martedì 31 agosto 2010

La verifica e la partita del Sud


di Claudio SCAMARDELLA

Il segno tangibile dell’immobilismo del nostro Paese è dato non solo dalla “coazione a rinviare” gli appuntamenti con le riforme, ma anche dalla ripetività dei riti e delle modalità con cui la politica fa finta di affrontare le
questioni.

Tre anni e mezzo fa, ai tempi del governo Prodi e di uno dei ciclici momenti critici della sua risicata maggioranza, l’intero esecutivo si riunì per due giorni nella Reggia di Caserta con i segretari dei numerosi partiti della coalizione. Obiettivo: ritrovare la fiducia, dimostrare che il governo fosse ancora vivo e rilanciare - davanti alle telecamere - l’immagine di unità dell’alleanza. Tra i tanti annunci-spot pronti (e facili) per l’uso, spiccò anche all’epoca quello di un piano straordinario per il Mezzogiorno con 120 miliardi da investire nelle regioni meridionali. Era, naturalmente, la somma di tutti i fondi europei, gli investimenti statali e i trasferimenti ordinari precedentemente destinati al Sud, alcuni dei quali in realtà già impegnati in progetti delle pubbliche amministrazioni meridionali. Tutti i giornali, all’epoca, titolarono: il governo riparte dal Sud con 120 miliardi.
Sappiamo come andò a finire. Prodì andò a casa e si tornò alle urne. In una lunga intervista a un giornale del Sud, Berlusconi annunciò alla vigilia del voto che lo riportò a Palazzo Chigi un “piano per il Sud da 110 miliardi”. Come è andata a finire, anche stavolta, lo abbiamo visto.

Non vorremmo essere facili profeti, eppure molti segnali lasciano prevedere che l’annunciata verifica dell’attuale maggioranza di governo a metà settembre, con un voto di fiducia su un pacchetto di punti tra i quali spicca (naturalmente) il Mezzogiorno, possa rivelarsi - soprattutto per quanto riguarda il Sud - un altro annuncio-spot. L’unica differenza rispetto al passato è la cifra: invece dei 120 miliardi di Prodi o dei 110 di Berlusconi, stavolta si parla di un piano da 80 miliardi. E non sono certo aggiuntivi agli uni o agli altri. Anzi, da quelle cifre - sempre le stesse - sono stati sottratti i fondi Fas destinati al Mezzogiorno e dirottati per affrontare e risolvere in questi anni le emergenze in altre parti del Paese. E ciò, beninteso, va ricordato non per giustificare le incapaci e inefficienti classi dirigenti meridionali - è del tutto evidente che se si ripropongono le stesse risorse, soprattutto quelle di provenienza europea, è perché si è stati incapaci di spenderle sul territorio - ma solo per sgonfiare il pallone propagandistico del leghismo bossiano. Quel leghismo che, non a caso alla vigilia della verifica di settembre della maggioranza, alza la voce, insulta, intimidisce, lancia avvertimenti ad alleati e avversari, continua ad accusare i meridionali di sprechi e inefficienze spesso su dati completamente falsi o, peggio ancora, falsificati, teorizzando una redistribuzione delle risorse a vantaggio del Nord come atto “risarcitorio” verso le vessate popolazioni settentrionali e come atto “punitivo” verso le spreconi e cialtroni popolazioni meridionali.

Ma tant’è, così va l’Italia di questi tempi: il Nord può urlare, puntare l’indice, rivendicare risorse e poteri sul territorio, perfino insultare in virtù di (presunte) “ragioni storiche”; il Sud, invece, deve continuare a tacere, timoroso e rassegnato, sedere sul banco degli imputati e aspettare il peggio che deve arrivare, in virtù di (altrettanto presunte) “colpe storiche”. Se non si riuscirà a rompere questo schema in tempi brevi, Bossi sarà sempre di più il padrone del Paese. E se le classi dirigenti meridionali non capiranno che la vera priorità è uscire da questo “complesso di minorità”, saranno travolte. Tutte. Quelle al governo e quelle all’opposizione, a Roma e sul territorio. Perché la debolezza del Mezzogiorno è, sì, debolezza degli indicatori economici e sociali, debolezza del tessuto connettivo minato dalla pervasità della criminalità organizzata, debolezza del governo del territorio. Ma il più grande e il più grave handicap del Sud, oggi, è l’essere rimasto senza parola, è il non poter contare su voci credibili e capaci di comunicare all’intero Paese, di interloquire con le leadership nazionali della politica, dell’economia e della cultura. Da almeno quindici anni, questa parte del Paese non produce più leader nazionali, esponenti politici di partito o di governo in grado di rappresentare a Roma e a Milano gli interessi delle popolazioni meridionali; di dire che i 120 miliardi di Prodi, i 110 di Berlusconi e gli 80 promessi da Tremonti per settembre sono sempre la stessa cosa; di controbattere, insomma, punto su punto alla deriva leghista.

Per superare questo “complesso di minorità” c’è bisogno di superare le divisioni dentro il Sud e tra i meridionali. Le prove e le sfide che attendono il Mezzogiorno sono di portata storica, potremmo dire epocale, e non potranno essere sostenute da una sola regione, da un solo governatore, da un solo schieramento politico, da una sola rappresentanza sociale. L’esito di questa battaglia dipenderà non tanto dalla nascita di un velleitario partito del Sud o di una caricaturale Lega meridionale, frutto di un meridionalismo lamentoso e vittimista, ma dalla massa critica e dalla forza reattiva che sarà capace di organizzare l’intero Mezzogiorno, a tutto campo, nella politica nazionale. È la prova storica a cui è chiamata a rispondere un’intera generazione politica, di fronte alla quale è necessario rifuggire da ogni tentazione personalistica, da calcoli di bottega e interessi di parte, dal perseguimento di piccole vendette politiche. Chi coltiva l’illusione che la temporanea alleanza con Bossi, cioè un’ulteriore penalizzazione del Sud in questa fase, possa danneggiare l’avversario sul territorio e avvantaggiare se stesso commetterebbe un gravissimo errore di miopia politica. E la Storia, prima o poi, gli si ritorcerà contro.

C’è una voce, non politica, ma autorevole e forte che può far ritrovare tutti: quella della Chiesa. Anche i non credenti, anche il più irriducibile degli atei non può non riconoscere che la voce della Chiesa è ormai tra le poche, se non l’unica, che si alza nella società italiana a denunciare le ingiustizie e a riportare l’astruso dibattito della politica italiana ai problemi veri della gente. Quella voce è ancora più forte e chiara quando parla di Mezzogiorno e al Mezzogiorno. E lo ha dimostrato qualche giorno fa in due occasioni. La prima: quando di fronte a quanti esultavano - leghisti e, purtroppo, non solo leghisti - per le politiche dei respingimenti dei migranti, a quanti portavano la conta delle barche a vela con a bordo bambini e donne incinte fermate sulle coste del Salento, molti vescovi pugliesi hanno ricordato che si tratta di un’odissea di esseri umani e non di viaggi di piacere. E che un paese civile non può non accogliere chi chiede aiuto e chi cerca solidarietà. La seconda: quando la Conferenza episcopale italiana è tornata a ricordare che il federalismo diventa un valore se unisce, mentre si rivela un disvalore se separa; diventa, cioè, una grande opportunità se è un progetto condiviso per costruzione (dell’intera nazione) e non un processo imposto per reazione (da un territorio su un altro). Possibile che debba essere solo la Chiesa a ricordarcelo? Possibile che la politica meridionale sia divisa anche su questo?


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di Claudio SCAMARDELLA

Il segno tangibile dell’immobilismo del nostro Paese è dato non solo dalla “coazione a rinviare” gli appuntamenti con le riforme, ma anche dalla ripetività dei riti e delle modalità con cui la politica fa finta di affrontare le
questioni.

Tre anni e mezzo fa, ai tempi del governo Prodi e di uno dei ciclici momenti critici della sua risicata maggioranza, l’intero esecutivo si riunì per due giorni nella Reggia di Caserta con i segretari dei numerosi partiti della coalizione. Obiettivo: ritrovare la fiducia, dimostrare che il governo fosse ancora vivo e rilanciare - davanti alle telecamere - l’immagine di unità dell’alleanza. Tra i tanti annunci-spot pronti (e facili) per l’uso, spiccò anche all’epoca quello di un piano straordinario per il Mezzogiorno con 120 miliardi da investire nelle regioni meridionali. Era, naturalmente, la somma di tutti i fondi europei, gli investimenti statali e i trasferimenti ordinari precedentemente destinati al Sud, alcuni dei quali in realtà già impegnati in progetti delle pubbliche amministrazioni meridionali. Tutti i giornali, all’epoca, titolarono: il governo riparte dal Sud con 120 miliardi.
Sappiamo come andò a finire. Prodì andò a casa e si tornò alle urne. In una lunga intervista a un giornale del Sud, Berlusconi annunciò alla vigilia del voto che lo riportò a Palazzo Chigi un “piano per il Sud da 110 miliardi”. Come è andata a finire, anche stavolta, lo abbiamo visto.

Non vorremmo essere facili profeti, eppure molti segnali lasciano prevedere che l’annunciata verifica dell’attuale maggioranza di governo a metà settembre, con un voto di fiducia su un pacchetto di punti tra i quali spicca (naturalmente) il Mezzogiorno, possa rivelarsi - soprattutto per quanto riguarda il Sud - un altro annuncio-spot. L’unica differenza rispetto al passato è la cifra: invece dei 120 miliardi di Prodi o dei 110 di Berlusconi, stavolta si parla di un piano da 80 miliardi. E non sono certo aggiuntivi agli uni o agli altri. Anzi, da quelle cifre - sempre le stesse - sono stati sottratti i fondi Fas destinati al Mezzogiorno e dirottati per affrontare e risolvere in questi anni le emergenze in altre parti del Paese. E ciò, beninteso, va ricordato non per giustificare le incapaci e inefficienti classi dirigenti meridionali - è del tutto evidente che se si ripropongono le stesse risorse, soprattutto quelle di provenienza europea, è perché si è stati incapaci di spenderle sul territorio - ma solo per sgonfiare il pallone propagandistico del leghismo bossiano. Quel leghismo che, non a caso alla vigilia della verifica di settembre della maggioranza, alza la voce, insulta, intimidisce, lancia avvertimenti ad alleati e avversari, continua ad accusare i meridionali di sprechi e inefficienze spesso su dati completamente falsi o, peggio ancora, falsificati, teorizzando una redistribuzione delle risorse a vantaggio del Nord come atto “risarcitorio” verso le vessate popolazioni settentrionali e come atto “punitivo” verso le spreconi e cialtroni popolazioni meridionali.

Ma tant’è, così va l’Italia di questi tempi: il Nord può urlare, puntare l’indice, rivendicare risorse e poteri sul territorio, perfino insultare in virtù di (presunte) “ragioni storiche”; il Sud, invece, deve continuare a tacere, timoroso e rassegnato, sedere sul banco degli imputati e aspettare il peggio che deve arrivare, in virtù di (altrettanto presunte) “colpe storiche”. Se non si riuscirà a rompere questo schema in tempi brevi, Bossi sarà sempre di più il padrone del Paese. E se le classi dirigenti meridionali non capiranno che la vera priorità è uscire da questo “complesso di minorità”, saranno travolte. Tutte. Quelle al governo e quelle all’opposizione, a Roma e sul territorio. Perché la debolezza del Mezzogiorno è, sì, debolezza degli indicatori economici e sociali, debolezza del tessuto connettivo minato dalla pervasità della criminalità organizzata, debolezza del governo del territorio. Ma il più grande e il più grave handicap del Sud, oggi, è l’essere rimasto senza parola, è il non poter contare su voci credibili e capaci di comunicare all’intero Paese, di interloquire con le leadership nazionali della politica, dell’economia e della cultura. Da almeno quindici anni, questa parte del Paese non produce più leader nazionali, esponenti politici di partito o di governo in grado di rappresentare a Roma e a Milano gli interessi delle popolazioni meridionali; di dire che i 120 miliardi di Prodi, i 110 di Berlusconi e gli 80 promessi da Tremonti per settembre sono sempre la stessa cosa; di controbattere, insomma, punto su punto alla deriva leghista.

Per superare questo “complesso di minorità” c’è bisogno di superare le divisioni dentro il Sud e tra i meridionali. Le prove e le sfide che attendono il Mezzogiorno sono di portata storica, potremmo dire epocale, e non potranno essere sostenute da una sola regione, da un solo governatore, da un solo schieramento politico, da una sola rappresentanza sociale. L’esito di questa battaglia dipenderà non tanto dalla nascita di un velleitario partito del Sud o di una caricaturale Lega meridionale, frutto di un meridionalismo lamentoso e vittimista, ma dalla massa critica e dalla forza reattiva che sarà capace di organizzare l’intero Mezzogiorno, a tutto campo, nella politica nazionale. È la prova storica a cui è chiamata a rispondere un’intera generazione politica, di fronte alla quale è necessario rifuggire da ogni tentazione personalistica, da calcoli di bottega e interessi di parte, dal perseguimento di piccole vendette politiche. Chi coltiva l’illusione che la temporanea alleanza con Bossi, cioè un’ulteriore penalizzazione del Sud in questa fase, possa danneggiare l’avversario sul territorio e avvantaggiare se stesso commetterebbe un gravissimo errore di miopia politica. E la Storia, prima o poi, gli si ritorcerà contro.

C’è una voce, non politica, ma autorevole e forte che può far ritrovare tutti: quella della Chiesa. Anche i non credenti, anche il più irriducibile degli atei non può non riconoscere che la voce della Chiesa è ormai tra le poche, se non l’unica, che si alza nella società italiana a denunciare le ingiustizie e a riportare l’astruso dibattito della politica italiana ai problemi veri della gente. Quella voce è ancora più forte e chiara quando parla di Mezzogiorno e al Mezzogiorno. E lo ha dimostrato qualche giorno fa in due occasioni. La prima: quando di fronte a quanti esultavano - leghisti e, purtroppo, non solo leghisti - per le politiche dei respingimenti dei migranti, a quanti portavano la conta delle barche a vela con a bordo bambini e donne incinte fermate sulle coste del Salento, molti vescovi pugliesi hanno ricordato che si tratta di un’odissea di esseri umani e non di viaggi di piacere. E che un paese civile non può non accogliere chi chiede aiuto e chi cerca solidarietà. La seconda: quando la Conferenza episcopale italiana è tornata a ricordare che il federalismo diventa un valore se unisce, mentre si rivela un disvalore se separa; diventa, cioè, una grande opportunità se è un progetto condiviso per costruzione (dell’intera nazione) e non un processo imposto per reazione (da un territorio su un altro). Possibile che debba essere solo la Chiesa a ricordarcelo? Possibile che la politica meridionale sia divisa anche su questo?


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