domenica 19 settembre 2010

Marcinelle, l’ultima battaglia «Nessuno verrà qui a ballare»


Emigrati nel dopoguerra, 136 morirono nell’incidente al Bois du Cazier. Dimenticati anche dal Paese d’origine


Di Paolo Di Stefano

I minatori non dimenticano niente, convivono da oltre cinquant’anni con la memoria. Ma il Paese da cui partirono preferisce dormire sonni sereni nell’oblio per svegliarsi puntualmente in occasione della ricorrenza più funesta, quella dell’8 agosto 1956, il giorno in cui al Bois du Cazier di Marcinelle morirono 262 minatori, 136 dei quali italiani. Anche quest’anno, l’8 agosto non sono mancati i messaggi dei politici, dal presidente della Repubblica in giù. Ma ai minatori italiani - rimasti in Belgio ad invecchiare con la silicosi e il fiato corto - non basta. Loro hanno ancora negli occhi il fumo di quella mattina, quando, poco dopo le otto, a 975 metri di profondità, un vagonetto carico di carbone rimasto incastrato a metà dentro un ascensore in movimento tagliò di netto i cavi dell’alta tensione e le condotte dell’olio provocando un incendio improvviso e inarrestabile. È la tragedia che i minatori sopravvissuti non dimenticheranno mai.

Molti di loro non amano più l’Italia perché, dicono, l’Italia non li ama. Si sentono abbandonati in quella che un tempo consideravano una terra straniera e che oggi trovano persino accogliente. Chiedete a Mario Ziccardi, che è arrivato qui a Charleroi da Ferrazzano (Campobasso) nel 1954 a 18 anni e che rimasto vedovo adesso abita, da solo, in una casetta bianca su una lunga strada a due passi dal luogo della «catastròfa», diventato un museo. Vi risponderà con un groppo di rabbia, ricordando quel che è stato, per filo e per segno. I minatori sono come gli elefanti, non dimenticano niente: «Il governo italiano ci ha venduto, ogni minatore valeva 15 chili di carbone belga al giorno, ma se al ritorno portavi con te una cioccolata o un pacchetto di sigarette, alla dogana ti facevano pagare la multa. Questa è sempre stata l’Italia! Quando arrivavi al paese per le vacanze, ti dicevano: "che ci vieni a fare qui?". Non sapevano che andavamo in terra straniera per buttare il sangue a mille metri di profondità e che il governo prendeva pure dei soldi senza neanche darci una sicurezza. Quando andavi a fare una domanda al Comune, ti rispondevano che avevi diritto solo al certificato di nascita e per il resto, se avevi bisogno di qualcosa, dovevi chiedere al Belgio».

E oggi, che cos’è l’Italia per un vecchio minatore? «Ancora oggi non ci riconoscono per niente. Fanno i loro discorsi ogni 8 agosto e poi non si vedono più. Solo quando ci sono le elezioni, allora sì che trovano il tuo indirizzo e ti mandano la scheda per il voto. Io sto bene qui in Belgio e non mi lamento, ho casa mia e non disturbo nessuno, ma quante volte abbiamo pianto per l’Italia! Anni fa, avevo comperato un piccolo appartamento di 97 metri quadrati al paese perché il governo prometteva 7 milioni agli emigranti, ma io quei soldi non li ho mai avuti, così ho rivenduto la casa e ho detto basta, non vado più in Italia. Una volta un impiegato del Comune mi ha detto che ero un esiliato. Gli ho risposto: «Sono un emigrato, non un esiliato, perché se sono un esiliato, allora dovete arrestarmi». Sono tre anni che non ritorno al paese e quest’estate ho fatto le vacanze in Grecia, dove si sta benissimo. In Italia non ci riconoscono di che nazionalità siamo, per loro siamo belgi, ma nel Belgio abbiamo ancora una carta di soggiorno e non possiamo neanche votare, siamo estranei qui e siamo estranei in Italia. Noi con i soldi che mandavamo al paese abbiamo rimontato l’Italia, capisce?». Sì, l’avete aiutata a risollevarsi dalla guerra, e il carbone arrivava dal Belgio come compenso del vostro lavoro. «Ecco, e non siamo stati ringraziati per niente, anzi siamo stati solo maltrattati, e quando ritornavamo ci dicevano: "che ci fate qui?". È molto triste, molto triste. Questa è l’Italia, ha capito? Quante volte piango, pensando all’Italia!».

Qualcuno, venuto dal Sud come la gran parte dei morti del Bois du Cazier, fa smorfie di amarezza pensando al chiodo fisso «padano» di un Meridione parassita del Nord. Vincenzo Catano, arrivato da Calitri (Avellino) nel ’54, non ha peli sulla lingua: «Dopo la guerra, noi meridionali abbiamo messo su l’Italia, e ora vengono fuori certi politici che avrebbero bisogno dello psichiatra a dire che siamo parassiti! Noi venivamo a lavorare nelle taglie e nelle gallerie, e loro a casa, anche quelli del Nord, stavano al caldo con il nostro carbone...». Catano, approdato a Marcinelle con un passaporto da turista, ha lavorato sottoterra fino al ’60, quando gli scivolò sulla gamba un enorme sasso, si fratturò il bacino e passò sei mesi in ospedale prima di guarire. Ottenuta l’invalidità, pensò di tornare in Italia con la moglie e i due figli, ma ora è contento di aver cambiato idea. Oggi, superati gli ottanta, non tornerebbe più al paese e le vacanze preferisce farle a Viareggio che in Irpinia.

I minatori sono come elefanti, ricordano perfettamente quell’8 agosto del 1956, le storie, le facce nere, gli urli delle donne ai cancelli del Cazier, gli amici perduti, i loro corpi che venivano portati al giorno (come dicono in gergo). «Non tutti, - precisa Catano - molti sono ancora lì sotto, riempivano le bare di sassi per far credere che li avevano recuperati, ma la figlia di un minatore, dopo diversi anni, ha voluto aprire la bara di suo padre e ha trovato solo pietre». Nell’Associazione ex minatori oggi ci sono i pochi sopravvissuti alla «catastròfa» e all’età. Ma per mantenere viva la memoria del passato che non passa spesso si iscrivono anche i figli, gli emigrati di seconda generazione, come Michele Russo, manager in pensione dell’Ibm, di cui suo padre sarebbe fiero: «Ha dovuto aspettare quarant’anni per poter votare per corrispondenza - dice - rimpiangeva di non aver avuto questo diritto. Quello che non sopportava la generazione di mio padre era il fatto che loro hanno contribuito da lontano al boom economico dell’Italia, ma nessuno gliel’ha mai riconosciuto, e quando tornava al paese, in Sicilia, la gente gli faceva la caricatura e diceva: "sono arrivati i savà con la cioccolata e il caffè"». Alludevano ironicamente al saluto francese: Ça va? «Adesso noi emigranti siamo diventati gli ambasciatori del made in Italy all’estero...», scherza Michele, ma neanche troppo.

Sono loro, gli ex minatori e i figli degli ex minatori che non ci sono più, a difendere il Cazier come un luogo sacro contro quelli (le autorità locali e non soltanto) che vorrebbero fare del Museo un centro ricreativo. Ultimamente hanno fatto sentire la loro voce quando è balenata l’idea di utilizzare uno spazio come sala di matrimoni. «Va bene il mercatino di Natale, vanno bene, a inizio luglio, i concerti delle corali, va bene il pranzo dell’8 agosto, va bene l’esposizione di pittura e di fotografia, vanno bene anche i rinfreschi dopo i discorsi celebrativi della Festa della Repubblica e i ricevimenti del Consolato, ma non bisogna esagerare: lì sotto ci sono ancora dei cadaveri», reclama Russo. Giuseppe Avanzato, siciliano di Camastra, classe 1927, ha passato 25 anni in miniera e ha sposato la giovanissima vedova belga di una vittima dell’8 agosto: «Quando mi hanno detto che al Cazier volevano fare una sala di matrimonio gli ho risposto: finché siamo in vita noi, non ci sarà nessuna sala di matrimonio, perché giù in basso ci sono ancora i nostri amici, che erano buoni compagni e buoni italiani. Allora hanno detto: va bene, niente sala di matrimonio ». Se uno dei suoi dieci figli lo chiama, la suoneria del suo cellulare suona l’Inno di Mameli. Anche Assunta Moliterno, di Campobasso, arrivata qui a dieci anni e rimasta orfana di suo padre che quella mattina se ne andò salutandola con un bacio per ritornare quaranta giorni dopo in una bara, parla appena l’italiano, ma tutte le mattine vede in tv Don Matteo e nell’acquario di sala tiene un enorme Colosseo attorno a cui nuotano i pesci rossi. Dice: «Non vogliamo sale di matrimonio. Il museo non deve diventare un coso commerciale: al Cazier, negli ultimi tempi, abbiamo visto chi piange e chi ride, chi vende e chi balla, e io ormai ci vado solo l’8 agosto per sentire le campane. Perché per me resta solo, come si dice?, un cimitero per i morti».

Fonte:Corriere della Sera del 13/09/2010

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Emigrati nel dopoguerra, 136 morirono nell’incidente al Bois du Cazier. Dimenticati anche dal Paese d’origine


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I minatori non dimenticano niente, convivono da oltre cinquant’anni con la memoria. Ma il Paese da cui partirono preferisce dormire sonni sereni nell’oblio per svegliarsi puntualmente in occasione della ricorrenza più funesta, quella dell’8 agosto 1956, il giorno in cui al Bois du Cazier di Marcinelle morirono 262 minatori, 136 dei quali italiani. Anche quest’anno, l’8 agosto non sono mancati i messaggi dei politici, dal presidente della Repubblica in giù. Ma ai minatori italiani - rimasti in Belgio ad invecchiare con la silicosi e il fiato corto - non basta. Loro hanno ancora negli occhi il fumo di quella mattina, quando, poco dopo le otto, a 975 metri di profondità, un vagonetto carico di carbone rimasto incastrato a metà dentro un ascensore in movimento tagliò di netto i cavi dell’alta tensione e le condotte dell’olio provocando un incendio improvviso e inarrestabile. È la tragedia che i minatori sopravvissuti non dimenticheranno mai.

Molti di loro non amano più l’Italia perché, dicono, l’Italia non li ama. Si sentono abbandonati in quella che un tempo consideravano una terra straniera e che oggi trovano persino accogliente. Chiedete a Mario Ziccardi, che è arrivato qui a Charleroi da Ferrazzano (Campobasso) nel 1954 a 18 anni e che rimasto vedovo adesso abita, da solo, in una casetta bianca su una lunga strada a due passi dal luogo della «catastròfa», diventato un museo. Vi risponderà con un groppo di rabbia, ricordando quel che è stato, per filo e per segno. I minatori sono come gli elefanti, non dimenticano niente: «Il governo italiano ci ha venduto, ogni minatore valeva 15 chili di carbone belga al giorno, ma se al ritorno portavi con te una cioccolata o un pacchetto di sigarette, alla dogana ti facevano pagare la multa. Questa è sempre stata l’Italia! Quando arrivavi al paese per le vacanze, ti dicevano: "che ci vieni a fare qui?". Non sapevano che andavamo in terra straniera per buttare il sangue a mille metri di profondità e che il governo prendeva pure dei soldi senza neanche darci una sicurezza. Quando andavi a fare una domanda al Comune, ti rispondevano che avevi diritto solo al certificato di nascita e per il resto, se avevi bisogno di qualcosa, dovevi chiedere al Belgio».

E oggi, che cos’è l’Italia per un vecchio minatore? «Ancora oggi non ci riconoscono per niente. Fanno i loro discorsi ogni 8 agosto e poi non si vedono più. Solo quando ci sono le elezioni, allora sì che trovano il tuo indirizzo e ti mandano la scheda per il voto. Io sto bene qui in Belgio e non mi lamento, ho casa mia e non disturbo nessuno, ma quante volte abbiamo pianto per l’Italia! Anni fa, avevo comperato un piccolo appartamento di 97 metri quadrati al paese perché il governo prometteva 7 milioni agli emigranti, ma io quei soldi non li ho mai avuti, così ho rivenduto la casa e ho detto basta, non vado più in Italia. Una volta un impiegato del Comune mi ha detto che ero un esiliato. Gli ho risposto: «Sono un emigrato, non un esiliato, perché se sono un esiliato, allora dovete arrestarmi». Sono tre anni che non ritorno al paese e quest’estate ho fatto le vacanze in Grecia, dove si sta benissimo. In Italia non ci riconoscono di che nazionalità siamo, per loro siamo belgi, ma nel Belgio abbiamo ancora una carta di soggiorno e non possiamo neanche votare, siamo estranei qui e siamo estranei in Italia. Noi con i soldi che mandavamo al paese abbiamo rimontato l’Italia, capisce?». Sì, l’avete aiutata a risollevarsi dalla guerra, e il carbone arrivava dal Belgio come compenso del vostro lavoro. «Ecco, e non siamo stati ringraziati per niente, anzi siamo stati solo maltrattati, e quando ritornavamo ci dicevano: "che ci fate qui?". È molto triste, molto triste. Questa è l’Italia, ha capito? Quante volte piango, pensando all’Italia!».

Qualcuno, venuto dal Sud come la gran parte dei morti del Bois du Cazier, fa smorfie di amarezza pensando al chiodo fisso «padano» di un Meridione parassita del Nord. Vincenzo Catano, arrivato da Calitri (Avellino) nel ’54, non ha peli sulla lingua: «Dopo la guerra, noi meridionali abbiamo messo su l’Italia, e ora vengono fuori certi politici che avrebbero bisogno dello psichiatra a dire che siamo parassiti! Noi venivamo a lavorare nelle taglie e nelle gallerie, e loro a casa, anche quelli del Nord, stavano al caldo con il nostro carbone...». Catano, approdato a Marcinelle con un passaporto da turista, ha lavorato sottoterra fino al ’60, quando gli scivolò sulla gamba un enorme sasso, si fratturò il bacino e passò sei mesi in ospedale prima di guarire. Ottenuta l’invalidità, pensò di tornare in Italia con la moglie e i due figli, ma ora è contento di aver cambiato idea. Oggi, superati gli ottanta, non tornerebbe più al paese e le vacanze preferisce farle a Viareggio che in Irpinia.

I minatori sono come elefanti, ricordano perfettamente quell’8 agosto del 1956, le storie, le facce nere, gli urli delle donne ai cancelli del Cazier, gli amici perduti, i loro corpi che venivano portati al giorno (come dicono in gergo). «Non tutti, - precisa Catano - molti sono ancora lì sotto, riempivano le bare di sassi per far credere che li avevano recuperati, ma la figlia di un minatore, dopo diversi anni, ha voluto aprire la bara di suo padre e ha trovato solo pietre». Nell’Associazione ex minatori oggi ci sono i pochi sopravvissuti alla «catastròfa» e all’età. Ma per mantenere viva la memoria del passato che non passa spesso si iscrivono anche i figli, gli emigrati di seconda generazione, come Michele Russo, manager in pensione dell’Ibm, di cui suo padre sarebbe fiero: «Ha dovuto aspettare quarant’anni per poter votare per corrispondenza - dice - rimpiangeva di non aver avuto questo diritto. Quello che non sopportava la generazione di mio padre era il fatto che loro hanno contribuito da lontano al boom economico dell’Italia, ma nessuno gliel’ha mai riconosciuto, e quando tornava al paese, in Sicilia, la gente gli faceva la caricatura e diceva: "sono arrivati i savà con la cioccolata e il caffè"». Alludevano ironicamente al saluto francese: Ça va? «Adesso noi emigranti siamo diventati gli ambasciatori del made in Italy all’estero...», scherza Michele, ma neanche troppo.

Sono loro, gli ex minatori e i figli degli ex minatori che non ci sono più, a difendere il Cazier come un luogo sacro contro quelli (le autorità locali e non soltanto) che vorrebbero fare del Museo un centro ricreativo. Ultimamente hanno fatto sentire la loro voce quando è balenata l’idea di utilizzare uno spazio come sala di matrimoni. «Va bene il mercatino di Natale, vanno bene, a inizio luglio, i concerti delle corali, va bene il pranzo dell’8 agosto, va bene l’esposizione di pittura e di fotografia, vanno bene anche i rinfreschi dopo i discorsi celebrativi della Festa della Repubblica e i ricevimenti del Consolato, ma non bisogna esagerare: lì sotto ci sono ancora dei cadaveri», reclama Russo. Giuseppe Avanzato, siciliano di Camastra, classe 1927, ha passato 25 anni in miniera e ha sposato la giovanissima vedova belga di una vittima dell’8 agosto: «Quando mi hanno detto che al Cazier volevano fare una sala di matrimonio gli ho risposto: finché siamo in vita noi, non ci sarà nessuna sala di matrimonio, perché giù in basso ci sono ancora i nostri amici, che erano buoni compagni e buoni italiani. Allora hanno detto: va bene, niente sala di matrimonio ». Se uno dei suoi dieci figli lo chiama, la suoneria del suo cellulare suona l’Inno di Mameli. Anche Assunta Moliterno, di Campobasso, arrivata qui a dieci anni e rimasta orfana di suo padre che quella mattina se ne andò salutandola con un bacio per ritornare quaranta giorni dopo in una bara, parla appena l’italiano, ma tutte le mattine vede in tv Don Matteo e nell’acquario di sala tiene un enorme Colosseo attorno a cui nuotano i pesci rossi. Dice: «Non vogliamo sale di matrimonio. Il museo non deve diventare un coso commerciale: al Cazier, negli ultimi tempi, abbiamo visto chi piange e chi ride, chi vende e chi balla, e io ormai ci vado solo l’8 agosto per sentire le campane. Perché per me resta solo, come si dice?, un cimitero per i morti».

Fonte:Corriere della Sera del 13/09/2010

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