venerdì 13 agosto 2010

Garibaldini e borbonici, l'assedio che non finì mai


Di Luca Di Ciaccio

In una sera d’estate una cena nelle campagne gaetane finisce con un’acerrima divisione della tavolata (con commensali, peraltro, di bassa età media) tra sudisti e nordisti. Oppure filo-borbonici e filo-piemontesi. Oppure garibaldini e briganti. Fate voi. Gli uni a dire che la rispettabile potenza mediterranea delle Due Sicilie fu fatta fuori con un colpo di mano liberista, che provocò rovine e miserie nelle popolazione meridionali, trattate come selvaggi da conquistare in punta di fucile. Gli altri a ribadire che non poteva essere più rimandato il tempo di imporre gli ideali liberali, rendendo la nazione italiana unita e affrancata dalle dominazioni straniere e papiste. Ebbene, nella “fedelissima” fortezza decaduta è ancora consentito fare notte fonda a discutere se l’Unità d’Italia fu un’inevitabile chiavica o una barcollante impresa. I vecchi spalti di Monte Orlando, ora tristemente divorati dalle erbacce, ancora conservano memoria della giovane regina Sofia che passava le lunghe giornate dell’assedio del 1861 a incoraggiare gli artiglieri, curare i soldati feriti, spesso traditi dai loro stessi generali, confortare i civili devastati dalle bombe e dalle epidemie, e pure a fare le corna alle truppe piemontesi stipate dall’altra parte del Golfo. Mentre dal cielo di questa Italia così faticosa da unificare piovevano migliaia di bombe e proiettili. Si può morire fedelissimi e rinascere apatici, si chiede qualcuno in vena di riflessioni sulla gaetanità.

Oggi l’assedio del 1861, ultimo dei diciassette assedi della lunga storia gaetana, rappresenta un pezzo di memoria cittadina, una porzione di coscienza campanilista dove si affettano ambizioni e frustrazioni, desideri del presente e nostalgie del passato, strategie televisive e tattiche elettorali, visioni di destra e di sinistra, di lotta e di governo. Riecheggia sui palchi dei comizi o ai tavoli di un bar, sugli scranni del consiglio comunale o tra gli scaffali delle librerie. Nella Gaeta smarrita degli anni duemila, desiderosa di rivincite, tira aria di riscoperta identitaria, di revival storiografico. “E’ l’anima gaetana che ritorna” dice l’ex tabaccaio ed ex comunista Antonio Ciano, che dai pamphlet meridionalisti alle lezioni di storia sulla telestreet ora è arrivato a sedere sulla poltrona di assessore al Demanio, e scrive lettere al governo per far restituire alla città pezzi di territorio sottratti e in abbandono. Qui come altrove la storia può essere anche un affare. Ma dove se ne va l’anima di un paese quando si perde? In quelle pagine cupe della storia paesana, tra le pieghe di una nazione che ancora non c’era, si sono smarrite le chiavi di Gaeta.

Furono giorni tremendi, quelli tra il novembre 1860 e il 13 febbraio 1861: sessantamila proiettili furono sparati dai piemontesi sulla Gaeta assediata, altri quarantamila furono sparati dai borbonici asserragliati, case distrutte dalle bombe, abitanti del borgo usati come scudi umani, carcasse e cadaveri da seppellire sotto le piazze, epidemie di tifo e di colera. Si sviluppavano incendi, crollavano muri e parapetti, saltavano blindature, ammutolavano cannoni e morivano uomini. Un giorno di gennaio i piemontesi colpirono la polveriera Sant’Antonio, vicino la spianata di Montesecco. Lo scoppio fu tremendo, la terra tremò per parecchi chilometri, si alzarono colonne di fumo e polevere che oscurarono il cielo. Il bastione e le vicine case del borgo erano scomparse. Al loro posto un’enorme voragine piena di cadaveri, macerie, brandelli umani e feriti urlanti. Soccoritori che correvano sotto i tiri del fuoco nemico. Rileggere i diari dell’assedio è come assistere alle più truci cronache delle guerre di oggi. Gaeta come tutte le Bagdad e tutte le Saigon di ogni tempo? Quante macchie di sangue si porta dietro il tappeto tarlato della nostra vicenda nazionale? Cambiano le tecnologie, i confini e le artiglierie ma sempre rimangono gli stessi istinti in fondo all’animo degli uomini. La storia è un percorso a ostacoli che si ricostruisce ad ogni tappa. Chi è sopravvissuto sa, chi viene dopo distorce la memoria, se ne appropria. Gli psicoanalisti inducono a riesumare il passato, fanno scrivere quadernetti di esperienze perché nulla vada perduto. E se succedesse? Se non ci fossero più monumenti ai militi ignoti, ossari dei caduti, cimiteri dei nostri e altrui smarriti amori? Se tutto questo sparisse nell'imbuto del lavandino dove ci sciacquiamo la faccia prima di affrontare una nuova giornata?

Dal molo di Gaeta partivano gli sconfitti, all’alba di giorni ignoti. Un dogmatico Papa nel 1849, dritto verso le turbolenze della storia. Una coppia di sovrani umiliati senza aver perso l’onore, nel 1861. Un Duce carico di disastri e tradimenti in una mattina di fine luglio del 1943. Solo per citarne alcuni. I gaetani alle finestre ricordano tutto, seppelliscono le umiliazioni col disincanto, l’onore con l’astio, ma forse meriterebbero di dimenticare. “Preferisco i miei infortuni ai trionfi degli avversari” disse il re Francesco II di Borbone, detto Franceschiello, in uno dei suoi ultimi proclami. A volte sembra che l’assedio di Gaeta non finì mai, rimanendo in fondo all’animo dei gaetani. Come una Fortezza che seppe trasformarsi in Deserto dei Tartari. Ora. Per una parte della storiografia sempre più vasta è difficile negare che gli anni del benemerito Risorgimento, visti dal Sud, furono anni di repressione, di sopraffazione, di stragi di Stato, di guerra civile. La concezione dello Stato come corpo estraneo, il grande Meridione di sudditi infidi e carte false vengono anche da lì. L’eterna tentazione italiana delle repressione e dello stato d’emergenza e del complotto, anche quelle vengono da lì. “Come se non si dovesse parlare male di Garibaldi, come si diceva quando ero bambino” raccontava Vittorio Foa. Eppure il “mannaggia a Garibaldi” risuonava nelle nostra antiche campagne già meridionali, come l’imprecazione verso un eroe malsopportato. I toponomastici gaetani perfidamente intitolarono, un secolo fa, all’eroe Garibaldi di cui quest’anno ricorre il bicentenario, la via che portava al cimitero. Come in una bella canzone di Vecchioni, “i nostri figli andranno per il mondo, e non verrano i piemontesi ad assalire Gaeta”. Ma Garibaldi si fermò prima dell’assedio gaetano, da rivoluzionario obbediente al Re. E pure lui arrivò consapevole alla morte: con la sensazione di essere già un sopravvissuto, trasformato in statua, seppellito e riesumato a ogni cambio di stagione, indossato come la maschera di un attore senz’anima. Ma si deve avere memoria di queste terre, della sostanza di cui si è fatti e dell’aria che si è respirato, per consentirsi la libertà di pensare a certi sconfitti della storia come degli eroi. Fosse la prima delle regine, uno qualunque dei soldati, o l’ultimo dei cuochi di truppa. Oppure uno di quei briganti, c’è chi dice fossero banditi, e chi in cuor suo sa che furono partigiani. In uno dei tanti posti dove, come cantava De Gregori col suo Cuoco di Salò, “qui si fa l’Italia e si muore”. Nazione troppo giovane, troppo piena di tanti vuoti da riempire.


Fonte:Ludik


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Di Luca Di Ciaccio

In una sera d’estate una cena nelle campagne gaetane finisce con un’acerrima divisione della tavolata (con commensali, peraltro, di bassa età media) tra sudisti e nordisti. Oppure filo-borbonici e filo-piemontesi. Oppure garibaldini e briganti. Fate voi. Gli uni a dire che la rispettabile potenza mediterranea delle Due Sicilie fu fatta fuori con un colpo di mano liberista, che provocò rovine e miserie nelle popolazione meridionali, trattate come selvaggi da conquistare in punta di fucile. Gli altri a ribadire che non poteva essere più rimandato il tempo di imporre gli ideali liberali, rendendo la nazione italiana unita e affrancata dalle dominazioni straniere e papiste. Ebbene, nella “fedelissima” fortezza decaduta è ancora consentito fare notte fonda a discutere se l’Unità d’Italia fu un’inevitabile chiavica o una barcollante impresa. I vecchi spalti di Monte Orlando, ora tristemente divorati dalle erbacce, ancora conservano memoria della giovane regina Sofia che passava le lunghe giornate dell’assedio del 1861 a incoraggiare gli artiglieri, curare i soldati feriti, spesso traditi dai loro stessi generali, confortare i civili devastati dalle bombe e dalle epidemie, e pure a fare le corna alle truppe piemontesi stipate dall’altra parte del Golfo. Mentre dal cielo di questa Italia così faticosa da unificare piovevano migliaia di bombe e proiettili. Si può morire fedelissimi e rinascere apatici, si chiede qualcuno in vena di riflessioni sulla gaetanità.

Oggi l’assedio del 1861, ultimo dei diciassette assedi della lunga storia gaetana, rappresenta un pezzo di memoria cittadina, una porzione di coscienza campanilista dove si affettano ambizioni e frustrazioni, desideri del presente e nostalgie del passato, strategie televisive e tattiche elettorali, visioni di destra e di sinistra, di lotta e di governo. Riecheggia sui palchi dei comizi o ai tavoli di un bar, sugli scranni del consiglio comunale o tra gli scaffali delle librerie. Nella Gaeta smarrita degli anni duemila, desiderosa di rivincite, tira aria di riscoperta identitaria, di revival storiografico. “E’ l’anima gaetana che ritorna” dice l’ex tabaccaio ed ex comunista Antonio Ciano, che dai pamphlet meridionalisti alle lezioni di storia sulla telestreet ora è arrivato a sedere sulla poltrona di assessore al Demanio, e scrive lettere al governo per far restituire alla città pezzi di territorio sottratti e in abbandono. Qui come altrove la storia può essere anche un affare. Ma dove se ne va l’anima di un paese quando si perde? In quelle pagine cupe della storia paesana, tra le pieghe di una nazione che ancora non c’era, si sono smarrite le chiavi di Gaeta.

Furono giorni tremendi, quelli tra il novembre 1860 e il 13 febbraio 1861: sessantamila proiettili furono sparati dai piemontesi sulla Gaeta assediata, altri quarantamila furono sparati dai borbonici asserragliati, case distrutte dalle bombe, abitanti del borgo usati come scudi umani, carcasse e cadaveri da seppellire sotto le piazze, epidemie di tifo e di colera. Si sviluppavano incendi, crollavano muri e parapetti, saltavano blindature, ammutolavano cannoni e morivano uomini. Un giorno di gennaio i piemontesi colpirono la polveriera Sant’Antonio, vicino la spianata di Montesecco. Lo scoppio fu tremendo, la terra tremò per parecchi chilometri, si alzarono colonne di fumo e polevere che oscurarono il cielo. Il bastione e le vicine case del borgo erano scomparse. Al loro posto un’enorme voragine piena di cadaveri, macerie, brandelli umani e feriti urlanti. Soccoritori che correvano sotto i tiri del fuoco nemico. Rileggere i diari dell’assedio è come assistere alle più truci cronache delle guerre di oggi. Gaeta come tutte le Bagdad e tutte le Saigon di ogni tempo? Quante macchie di sangue si porta dietro il tappeto tarlato della nostra vicenda nazionale? Cambiano le tecnologie, i confini e le artiglierie ma sempre rimangono gli stessi istinti in fondo all’animo degli uomini. La storia è un percorso a ostacoli che si ricostruisce ad ogni tappa. Chi è sopravvissuto sa, chi viene dopo distorce la memoria, se ne appropria. Gli psicoanalisti inducono a riesumare il passato, fanno scrivere quadernetti di esperienze perché nulla vada perduto. E se succedesse? Se non ci fossero più monumenti ai militi ignoti, ossari dei caduti, cimiteri dei nostri e altrui smarriti amori? Se tutto questo sparisse nell'imbuto del lavandino dove ci sciacquiamo la faccia prima di affrontare una nuova giornata?

Dal molo di Gaeta partivano gli sconfitti, all’alba di giorni ignoti. Un dogmatico Papa nel 1849, dritto verso le turbolenze della storia. Una coppia di sovrani umiliati senza aver perso l’onore, nel 1861. Un Duce carico di disastri e tradimenti in una mattina di fine luglio del 1943. Solo per citarne alcuni. I gaetani alle finestre ricordano tutto, seppelliscono le umiliazioni col disincanto, l’onore con l’astio, ma forse meriterebbero di dimenticare. “Preferisco i miei infortuni ai trionfi degli avversari” disse il re Francesco II di Borbone, detto Franceschiello, in uno dei suoi ultimi proclami. A volte sembra che l’assedio di Gaeta non finì mai, rimanendo in fondo all’animo dei gaetani. Come una Fortezza che seppe trasformarsi in Deserto dei Tartari. Ora. Per una parte della storiografia sempre più vasta è difficile negare che gli anni del benemerito Risorgimento, visti dal Sud, furono anni di repressione, di sopraffazione, di stragi di Stato, di guerra civile. La concezione dello Stato come corpo estraneo, il grande Meridione di sudditi infidi e carte false vengono anche da lì. L’eterna tentazione italiana delle repressione e dello stato d’emergenza e del complotto, anche quelle vengono da lì. “Come se non si dovesse parlare male di Garibaldi, come si diceva quando ero bambino” raccontava Vittorio Foa. Eppure il “mannaggia a Garibaldi” risuonava nelle nostra antiche campagne già meridionali, come l’imprecazione verso un eroe malsopportato. I toponomastici gaetani perfidamente intitolarono, un secolo fa, all’eroe Garibaldi di cui quest’anno ricorre il bicentenario, la via che portava al cimitero. Come in una bella canzone di Vecchioni, “i nostri figli andranno per il mondo, e non verrano i piemontesi ad assalire Gaeta”. Ma Garibaldi si fermò prima dell’assedio gaetano, da rivoluzionario obbediente al Re. E pure lui arrivò consapevole alla morte: con la sensazione di essere già un sopravvissuto, trasformato in statua, seppellito e riesumato a ogni cambio di stagione, indossato come la maschera di un attore senz’anima. Ma si deve avere memoria di queste terre, della sostanza di cui si è fatti e dell’aria che si è respirato, per consentirsi la libertà di pensare a certi sconfitti della storia come degli eroi. Fosse la prima delle regine, uno qualunque dei soldati, o l’ultimo dei cuochi di truppa. Oppure uno di quei briganti, c’è chi dice fossero banditi, e chi in cuor suo sa che furono partigiani. In uno dei tanti posti dove, come cantava De Gregori col suo Cuoco di Salò, “qui si fa l’Italia e si muore”. Nazione troppo giovane, troppo piena di tanti vuoti da riempire.


Fonte:Ludik


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