sabato 14 agosto 2010

E Locarno "processa" la Cina





Il regista Xu Xin firma un documentario di sei ore sulla strage di bambini a Karamay


ALESSANDRA LEVANTESI KEZICH

LOCARNO

Nella regione di Xinjiang, nel nord-ovest della Cina, sorge la cittadina petrolifera di Karamay dove nel ‘53 venne costruito un teatro intitolato all’amicizia con i sovietici e ribattezzato alla semplice «amicizia» dopo il deterioramento dei rapporti con l’Urss. Questo imponente edificio fu distrutto l’8 dicembre del 1994 da un incendio in cui perirono 323 persone, 288 delle quali erano bambini fra i sei e i 14 anni e le altre, in prevalenza, insegnanti. Quel giorno fatale, quando le fiamme divamparono all’improvviso, era in corso una recita scolastica dei migliori allievi delle elementari e delle medie: ma la strage si sarebbe potuto evitare, o comunque se ne sarebbero potuti contenere i danni, se qualcuno non avesse ordinato ai ragazzini di stare fermi e quieti per consentire alle autorità presenti in sala di filarsela.

Ora un documentario lungo sei ore, Karamay, in concorso a Locarno, rievoca la storia che il governo cinese ha cercato di seppellire. Lo firma Xu Xin, un regista che, nonostante il ferreo clima di censura del suo Paese, si ostina coraggiosamente a misurarsi con temi scomodi. In questo caso, partendo dall’idea di indagare sul modo in cui i congiunti degli scomparsi erano riusciti a convivere con il loro tremendo lutto, il cineasta ha scoperto altre vergognose verità. Delle otto uscite di emergenza del teatro, sette erano bloccate e nessuno ha provveduto a farle aprire, i pompieri sono arrivati con 45 minuti di ritardo e privi delle scorte d’acqua necessarie, il teatro non era in regola con le norme di sicurezza. In seguito all’incidente, i papaveri dell’apparato si affrettarono a dichiarare «martiri nazionali» i piccoli defunti, poi fecero di tutto per ignorarli e cancellarne la memoria; e, quando nel ‘95 una delegazione di genitori affranti si è recata a Pechino a reclamare chiarezza e giustizia, le guardie li hanno caricati su cinque bus, portati all’aeroporto e rispediti a casa.

Il documentario si apre su una plumbea alba nel cimitero di Xiaoxihu dove, in occasione di ogni anniversario, i familiari si recano a trovare i cari estinti. Sono trascorsi anni, ma la rabbia e la sofferenza non si sono placati. Padri e madri si avvicendano sullo schermo e parlano di vite distrutte, matrimoni spezzati, malattie provocate dalle disperazione, accusando un governo che non dà loro il conforto della verità, che non si scusa: «Li hanno chiamati martiri per far dimenticare che sono vittime», «Ho insegnato a mio figlio a essere buono e disciplinato, ma a salvarsi sono stati quelli che hanno disubbidito», «Non ho più nessuna fiducia nel potere. Alla tivù raccontano solo frottole», «Molti hanno paura a parlare, ma io non posso morire prima di aver dato a mia figlia la pace della verità. Gliel’ho giurato».

È un coro inconsolabile e furente, da cui emerge un quadro di ingiustificata trascuratezza, gravi omissioni e colpevoli rimozioni; uno scenario che purtroppo, tristemente, ne riecheggia altri a noi molto, molto vicini.

Fonte:La Stampa


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Il regista Xu Xin firma un documentario di sei ore sulla strage di bambini a Karamay


ALESSANDRA LEVANTESI KEZICH

LOCARNO

Nella regione di Xinjiang, nel nord-ovest della Cina, sorge la cittadina petrolifera di Karamay dove nel ‘53 venne costruito un teatro intitolato all’amicizia con i sovietici e ribattezzato alla semplice «amicizia» dopo il deterioramento dei rapporti con l’Urss. Questo imponente edificio fu distrutto l’8 dicembre del 1994 da un incendio in cui perirono 323 persone, 288 delle quali erano bambini fra i sei e i 14 anni e le altre, in prevalenza, insegnanti. Quel giorno fatale, quando le fiamme divamparono all’improvviso, era in corso una recita scolastica dei migliori allievi delle elementari e delle medie: ma la strage si sarebbe potuto evitare, o comunque se ne sarebbero potuti contenere i danni, se qualcuno non avesse ordinato ai ragazzini di stare fermi e quieti per consentire alle autorità presenti in sala di filarsela.

Ora un documentario lungo sei ore, Karamay, in concorso a Locarno, rievoca la storia che il governo cinese ha cercato di seppellire. Lo firma Xu Xin, un regista che, nonostante il ferreo clima di censura del suo Paese, si ostina coraggiosamente a misurarsi con temi scomodi. In questo caso, partendo dall’idea di indagare sul modo in cui i congiunti degli scomparsi erano riusciti a convivere con il loro tremendo lutto, il cineasta ha scoperto altre vergognose verità. Delle otto uscite di emergenza del teatro, sette erano bloccate e nessuno ha provveduto a farle aprire, i pompieri sono arrivati con 45 minuti di ritardo e privi delle scorte d’acqua necessarie, il teatro non era in regola con le norme di sicurezza. In seguito all’incidente, i papaveri dell’apparato si affrettarono a dichiarare «martiri nazionali» i piccoli defunti, poi fecero di tutto per ignorarli e cancellarne la memoria; e, quando nel ‘95 una delegazione di genitori affranti si è recata a Pechino a reclamare chiarezza e giustizia, le guardie li hanno caricati su cinque bus, portati all’aeroporto e rispediti a casa.

Il documentario si apre su una plumbea alba nel cimitero di Xiaoxihu dove, in occasione di ogni anniversario, i familiari si recano a trovare i cari estinti. Sono trascorsi anni, ma la rabbia e la sofferenza non si sono placati. Padri e madri si avvicendano sullo schermo e parlano di vite distrutte, matrimoni spezzati, malattie provocate dalle disperazione, accusando un governo che non dà loro il conforto della verità, che non si scusa: «Li hanno chiamati martiri per far dimenticare che sono vittime», «Ho insegnato a mio figlio a essere buono e disciplinato, ma a salvarsi sono stati quelli che hanno disubbidito», «Non ho più nessuna fiducia nel potere. Alla tivù raccontano solo frottole», «Molti hanno paura a parlare, ma io non posso morire prima di aver dato a mia figlia la pace della verità. Gliel’ho giurato».

È un coro inconsolabile e furente, da cui emerge un quadro di ingiustificata trascuratezza, gravi omissioni e colpevoli rimozioni; uno scenario che purtroppo, tristemente, ne riecheggia altri a noi molto, molto vicini.

Fonte:La Stampa


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