiti.

In conclusione nel rapporto veniva ribadito circa lo stato generale delle opere:

· Obsolescenza delle opere e delle apparecchiature
· Cattivo stato di conservazione delle opere in esercizio
· Carenza di manutenzione straordinaria delle opere elettromeccaniche

Nel 2006 la regione ha stanziato nuovamente 63 milioni e 700 mila. La gara è stata vinta dal Consorzio "Uniter C.S. a r.l."e lo scopo dei lavori erano il risanamento statico dell’impianto,la progettazione di sistemi integrati di condotte a mare allo scopo di allontanare dal litorale le acque reflue e molti interventi per evitare che le acque malsane finissero nel lago d’Averno e sul litorale domitio.

Sempre nel 2006 si è poi conclusa la gara che era stata avviata nel 2003 dalla Regione per affidare la gestione dell’impianto, la gara è stata vinta dalla “Hidrogest Spa” che ha avuto in concessione l’impianto per quindici anni.
Ma i guai non sono finiti, infatti il sito è stato perquisito più volte dalla polizia Ecologica e nel 2009 durante un incontro tenutosi presso il municipio di Pozzuoli, cui hanno preso parte l'assessore all'ambiente del capoluogo flegreo, Michelangelo Luongo, alcuni tecnici dell'Asl e un rappresentante della Hydrogest, è stato ribadito che il che “l'impianto di Cuma non ha l'autorizzazione per lo scarico in mare e che a tutt'oggi non sono stati avviati i lavori per l'adeguamento dell'impianto” in quanto il depuratore non rispetta i limiti massimi di alcune sostanze chimiche contenute nei liquami che finiscono in mare dopo il trattamento presso l'impianto.

Insomma,siamo tornati al punto di partenza,è dal 1986 che l’impianto necessita di lavori di adeguamento che ad oggi (nel 2009 per chi non lo sapesse) non sono stati ancora effettuati.

Come se non bastasse il sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, ha di recente denunciato che anche «L’ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli scarica i suoi rifiuti direttamente in mare, saltando l’impianto di depurazione»,il tutto dovuto al mancato funzionamento del derivatore di Toiano”.

Tutto questo scempio in una delle zone più belle della Campania,ricca di beni archeologici e paesaggistici.
L’ecosistema di Cuma, il cui habitat naturale è ritenuto sito di importanza comunitaria (SIC) e zona di protezione speciale (ZPS), “comprende una vasta banda dunare caratterizzata da una vegetazione variegata e non esente da rarità; per quanto riguarda la fauna, molteplici sono le varietà di uccelli che vi trovano riparo, palustri e migratori, incluse talune specie rare quali aironi e cormorani”. C’è inoltre la possibilità che una specie al limite d’estinzione, la tartaruga caretta caretta sia minacciata.” L’intera area è stata altresì inserita nel parco Regionale dei Campi Flegrei e qualificata come “area di riserva generale” (zona B) e pertanto protetta da rigide regole che non dovrebbero essere violate. Nonostante tutto questo il malfunzionamento della struttura ha fatto si che tutta la fascia costiera interessata dallo sversamento nelle acque del depuratore ricevesse la Bandiera Nera di Legambiente,distruggendo ben 40 km di costa.

A questo agghiacciante resoconto c’è veramente poco da aggiungere.
Il depuratore di Cuma risulta essere l’emblema di quanto di cattivo c’è nella nostra regione e in coloro che ci governano e ci hanno governato.
E’tutto compreso in pochi chilometri quadrati, non manca nulla:c’è l’incapacità e la disonestà di una intera classe politica,c’è lo spreco di danaro pubblico,c’è la violazione delle leggi sulla salvaguardia dell’ambiente,c’è l’infiltrazione della criminalità organizzata negli appalti pubblici, c’è quel lassismo che permette che un’opera non sia completata dopo più di venticinque anni dalla sua costruzione,c’è il permissivismo di tutti coloro che dovevano controllare e che non lo hanno fatto,c’è l’assenza dello Stato e c’è il degrado,ma soprattutto c’è un senso di abbandono percepito da tutti quei cittadini che vivono nella melma…

Fonte:
Free Campania

 
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