lunedì 31 maggio 2010

Salvare l'Euro: che rischio!

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A gennaio dicevano (tranne questo blog e alcuni altri amici della rete) che il duemiladieci sarebbe stato l’anno della ripresa economica. Che cavolata! Sono passati cinque mesi da allora e si è già dovuto porre rimedio allo sciagurato destino (per nulla a noi remoto) della Grecia e, alcune settimana fa, i ministri di tutta Europa si sono dovuti incontrare per salvare dalla disfatta, niente di meno che, l’Euro. Capite perché continuo a ribadire che qualcosa non va?

Il submit dei potenti d’Europa, riuniti per stabilire i termini di una manovra che impiegherà circa 750 miliardi di euro a favore delle nazioni europee in pericolo di default, ha raggiunto una serie di accordi riguardanti maggiori sacrifici imposti soprattutto alle nazioni ritenute rischiose, come la Spagna e il Portogallo, una raccolta di 60 miliardi di risparmi dei cittadini (in cambio di titoli garantiti dai fondi del bilancio europeo) da poter prestare poi ai paesi in difficoltà, insieme ai 440 miliardi che saranno racimolati con una colletta alla quale parteciperanno tutti gli stati della zona euro, e ai restanti 250 miliardi che saranno erogati dal fondo monetario internazionale sottoforma di prestiti.

Prima ancora che da laureato in economia, la mia domanda da ragioniere è: alla luce di quanto suddetto, se dopo il tracollo della Grecia si teme il rischio di un effetto domino su tutti gli altri stati di eurolandia, le cui risorse economiche disponibili sono evidentemente insufficienti per fronteggiare il malaugurato crack, come diavolo possono contribuire questi a costituire una colletta di 440 miliardi di euro? Insomma da dove li prenderanno tutti questi soldi, considerando che ognuno di questi stati sono già indebitati di per sé con la banca centrale? Io ritengo che quegli euro non esistano; ma che esisteranno! Accadrà che la banca centrale comprerà i titoli di stato di ogni paese d’Europa (comunemente e volgarmente chiamabili “cambiali”) e che, a fronte di ciò, essa stamperà la moneta per il valore equivalente la quale, a sua volta, costituirà questo fondo miliardario da cui i governi in difficoltà potranno attingere solo per rimandare il proprio fallimento (senza così risolvere definitivamente la crisi abbattutasi). Oltre ad invitarvi a nutrire perplessità circa questa assurda soluzione, invito anche a chiedervi chi restituirà questi altri soldi alla banca centrale (più gli interessi). Saremo tutti noi, cari lettori. Sì, perché ogni stato membro garantirà con la capacità di risparmio dei propri cittadini, per la quota di competenza, quella che sarà la più grande e massiccia emissione di massa monetaria mai avvenuta nella decennale storia dell’euro (appunto, di 750 miliardi circa di banconote). Come un disgraziato sprofondato nelle sabbie mobili di una sperduta zona paludosa di una foresta tropicale, che coperto ormai fino alle spalle non gli resta alcuna via di uscita se non quella di farsi afferrare dal collo con un cappio, il quale più verrà tirato più strozzerà il povero sventurato, così le nazioni di tutta Europa accetteranno di buon grado che la banca europea emetta per loro conto i miliardi necessari per salvaguardare il continente e, a restituirli alla banca, non saranno i paesi disgraziati che ne avranno beneficiato (essi ormai saranno attaccati ad una spina che li terrà artificialmente in vita), ma saranno i risparmiatori di tutta Europa e i sempre più pochi lavoratori, i quali pagheranno tasse ancora più alte. Ecco la verità! Ci ritroveremo con un Euro che varrà meno rispetto al dollaro, che compreremo dall’estero con costi maggiori rispetto ad oggi, che i prezzi dei beni continueranno ad aumentare, che la disoccupazione incrementerà la sua corsa verso l’alto e che le tasse ci dissangueranno ancora di più, a scapito della crescita della produzione industriale del paese e del nostro progresso.

Mi scuso per tale pessimismo. L’occasione del fatto di estrema attualità che affronto con questo post è ghiotta per riflettere sulla pessima risoluzione economica ad una crisi, che puntualmente viene adottata da circa ottant’anni a questa parte. Di anno in anno, firmare cambiali (dicasi anche titoli di Stato) a nome del popolo, per ricevere dalla banca centrale banconote di nuova emissione utili per pagare gli sprechi della pubblica amministrazione, la quale per nulla agevola l’incremento della produzione del paese affinché essa diventi più redditizia, genera l’espansione del debito all’infinito, con accelerazioni supersoniche nelle circostanze in cui oggi ci troviamo, ossia quella in cui tutti sono intenti a non fare affondare la nostra moneta. Il sistema monetario basato sull’emissione libera di carta moneta senza una effettiva base reale (così come invece lo era una volta, con l’oro), determina la possibilità per le banche di scelte arbitrarie riguardanti l’aumento del numero di banconote in circolazione, spesso non giustificata nemmeno da una reale crescita della produzione. Esattamente come sta avvenendo negli ultimi giorni. Oggi stiamo assistendo a come l’Italia, fornendo come garanzia la buona capacità di risparmio dei suoi cittadini, si sia ulteriormente indebitata con la banca centrale, per dare la possibilità ai paesi spreconi di ottenere i finanziamenti utili per tirare avanti. Avete capito bene! Ci indebitiamo per poi prestare quei soldi a gente che non sarà mai in grado di restituirli, con le seguenti conseguenze:

- il problema delle nazioni in pericolo non viene risolto ma semplicemente e pericolosamente posticipato;

- la capacità di crescita di tali nazioni continuerà ad essere compromessa per altri quattro o cinque anni (allo scadere dei quali, il palloncino da essere solamente gonfio sarà prossimo all'esplosione);

- il nuovo debito che l’Italia ha contratto (come se non bastasse quello già esistente!), verrà restituito quasi interamente con le tasse imposte ai singoli cittadini italiani ignari di tutto, i quali hanno garantito, per i paesi sciagurati, con la firma apposta dai propri rappresentanti politici.

Come è stato possibile per l’uomo giungere a diventare inconsapevolmente schiavo e a pagare per esserlo?


Fonte:Il Blog di Pasquale Marinelli

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A gennaio dicevano (tranne questo blog e alcuni altri amici della rete) che il duemiladieci sarebbe stato l’anno della ripresa economica. Che cavolata! Sono passati cinque mesi da allora e si è già dovuto porre rimedio allo sciagurato destino (per nulla a noi remoto) della Grecia e, alcune settimana fa, i ministri di tutta Europa si sono dovuti incontrare per salvare dalla disfatta, niente di meno che, l’Euro. Capite perché continuo a ribadire che qualcosa non va?

Il submit dei potenti d’Europa, riuniti per stabilire i termini di una manovra che impiegherà circa 750 miliardi di euro a favore delle nazioni europee in pericolo di default, ha raggiunto una serie di accordi riguardanti maggiori sacrifici imposti soprattutto alle nazioni ritenute rischiose, come la Spagna e il Portogallo, una raccolta di 60 miliardi di risparmi dei cittadini (in cambio di titoli garantiti dai fondi del bilancio europeo) da poter prestare poi ai paesi in difficoltà, insieme ai 440 miliardi che saranno racimolati con una colletta alla quale parteciperanno tutti gli stati della zona euro, e ai restanti 250 miliardi che saranno erogati dal fondo monetario internazionale sottoforma di prestiti.

Prima ancora che da laureato in economia, la mia domanda da ragioniere è: alla luce di quanto suddetto, se dopo il tracollo della Grecia si teme il rischio di un effetto domino su tutti gli altri stati di eurolandia, le cui risorse economiche disponibili sono evidentemente insufficienti per fronteggiare il malaugurato crack, come diavolo possono contribuire questi a costituire una colletta di 440 miliardi di euro? Insomma da dove li prenderanno tutti questi soldi, considerando che ognuno di questi stati sono già indebitati di per sé con la banca centrale? Io ritengo che quegli euro non esistano; ma che esisteranno! Accadrà che la banca centrale comprerà i titoli di stato di ogni paese d’Europa (comunemente e volgarmente chiamabili “cambiali”) e che, a fronte di ciò, essa stamperà la moneta per il valore equivalente la quale, a sua volta, costituirà questo fondo miliardario da cui i governi in difficoltà potranno attingere solo per rimandare il proprio fallimento (senza così risolvere definitivamente la crisi abbattutasi). Oltre ad invitarvi a nutrire perplessità circa questa assurda soluzione, invito anche a chiedervi chi restituirà questi altri soldi alla banca centrale (più gli interessi). Saremo tutti noi, cari lettori. Sì, perché ogni stato membro garantirà con la capacità di risparmio dei propri cittadini, per la quota di competenza, quella che sarà la più grande e massiccia emissione di massa monetaria mai avvenuta nella decennale storia dell’euro (appunto, di 750 miliardi circa di banconote). Come un disgraziato sprofondato nelle sabbie mobili di una sperduta zona paludosa di una foresta tropicale, che coperto ormai fino alle spalle non gli resta alcuna via di uscita se non quella di farsi afferrare dal collo con un cappio, il quale più verrà tirato più strozzerà il povero sventurato, così le nazioni di tutta Europa accetteranno di buon grado che la banca europea emetta per loro conto i miliardi necessari per salvaguardare il continente e, a restituirli alla banca, non saranno i paesi disgraziati che ne avranno beneficiato (essi ormai saranno attaccati ad una spina che li terrà artificialmente in vita), ma saranno i risparmiatori di tutta Europa e i sempre più pochi lavoratori, i quali pagheranno tasse ancora più alte. Ecco la verità! Ci ritroveremo con un Euro che varrà meno rispetto al dollaro, che compreremo dall’estero con costi maggiori rispetto ad oggi, che i prezzi dei beni continueranno ad aumentare, che la disoccupazione incrementerà la sua corsa verso l’alto e che le tasse ci dissangueranno ancora di più, a scapito della crescita della produzione industriale del paese e del nostro progresso.

Mi scuso per tale pessimismo. L’occasione del fatto di estrema attualità che affronto con questo post è ghiotta per riflettere sulla pessima risoluzione economica ad una crisi, che puntualmente viene adottata da circa ottant’anni a questa parte. Di anno in anno, firmare cambiali (dicasi anche titoli di Stato) a nome del popolo, per ricevere dalla banca centrale banconote di nuova emissione utili per pagare gli sprechi della pubblica amministrazione, la quale per nulla agevola l’incremento della produzione del paese affinché essa diventi più redditizia, genera l’espansione del debito all’infinito, con accelerazioni supersoniche nelle circostanze in cui oggi ci troviamo, ossia quella in cui tutti sono intenti a non fare affondare la nostra moneta. Il sistema monetario basato sull’emissione libera di carta moneta senza una effettiva base reale (così come invece lo era una volta, con l’oro), determina la possibilità per le banche di scelte arbitrarie riguardanti l’aumento del numero di banconote in circolazione, spesso non giustificata nemmeno da una reale crescita della produzione. Esattamente come sta avvenendo negli ultimi giorni. Oggi stiamo assistendo a come l’Italia, fornendo come garanzia la buona capacità di risparmio dei suoi cittadini, si sia ulteriormente indebitata con la banca centrale, per dare la possibilità ai paesi spreconi di ottenere i finanziamenti utili per tirare avanti. Avete capito bene! Ci indebitiamo per poi prestare quei soldi a gente che non sarà mai in grado di restituirli, con le seguenti conseguenze:

- il problema delle nazioni in pericolo non viene risolto ma semplicemente e pericolosamente posticipato;

- la capacità di crescita di tali nazioni continuerà ad essere compromessa per altri quattro o cinque anni (allo scadere dei quali, il palloncino da essere solamente gonfio sarà prossimo all'esplosione);

- il nuovo debito che l’Italia ha contratto (come se non bastasse quello già esistente!), verrà restituito quasi interamente con le tasse imposte ai singoli cittadini italiani ignari di tutto, i quali hanno garantito, per i paesi sciagurati, con la firma apposta dai propri rappresentanti politici.

Come è stato possibile per l’uomo giungere a diventare inconsapevolmente schiavo e a pagare per esserlo?


Fonte:Il Blog di Pasquale Marinelli

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"La mafia braccio armato dell'altra massoneria"

Soccorsi dopo l'attentato mafioso di via dei Georgofili a Firenze

I rapporti inediti della stagione
delle stragi: uomini di Cosa nostra
infiltrati nelle logge siciliane
FRANCESCO LA LICATA, GUIDO RUOTOLO
ROMA

Novembre del 2002. Documento della Dia, Divisione investigativa antimafia, alla Procura antimafia di Firenze che indaga sulle stragi del ‘93. «Cosa nostra, storicamente, per raggiungere determinati obiettivi essenziali - condizionamento dei processi e realizzazione di grossi arricchimenti - si è sempre mossa attivando da una parte referenti politico-istituzionali, dall’altra ponendo in essere azioni delittuose, alla bisogna, anche estreme.

Altra determinante leva di pressione è stata sicuramente quell’alleanza con una parte della massoneria deviata, incarnata nelle logge occulte, riferibile, tra le altre, alla loggia del Gran Maestro della Serenissima degli Antichi Liberi Accettati Muratori-Obbedienza di Piazza del Gesù - Maestro Sovrano Generale del Rito Filosofico Italiano - Sovrano Onorario del Rito Scozzese Antico e Accettato, di origini palermitane, di stanza a Torino, il noto prof. Savona Luigi, particolarmente sentito nel decennio Ottanta, in seno a Cosa nostra, per il suo profondo legame con la cosca mazzarese, intrecciato attraverso il mafioso Bastone Giovanni, personaggio di primo piano nel panorama criminale torinese nel periodo succitato, che come si vedrà più avanti ha avuto un ruolo non certo insignificante nella vicenda relativa alla collocazione di un ordigno, non volutamente fatto brillare, nel giardino di Boboli a Firenze».

Il rapporto della Dia si dilunga sui rapporti di Savona con i mafiosi della famiglia Lo Nigro, e più in generale della massoneria deviata con Cosa nostra: «Questo particolare aspetto relazionale deviante della massoneria, viene definito “mafioneria”; una sorta di ordinamento composto da mafiosi e massoni, che trova ambiti ben definiti in un’area oscura della politica, connotata da una perversa logica di potere».

C’è un passaggio dell’informativa della Dia del 2002 che richiama alle polemiche di questi giorni sulla strategia stragista finalizzata a favorire la discesa in campo di nuovi soggetti politici: «L’avvio di una trattativa, nella logica pragmatica mafiosa, con le Istituzioni non poteva che prevedere l’apporto e l’intervento di soggetti asserviti a Cosa nostra... in questo quadro si inserisce il ruolo svolto dall’indagato Vincenzo Inzerillo, ex senatore Dc (poi la sua posizione è stata archiviata nell’ambito del fascicolo sui mandanti delle stragi di Firenze, Roma e Milano, ndr), collegato con la famiglia dominante del quartiere Brancaccio di Palermo, capeggiata all’epoca dai fratelli Graviano, cui l’Inzerillo era asservito».

Inzerillo (condannato in Appello, l’11 gennaio del 2010, a 5 anni e 4 mesi per concorso in associazione mafiosa) in quell’autunno del ‘93 è impegnato nella nascita di un partito politico, Sicilia Libera. «La possibilità di poter disporre di una forza politica da inserire poi in un più ampio raggruppamento, che fosse espressione di un vero soggetto politico, avrebbe consentito a Cosa nostra, secondo il suo progetto, di poter realizzare direttamente e senza alcuna mediazione quegli affari abbisognevoli di appoggi di natura politica, ma anche di poter condizionare con subdoli interventi l’andamento dei processi avviati contro i propri sodali». Sempre la Dia, ma dieci anni prima (10 agosto 1993). Un documento corposo analizza scenari e moventi all’indomani delle stragi di luglio di Roma e Milano: «Lo scenario criminale delineato sullo sfondo di questi attentati ha messo in evidenza da un lato l’interesse alla loro esecuzione da parte della mafia, ma ha lasciato altresì intravedere l’intervento di altre forze criminali in grado di elaborare quei sofisticati progetti necessari per il conseguimento di obiettivi di portata più ampia e travalicanti le eigenze specifiche dell’organizzazione mafiosa».

Si sofferma sul punto il rapporto della Dia: «Si potrebbe pensare a una aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergano finalità diverse. Un gruppo che, in mancanza di una base costituita da autentici rivoluzionari si affida all’apporto operativo della criminalità organizzata. Gli esempi di organismi nati da commistioni tra mafia, eversione di destra, finanzieri d’assalto, funzionari dello Stato infedeli e pubblici amministratori corrotti non mancano».

Infine un accenno alla massoneria: «Recenti indagini - si legge nel rapporto Dia del 10 agosto 1993 - hanno evidenziato la presenza di uomini di “cosa nostra” nelle logge palermitane e trapanesi, senza dimenticare il ruolo chiave svolto alla fine degli anni ‘70 da Michele Sindona nei contatti tra gli ispiratori di progetti golpisti ed elementi di spicco della mafia siciliana».
Un salto di un anno. Siamo al 4 marzo del 1994. Questa volta si tratta di una informativa all’autorità giudiziaria da parte della Dia. Settanta pagine corpose. Un capitolo importante è dedicato al regime carcerario, al 41 bis: «Solo alcuni giorni prima degli attentati di Milano e Roma, il ministro di grazia e giustizia aveva disposto il rinnovo dei provvedimenti di sottoposizione al regime speciale per circa 284 detenuti appartenenti a organizzazioni mafiose.

La logica che ha fatto considerare vincente l’attuazione di una campagna del terrore deve aver avuto alla base il convincimento che, dovendo scegliere se affrontare una situazione di caos generale o revocare i provvedimenti di rigore nei confronti dei mafiosi, le Autorità dello Stato avrebbero probabilmente optato per la seconda soluzione, facilmente giustificabile con motivazioni garantiste o, come avvenuto in passato, affidando all’oblio, agevolato dall’assenza di nuovi fatti delittuosi eclatanti, una normalizzazione di fatto».

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Soccorsi dopo l'attentato mafioso di via dei Georgofili a Firenze

I rapporti inediti della stagione
delle stragi: uomini di Cosa nostra
infiltrati nelle logge siciliane
FRANCESCO LA LICATA, GUIDO RUOTOLO
ROMA

Novembre del 2002. Documento della Dia, Divisione investigativa antimafia, alla Procura antimafia di Firenze che indaga sulle stragi del ‘93. «Cosa nostra, storicamente, per raggiungere determinati obiettivi essenziali - condizionamento dei processi e realizzazione di grossi arricchimenti - si è sempre mossa attivando da una parte referenti politico-istituzionali, dall’altra ponendo in essere azioni delittuose, alla bisogna, anche estreme.

Altra determinante leva di pressione è stata sicuramente quell’alleanza con una parte della massoneria deviata, incarnata nelle logge occulte, riferibile, tra le altre, alla loggia del Gran Maestro della Serenissima degli Antichi Liberi Accettati Muratori-Obbedienza di Piazza del Gesù - Maestro Sovrano Generale del Rito Filosofico Italiano - Sovrano Onorario del Rito Scozzese Antico e Accettato, di origini palermitane, di stanza a Torino, il noto prof. Savona Luigi, particolarmente sentito nel decennio Ottanta, in seno a Cosa nostra, per il suo profondo legame con la cosca mazzarese, intrecciato attraverso il mafioso Bastone Giovanni, personaggio di primo piano nel panorama criminale torinese nel periodo succitato, che come si vedrà più avanti ha avuto un ruolo non certo insignificante nella vicenda relativa alla collocazione di un ordigno, non volutamente fatto brillare, nel giardino di Boboli a Firenze».

Il rapporto della Dia si dilunga sui rapporti di Savona con i mafiosi della famiglia Lo Nigro, e più in generale della massoneria deviata con Cosa nostra: «Questo particolare aspetto relazionale deviante della massoneria, viene definito “mafioneria”; una sorta di ordinamento composto da mafiosi e massoni, che trova ambiti ben definiti in un’area oscura della politica, connotata da una perversa logica di potere».

C’è un passaggio dell’informativa della Dia del 2002 che richiama alle polemiche di questi giorni sulla strategia stragista finalizzata a favorire la discesa in campo di nuovi soggetti politici: «L’avvio di una trattativa, nella logica pragmatica mafiosa, con le Istituzioni non poteva che prevedere l’apporto e l’intervento di soggetti asserviti a Cosa nostra... in questo quadro si inserisce il ruolo svolto dall’indagato Vincenzo Inzerillo, ex senatore Dc (poi la sua posizione è stata archiviata nell’ambito del fascicolo sui mandanti delle stragi di Firenze, Roma e Milano, ndr), collegato con la famiglia dominante del quartiere Brancaccio di Palermo, capeggiata all’epoca dai fratelli Graviano, cui l’Inzerillo era asservito».

Inzerillo (condannato in Appello, l’11 gennaio del 2010, a 5 anni e 4 mesi per concorso in associazione mafiosa) in quell’autunno del ‘93 è impegnato nella nascita di un partito politico, Sicilia Libera. «La possibilità di poter disporre di una forza politica da inserire poi in un più ampio raggruppamento, che fosse espressione di un vero soggetto politico, avrebbe consentito a Cosa nostra, secondo il suo progetto, di poter realizzare direttamente e senza alcuna mediazione quegli affari abbisognevoli di appoggi di natura politica, ma anche di poter condizionare con subdoli interventi l’andamento dei processi avviati contro i propri sodali». Sempre la Dia, ma dieci anni prima (10 agosto 1993). Un documento corposo analizza scenari e moventi all’indomani delle stragi di luglio di Roma e Milano: «Lo scenario criminale delineato sullo sfondo di questi attentati ha messo in evidenza da un lato l’interesse alla loro esecuzione da parte della mafia, ma ha lasciato altresì intravedere l’intervento di altre forze criminali in grado di elaborare quei sofisticati progetti necessari per il conseguimento di obiettivi di portata più ampia e travalicanti le eigenze specifiche dell’organizzazione mafiosa».

Si sofferma sul punto il rapporto della Dia: «Si potrebbe pensare a una aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergano finalità diverse. Un gruppo che, in mancanza di una base costituita da autentici rivoluzionari si affida all’apporto operativo della criminalità organizzata. Gli esempi di organismi nati da commistioni tra mafia, eversione di destra, finanzieri d’assalto, funzionari dello Stato infedeli e pubblici amministratori corrotti non mancano».

Infine un accenno alla massoneria: «Recenti indagini - si legge nel rapporto Dia del 10 agosto 1993 - hanno evidenziato la presenza di uomini di “cosa nostra” nelle logge palermitane e trapanesi, senza dimenticare il ruolo chiave svolto alla fine degli anni ‘70 da Michele Sindona nei contatti tra gli ispiratori di progetti golpisti ed elementi di spicco della mafia siciliana».
Un salto di un anno. Siamo al 4 marzo del 1994. Questa volta si tratta di una informativa all’autorità giudiziaria da parte della Dia. Settanta pagine corpose. Un capitolo importante è dedicato al regime carcerario, al 41 bis: «Solo alcuni giorni prima degli attentati di Milano e Roma, il ministro di grazia e giustizia aveva disposto il rinnovo dei provvedimenti di sottoposizione al regime speciale per circa 284 detenuti appartenenti a organizzazioni mafiose.

La logica che ha fatto considerare vincente l’attuazione di una campagna del terrore deve aver avuto alla base il convincimento che, dovendo scegliere se affrontare una situazione di caos generale o revocare i provvedimenti di rigore nei confronti dei mafiosi, le Autorità dello Stato avrebbero probabilmente optato per la seconda soluzione, facilmente giustificabile con motivazioni garantiste o, come avvenuto in passato, affidando all’oblio, agevolato dall’assenza di nuovi fatti delittuosi eclatanti, una normalizzazione di fatto».

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WALTER Super Star



Nonostante il suo addio alla politica, di recente, Walter Veltroni impazza in TV e sulla Stampa.

Ascolto con apprezzamento quello che dice, ma sento il dovere di pubblicare ancora una volta un post sulla sua bacheca, per fare alcune critiche e precisazioni.

Lo ripropongo anche a voi, eccolo di seguito.


Secondo quanto emerge dalle ultime storie giudiziarie, i fatti del '92-'93 furono eventi conclusivi di una strategia terroristico-mafiosa adottata da un "grumo di interessi" politico-finanziari, così come li chiama anche Veltroni, che preparava la strada a una nuova politica e ad un nuovo assetto istituzionale.

Dopo gli ultimi attentati si riportò in Italia quella “pax politica” di cui c’era bisogno, ristabilendo l'ordine pubblico a patto di riscrivere un nuovo assetto sia politico che di "capitali" (finanziario), in cui si suppone, stando alle ipotesi dei processi in corso, che il nuovo soggetto politico in questione fosse stato Forza Italia dell’On. Silvio Berlusconi.

Chiarito questo, quando qualche anno più tardi nel 2003, insieme all'intero entourage della sinistra italiana, l'On. Violante alla Camera si lascia “scappare” queste esatte parole>

Il nesso è questo: per chi fa politica a quei livelli, non c’è bisogno di attendere l’intervento della Magistratura, alcuni fatti bisogna prevenirli a monte!

Se adesso il buon Veltroni e con lui quella sinistra di cui fa parte, la quale grazie a quegli errori ha contribuito a portare al fallimento questa nazione, si presenta all'opinione pubblica e viene a parlarci come se fossero gli ultimi arrivati, o peggio ancora, come i salvatori della patria, beh, allora non ci sto!

Siamo stanchi di essere presi per i fondelli.

Già da allora si sapeva bene cosa ci fosse realmente in gioco, non c’era da attendere certo la Magistratura. La cosa gravissima è che furono fatte delle concessioni e dei compromessi politici senza alcun accordo con la vera base elettorale, consegnando di fatto il paese nelle mani di mafiosi e speculatori di cui ora parla.

Ciò che contesto al buon Veltroni e a quella sinistra di cui è parte, è il fatto che furono commessi errori politici INCOMMENSURABILI, dai quali scaturirono gran parte dei problemi attuali.

Senza andare oltre, e scrivere a chiare lettere tutte le implicazioni che potrebbero esserci… Se costoro (la medesima sinistra, con la faccia e il buon nome di Veltroni) vorrebbero far credere al paese che in sostanza ne prendono atto solo adesso, comportandosi come se fossero gli ultimi arrivati. Credo che questa “gentaglia politica” rappresentino coloro i quali hanno contribuito sostanzialmente a farci precipitare nella “merda”, e ancora peggio, non trovo morale e giusto che si ripropongano ancora come l’alternativa.

Seguo la cronaca tutti i giorni da almeno 20 anni, difficilmente dimentico le cose.

Questa sinistra, Violante, D’Alema, Fassino etc. etc. di cui il sig. Veltroni fa parte, ha fallito in tutto e per tutto. Anzi, la loro responsabilità è doppia, perché hanno distrutto la credibilità della sinistra italiana!

Basta, ora fuori dalle palle.

Ecco come Camorra, Massoneria e parte di quella politica (Bassolino & co.) hanno ridotto la Campania negli ultimi 20 anni.


Vedere per credere:
http://www.facebook.com/LaTerraDeiFuochi



Per il bene di questo paese non servono politici leader, bensì “veri cittadini”.

Viva i liberi cittadini! Viva la cittadinanza attiva!

Per "La Terra dei Fuochi"
con orgoglio Angelo Ferrillo
.
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Nonostante il suo addio alla politica, di recente, Walter Veltroni impazza in TV e sulla Stampa.

Ascolto con apprezzamento quello che dice, ma sento il dovere di pubblicare ancora una volta un post sulla sua bacheca, per fare alcune critiche e precisazioni.

Lo ripropongo anche a voi, eccolo di seguito.


Secondo quanto emerge dalle ultime storie giudiziarie, i fatti del '92-'93 furono eventi conclusivi di una strategia terroristico-mafiosa adottata da un "grumo di interessi" politico-finanziari, così come li chiama anche Veltroni, che preparava la strada a una nuova politica e ad un nuovo assetto istituzionale.

Dopo gli ultimi attentati si riportò in Italia quella “pax politica” di cui c’era bisogno, ristabilendo l'ordine pubblico a patto di riscrivere un nuovo assetto sia politico che di "capitali" (finanziario), in cui si suppone, stando alle ipotesi dei processi in corso, che il nuovo soggetto politico in questione fosse stato Forza Italia dell’On. Silvio Berlusconi.

Chiarito questo, quando qualche anno più tardi nel 2003, insieme all'intero entourage della sinistra italiana, l'On. Violante alla Camera si lascia “scappare” queste esatte parole>

Il nesso è questo: per chi fa politica a quei livelli, non c’è bisogno di attendere l’intervento della Magistratura, alcuni fatti bisogna prevenirli a monte!

Se adesso il buon Veltroni e con lui quella sinistra di cui fa parte, la quale grazie a quegli errori ha contribuito a portare al fallimento questa nazione, si presenta all'opinione pubblica e viene a parlarci come se fossero gli ultimi arrivati, o peggio ancora, come i salvatori della patria, beh, allora non ci sto!

Siamo stanchi di essere presi per i fondelli.

Già da allora si sapeva bene cosa ci fosse realmente in gioco, non c’era da attendere certo la Magistratura. La cosa gravissima è che furono fatte delle concessioni e dei compromessi politici senza alcun accordo con la vera base elettorale, consegnando di fatto il paese nelle mani di mafiosi e speculatori di cui ora parla.

Ciò che contesto al buon Veltroni e a quella sinistra di cui è parte, è il fatto che furono commessi errori politici INCOMMENSURABILI, dai quali scaturirono gran parte dei problemi attuali.

Senza andare oltre, e scrivere a chiare lettere tutte le implicazioni che potrebbero esserci… Se costoro (la medesima sinistra, con la faccia e il buon nome di Veltroni) vorrebbero far credere al paese che in sostanza ne prendono atto solo adesso, comportandosi come se fossero gli ultimi arrivati. Credo che questa “gentaglia politica” rappresentino coloro i quali hanno contribuito sostanzialmente a farci precipitare nella “merda”, e ancora peggio, non trovo morale e giusto che si ripropongano ancora come l’alternativa.

Seguo la cronaca tutti i giorni da almeno 20 anni, difficilmente dimentico le cose.

Questa sinistra, Violante, D’Alema, Fassino etc. etc. di cui il sig. Veltroni fa parte, ha fallito in tutto e per tutto. Anzi, la loro responsabilità è doppia, perché hanno distrutto la credibilità della sinistra italiana!

Basta, ora fuori dalle palle.

Ecco come Camorra, Massoneria e parte di quella politica (Bassolino & co.) hanno ridotto la Campania negli ultimi 20 anni.


Vedere per credere:
http://www.facebook.com/LaTerraDeiFuochi



Per il bene di questo paese non servono politici leader, bensì “veri cittadini”.

Viva i liberi cittadini! Viva la cittadinanza attiva!

Per "La Terra dei Fuochi"
con orgoglio Angelo Ferrillo
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Unità d’Italia, lo scotto pagato dalla Sicilia


Di Salvatore Agueci

Lo scotto pagato dalla Sicilia.

La ricorrenza dell’11 maggio per le celebrazioni dei 150 anni dell’unificazione d’Italia, da quando ebbe inizio (lo sbarco dei Mille a Marsala, la proclamazione della Dittatura a Salemi di Garibaldi in nome del Re Vittorio Emanuele II, la battaglia di Calatafimi contro i Borboni), e gli interventi del Capo dello Stato Giorgio Napolitano, mi hanno spinto a una serie di riflessioni che affido alla considerazione dei lettori.

Ha fatto bene Napolitano a collegare gli avvenimenti di 150 anni fa con la situazione politica e sociale attuale.

«Chi si prova a immaginare – ha affermato il Capo dello Stato - o prospettare una nuova frammentazione dello Stato nazionale, attraverso secessioni o separazioni comunque concepite, coltiva un autentico salto nel buio».

E rispondendo all’intervento del Sindaco di Marsala Carini e a tutte le attese del Mezzogiorno, Napolitano ha aggiunto: «Una salda unità è la sola garanzia per il nostro comune futuro».

Lanciando, poi, un monito al Nord e a chi pensa in termini di secessione, il Capo dello Stato, con fermezza, ha detto: «Chiedo a tutte le forze responsabili che operano nel Nord e lo rappresentano, di riflettere: l’Italia deve crescere, ma può riuscire solo se si metteranno a frutto le energie inutilizzate del Meridione».

Il Presidente ricordando l’apporto plurisecolare dato dal Meridione affinché l’Italia fosse costituita ha aggiunto: «Le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario offrono l’occasione per mettere in luce gli apporti della Sicilia e del Mezzogiorno a una storia e a una cultura comuni che affondano le radici in un passato plurisecolare. Di quel patrimonio, culminato nelle conquiste del 1860-1861, come meridionali possiamo essere fieri: non c’è spazio, a questo proposito, per pregiudizi e luoghi comuni che, purtroppo, ancora o nuovamente, circolano nell’ignoranza di quel che il Mezzogiorno ha dato all’Italia in momenti storici essenziali».

In queste parole c’è l’invito, mosso ai Siciliani, a una non resa, c’è l’incitamento, come l’aedo nelle battaglie greche, a una riscossa.

Per noi è motivo di orgoglio per quanto il Capo dello Stato ci ha ricordato, ma da stimolo per richiamare alla memoria l’apporto che la Sicilia ha dato nella Storia.

Quando nel 491 a. C. Gerone di Siracusa inviò il primo carico di grano a Roma, la Sicilia cominciò così a essere considerata “il granaio di Roma”.

Il V secolo a. C. segnò un periodo fulgido per la Sicilia greca. Si costruirono i templi d’Agrigento, alla corte di Gerone soggiornarono a lungo il filosofo Senofane e il poeta Bacchilide. Al tempo l’influenza della Sicilia sulla Grecia era tale che lo storico Anton Gardner ha definito la Sicilia del tempo “l’America del mondo antico”. Grande fu lo splendore culturale della Sicilia greca in questo periodo, grazie alla sua originalità anche nei confronti della cultura greca; fiorirono tutte le arti.

Nel 210 a. C. la Sicilia divenne provincia romana e nel 535 d. C., con l’avvento dei Bizantini, termina il più lungo periodo dei dominatori in Sicilia. Perché Roma ebbe mire espansionistiche in Sicilia? Come dice Santi Correnti nel suo saggio “Roma e la Sicilia”, i motivi furono tre: politico, l’egemonia nella guerra con Cartagine era logico che si risolvesse proprio in Sicilia; economico, Roma aveva bisogno dei beni naturali siciliani, sia per le truppe sia per il popolo romano; strategico, la Sicilia era il ponte ideale per la conquista dell’Africa.

Del periodo svevo è da ricordare Federico II (1194-1250). Divenuto imperatore del Sacro Romano Impero, egli meritò dai suoi contemporanei l’appellativo di “la meraviglia del mondo”, per la sua vasta cultura nel campo delle lettere, delle lingue, della scienza, in particolare dell’astrologia. Alla sua corte nacquero la letteratura italiana e la “Scuola poetica siciliana”. In lui confluirono tre civiltà, quella latino-germanica, la siculo-normanna e l’araba.

Il 21 ottobre 1860 si votò l’annessione alla monarchia sabauda: lo Statuto Albertino e la legislazione piemontese diventarono legge vigente. I parlamentari siciliani divennero parte politica dell’Italia unita.

Ma l’Unità non tarderà a rivelarsi una delusione per i Siciliani. Su di loro si abbatté un enorme macigno che né il tempo, né l’Autonomia contribuiranno a sollevare. Eppure la Sicilia aveva creduto alla costruzione della Patria unica.

Appoggiò, infatti, l’impresa di Garibaldi sull’Aspromonte nel 1862, mandò i suoi figli a morire nelle guerre del 1866, in quelle d’Africa del 1895 e 1911 e contribuì con 60.000 soldati morti nella I Guerra mondiale.

I Siciliani abituati a pagare l’unica imposta sul reddito, si videro adesso costretti a pagare qualsiasi genere di tassa, quella comunale, provinciale, l’addizionale, il focatico (tassa di famiglia), la tassa sul macinato (che colpiva i poveri), e la tassa di successione; quello che non sopportarono fu, in ogni caso, la leva militare obbligatoria (contestata a Garibaldi), poiché il servizio militare era volontario.

Il carico fiscale superò ogni previsione, la Sicilia che pur aveva contribuito alla composizione del capitale liquido dell’Italia con 443 milioni su 668, pari al 65,7%, si vide in malo modo ricompensata dallo Stato, che spendeva in Liguria 71,15 lire annue per abitante, mentre in Sicilia si accontentava di darne solo 19,88.

Alla Sicilia furono estese le leggi eversive Siccardi per la vendita delle proprietà ecclesiastiche. Fu un colpo pesante per la Sicilia e per l’economia dell’Isola: i due terzi delle terre erano, infatti, in possesso delle istituzioni religiose che davano pane e lavoro alla gente: fu l’ultimo colpo inflitto al feudalesimo, ma anche all’opportunità occupazionale.

La vendita dei beni fatta alla borghesia capitalistica dell’Isola procurò oltre 600 milioni, che non furono spesi per la Sicilia stessa, ma furono incassati dallo Stato; il 16 marzo 1876 il bolognese Marco Minghetti poté dichiarare trionfalmente il pareggio del bilancio dello Stato. Gli effetti furono disastrosi: la borghesia non poteva apportare migliorie al latifondo, né pagare i salari ai braccianti. Si cadde in un disfattismo economico-sociale.

Iniziò il triste fenomeno dell’emigrazione in massa che in cento anni di storia ha portato verso le Americhe e i Paesi Europei cinque milioni di Siciliani, di cui un milione con passaporto italiano: interi paesi si spopolarono, le campagne si svuotarono, le famiglie furono private degli affetti più cari. Ironia della sorte: le rimesse degli immigrati servirono all’industria italiana per l’acquisto delle materie prime.

Nel 1861 mentre la media della popolazione attiva in Sicilia era del 52%, in Piemonte del 17% e in Lombardia del 26%, nel 1936, durante il fascismo, la Sicilia aveva appena che il 34% della forza lavoro, mentre in Piemonte era salita al 53%, in Lombardia al 48%.

Dal 1928 al 1938 mentre in Italia si costruirono 1800 chilometri d’acquedotti, in Sicilia appena che 15 chilometri; neppure un metro ferroviario era elettrificato.

Ci fu un tentativo di rivalsa sociale in Sicilia, fu con i “Fasci siciliani dei lavoratori”, fondati nel 1891 dal catanese Giuseppe De Felice, ma furono stroncati fin dal primo nascere. Le conseguenze: non è stato prodotto sviluppo in 150 anni d’Unità d’Italia, aumentando il fenomeno emigratorio fino ai nostri giorni. Le ondate migratorie continuarono, infatti, dopo la II Guerra mondiale e negli anni sessanta, dirigendosi verso l’Australia e ancora in Canada ed Europa.

Tuttora i nostri giovani partono verso il Centro-Nord dell’Italia e verso i paesi europei. A questo fenomeno, divenuto elemento portante della nostra storia, si aggiunge, ai nostri giorni, la grande immigrazione dal Sud del mondo.

I siciliani hanno, quindi, contribuito, in termini umani e lavorativi, allo sviluppo di tutto il Settentrione d’Italia, esportando menti, cuori e braccia perché il Nord si sviluppasse e progredisse. Ma la storia si ripete. Adesso stiamo assistendo a un’usurpazione dei capitali da parte delle banche del Nord. Se non fosse così quale interesse avevano i colossi bancari italiani per acquistare in questi ultimi anni le banche siciliane, impossessandosi, ancora una volta, dei loro risparmi e investendoli al Nord?

Che si gridi pure contro il Meridione, che si faccia ventilare lo spettro della “diversità” ma che si riconosca quanto Oreste del Buono, toscano, ha scritto: «Da almeno due secoli, per quel che riguarda l’interpretazione della società in cui viviamo, la cultura italiana senza l’apporto siciliano, è letteralmente impossibile. L’Italia non è in grado di fare a meno della Sicilia. L’identità degli Italiani dipende in gran parte da quella dei Siciliani».

Ben venga, allora, il monito del Capo dello Stato non solo per celebrare l’Unificazione dell’Italia, ma perché si lavori affinché ci sia un solo Paese e tutto, dai capitali alla cultura, siano distribuiti in modo armonico e non secessionistico.

Fonte:BlogSicilia

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Di Salvatore Agueci

Lo scotto pagato dalla Sicilia.

La ricorrenza dell’11 maggio per le celebrazioni dei 150 anni dell’unificazione d’Italia, da quando ebbe inizio (lo sbarco dei Mille a Marsala, la proclamazione della Dittatura a Salemi di Garibaldi in nome del Re Vittorio Emanuele II, la battaglia di Calatafimi contro i Borboni), e gli interventi del Capo dello Stato Giorgio Napolitano, mi hanno spinto a una serie di riflessioni che affido alla considerazione dei lettori.

Ha fatto bene Napolitano a collegare gli avvenimenti di 150 anni fa con la situazione politica e sociale attuale.

«Chi si prova a immaginare – ha affermato il Capo dello Stato - o prospettare una nuova frammentazione dello Stato nazionale, attraverso secessioni o separazioni comunque concepite, coltiva un autentico salto nel buio».

E rispondendo all’intervento del Sindaco di Marsala Carini e a tutte le attese del Mezzogiorno, Napolitano ha aggiunto: «Una salda unità è la sola garanzia per il nostro comune futuro».

Lanciando, poi, un monito al Nord e a chi pensa in termini di secessione, il Capo dello Stato, con fermezza, ha detto: «Chiedo a tutte le forze responsabili che operano nel Nord e lo rappresentano, di riflettere: l’Italia deve crescere, ma può riuscire solo se si metteranno a frutto le energie inutilizzate del Meridione».

Il Presidente ricordando l’apporto plurisecolare dato dal Meridione affinché l’Italia fosse costituita ha aggiunto: «Le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario offrono l’occasione per mettere in luce gli apporti della Sicilia e del Mezzogiorno a una storia e a una cultura comuni che affondano le radici in un passato plurisecolare. Di quel patrimonio, culminato nelle conquiste del 1860-1861, come meridionali possiamo essere fieri: non c’è spazio, a questo proposito, per pregiudizi e luoghi comuni che, purtroppo, ancora o nuovamente, circolano nell’ignoranza di quel che il Mezzogiorno ha dato all’Italia in momenti storici essenziali».

In queste parole c’è l’invito, mosso ai Siciliani, a una non resa, c’è l’incitamento, come l’aedo nelle battaglie greche, a una riscossa.

Per noi è motivo di orgoglio per quanto il Capo dello Stato ci ha ricordato, ma da stimolo per richiamare alla memoria l’apporto che la Sicilia ha dato nella Storia.

Quando nel 491 a. C. Gerone di Siracusa inviò il primo carico di grano a Roma, la Sicilia cominciò così a essere considerata “il granaio di Roma”.

Il V secolo a. C. segnò un periodo fulgido per la Sicilia greca. Si costruirono i templi d’Agrigento, alla corte di Gerone soggiornarono a lungo il filosofo Senofane e il poeta Bacchilide. Al tempo l’influenza della Sicilia sulla Grecia era tale che lo storico Anton Gardner ha definito la Sicilia del tempo “l’America del mondo antico”. Grande fu lo splendore culturale della Sicilia greca in questo periodo, grazie alla sua originalità anche nei confronti della cultura greca; fiorirono tutte le arti.

Nel 210 a. C. la Sicilia divenne provincia romana e nel 535 d. C., con l’avvento dei Bizantini, termina il più lungo periodo dei dominatori in Sicilia. Perché Roma ebbe mire espansionistiche in Sicilia? Come dice Santi Correnti nel suo saggio “Roma e la Sicilia”, i motivi furono tre: politico, l’egemonia nella guerra con Cartagine era logico che si risolvesse proprio in Sicilia; economico, Roma aveva bisogno dei beni naturali siciliani, sia per le truppe sia per il popolo romano; strategico, la Sicilia era il ponte ideale per la conquista dell’Africa.

Del periodo svevo è da ricordare Federico II (1194-1250). Divenuto imperatore del Sacro Romano Impero, egli meritò dai suoi contemporanei l’appellativo di “la meraviglia del mondo”, per la sua vasta cultura nel campo delle lettere, delle lingue, della scienza, in particolare dell’astrologia. Alla sua corte nacquero la letteratura italiana e la “Scuola poetica siciliana”. In lui confluirono tre civiltà, quella latino-germanica, la siculo-normanna e l’araba.

Il 21 ottobre 1860 si votò l’annessione alla monarchia sabauda: lo Statuto Albertino e la legislazione piemontese diventarono legge vigente. I parlamentari siciliani divennero parte politica dell’Italia unita.

Ma l’Unità non tarderà a rivelarsi una delusione per i Siciliani. Su di loro si abbatté un enorme macigno che né il tempo, né l’Autonomia contribuiranno a sollevare. Eppure la Sicilia aveva creduto alla costruzione della Patria unica.

Appoggiò, infatti, l’impresa di Garibaldi sull’Aspromonte nel 1862, mandò i suoi figli a morire nelle guerre del 1866, in quelle d’Africa del 1895 e 1911 e contribuì con 60.000 soldati morti nella I Guerra mondiale.

I Siciliani abituati a pagare l’unica imposta sul reddito, si videro adesso costretti a pagare qualsiasi genere di tassa, quella comunale, provinciale, l’addizionale, il focatico (tassa di famiglia), la tassa sul macinato (che colpiva i poveri), e la tassa di successione; quello che non sopportarono fu, in ogni caso, la leva militare obbligatoria (contestata a Garibaldi), poiché il servizio militare era volontario.

Il carico fiscale superò ogni previsione, la Sicilia che pur aveva contribuito alla composizione del capitale liquido dell’Italia con 443 milioni su 668, pari al 65,7%, si vide in malo modo ricompensata dallo Stato, che spendeva in Liguria 71,15 lire annue per abitante, mentre in Sicilia si accontentava di darne solo 19,88.

Alla Sicilia furono estese le leggi eversive Siccardi per la vendita delle proprietà ecclesiastiche. Fu un colpo pesante per la Sicilia e per l’economia dell’Isola: i due terzi delle terre erano, infatti, in possesso delle istituzioni religiose che davano pane e lavoro alla gente: fu l’ultimo colpo inflitto al feudalesimo, ma anche all’opportunità occupazionale.

La vendita dei beni fatta alla borghesia capitalistica dell’Isola procurò oltre 600 milioni, che non furono spesi per la Sicilia stessa, ma furono incassati dallo Stato; il 16 marzo 1876 il bolognese Marco Minghetti poté dichiarare trionfalmente il pareggio del bilancio dello Stato. Gli effetti furono disastrosi: la borghesia non poteva apportare migliorie al latifondo, né pagare i salari ai braccianti. Si cadde in un disfattismo economico-sociale.

Iniziò il triste fenomeno dell’emigrazione in massa che in cento anni di storia ha portato verso le Americhe e i Paesi Europei cinque milioni di Siciliani, di cui un milione con passaporto italiano: interi paesi si spopolarono, le campagne si svuotarono, le famiglie furono private degli affetti più cari. Ironia della sorte: le rimesse degli immigrati servirono all’industria italiana per l’acquisto delle materie prime.

Nel 1861 mentre la media della popolazione attiva in Sicilia era del 52%, in Piemonte del 17% e in Lombardia del 26%, nel 1936, durante il fascismo, la Sicilia aveva appena che il 34% della forza lavoro, mentre in Piemonte era salita al 53%, in Lombardia al 48%.

Dal 1928 al 1938 mentre in Italia si costruirono 1800 chilometri d’acquedotti, in Sicilia appena che 15 chilometri; neppure un metro ferroviario era elettrificato.

Ci fu un tentativo di rivalsa sociale in Sicilia, fu con i “Fasci siciliani dei lavoratori”, fondati nel 1891 dal catanese Giuseppe De Felice, ma furono stroncati fin dal primo nascere. Le conseguenze: non è stato prodotto sviluppo in 150 anni d’Unità d’Italia, aumentando il fenomeno emigratorio fino ai nostri giorni. Le ondate migratorie continuarono, infatti, dopo la II Guerra mondiale e negli anni sessanta, dirigendosi verso l’Australia e ancora in Canada ed Europa.

Tuttora i nostri giovani partono verso il Centro-Nord dell’Italia e verso i paesi europei. A questo fenomeno, divenuto elemento portante della nostra storia, si aggiunge, ai nostri giorni, la grande immigrazione dal Sud del mondo.

I siciliani hanno, quindi, contribuito, in termini umani e lavorativi, allo sviluppo di tutto il Settentrione d’Italia, esportando menti, cuori e braccia perché il Nord si sviluppasse e progredisse. Ma la storia si ripete. Adesso stiamo assistendo a un’usurpazione dei capitali da parte delle banche del Nord. Se non fosse così quale interesse avevano i colossi bancari italiani per acquistare in questi ultimi anni le banche siciliane, impossessandosi, ancora una volta, dei loro risparmi e investendoli al Nord?

Che si gridi pure contro il Meridione, che si faccia ventilare lo spettro della “diversità” ma che si riconosca quanto Oreste del Buono, toscano, ha scritto: «Da almeno due secoli, per quel che riguarda l’interpretazione della società in cui viviamo, la cultura italiana senza l’apporto siciliano, è letteralmente impossibile. L’Italia non è in grado di fare a meno della Sicilia. L’identità degli Italiani dipende in gran parte da quella dei Siciliani».

Ben venga, allora, il monito del Capo dello Stato non solo per celebrare l’Unificazione dell’Italia, ma perché si lavori affinché ci sia un solo Paese e tutto, dai capitali alla cultura, siano distribuiti in modo armonico e non secessionistico.

Fonte:BlogSicilia

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domenica 30 maggio 2010

Giorno dopo giorno… (sulle considerazioni “Le basi di massa” di N. Zitara)



Di Andrea Balìa


Ogni volta che apro il sito dell’amico Mino Errico www.eleaml.org ho la speranza recondita di trovare un articolo, un pezzo – come si dice con un termine non proprio bello – del maestro.

Ne ho letti tanti, oltre ai suoi libri e alle sue analisi, ma la mia voglia, la curiosità ed il rispetto con cui potermi approcciare a nuove ed ulteriori sue riflessioni non è appagato. Ovviamente dicendo maestro non posso che rivolgermi a Nicola Zitara. Maestro è un appellativo importante e delicato che va usato con parsimonia e dandogli il giusto peso, in quanto credo che nella vita d’ognuno di noi – se vi fermate a riflettere – ce ne sono davvero pochi, talvolta pochissimi che possano meritarlo. Ebbene anche per il sottoscritto è così, e Zitara è fuor di dubbio uno dei miei pochi maestri che ha forgiato le mie convinzioni sul meridionalismo.

Di conseguenza anche l’ultimo pezzo “le basi di massa” ha soddisfatto la mia sete di leggere sempre nuove ed ulteriori riflessioni del maestro. Egli sottolinea come, essendo il Sud il mercato più vicino, comodo ed interno, per le merci del Nord, probabilmente quest’ultimo non ha alcun interesse secessionista, se non quello di spremere il limone sino in fondo.

Considerazioni condivisibili, come quelle per cui le piccole formazioni meridionaliste lavorano molto e, forse troppo essenzialmente, su internet mentre egli sollecita e invita a lavorare molto sul territorio, nel piccolo, quasi in una missionaria operazione che fa tornare alla memoria i metodi e gli albori del Partito Comunista.

Caro Maestro volevo tranquillizzarla : premettendo che non va sottovalutato il peso di internet (basti pensare al successo del Movimento a 5 Stelle di Grillo, con ormai circa 60 – tra assessori e consiglieri – in Italia, e percentuali anche tra il 6 e il 7% alle ultime votazioni regionali, costruito quasi tutto in rete), la strada che Lei indica è ciò che il Partito del Sud e il sottoscritto stanno attuando. Da pochi mesi sono nel Direttivo Nazionale ed ho l’incarico di Responsabile Regionale in Campania, e il lavoro che viene portato avanti è proprio questo : incontri e contatti giornalieri con singoli (iscritto su iscritto), divulgazione di testi, partecipazione frenetica a convegni e conferenze, raccolta e diffusione di rassegna stampa mirata, commenti, richieste e critiche con e mail e telefonate a giornali e tv su trasmissioni faziose, citazioni errate e tendenziose, partecipazione a cortei e manifestazioni, laboratori informativi e coinvolgimenti di associazioni civiche ammirevoli ma talvolta dispersive. La ri/strutturazione del Partito con apertura di sempre nuove sedi e sezioni, registrazione dello statuto aggiornato e un ordinato tesseramento, superando superficialità e pressappochismo della prim’ora. Oltre al lavoro d’aggiornamento e informazione dei nostri siti e blog (4), alla gestione su Facebook, e al continuo e faticoso contatto, in cerca di convergenze, perché la famiglia meridionalista cresca unitariamente, dove è possibile.

Insomma un lavoraccio, ma nel segno di quanto da Lei auspicato!

E qualche risultato che ci ripaghi e vada nel segno giusto c’è : il Partito del Sud è presente in 11 regioni con iscritti (in continua e incoraggiante crescita, anche d’imprenditori, specie negli ultimi mesi), un comune ormai conquistato – come Gaeta - con le comunali del 2007, vincendo quelle elezioni col 57%, assieme alla lista civica del Sindaco Raimondi, e governando con successo contro i partiti istituzionali; la presenza in visibilità in diverse tornate elettorali (non ultima, coraggiosamente, in quel famigerato comune di Casale di Principe – unico partito e lista non inquisita e con esito al momento bloccato dalla magistratura), partecipazione e inviti a diverse trasmissioni su Tv locali. La citazione di Pino Aprile da Gad Lerner su La7 (ad una seconda e più decente puntata ottenuta dopo le valanghe di nostre proteste) che avverte Lombardo che il Partito del Sud già esiste, come egli più volte nomina nel suo successo “Terroni”.

L’apertura di 2 Supermercati Comprasud in Sicilia e il prossimo a giorni a Udine, cui seguiranno molti altri nei prossimi 12/24 mesi.

E infine la causa ai Savoia, deliberata dal Comune di Gaeta, tutt’ora in essere, come riportato da giornali e alcuni telegiornali nazionali, e su cui il nostro Presidente Antonio Ciano ha ricevuto una lunga intervista in prima pagina su Le Monde.

Credo che molto di più non si possa al momento!

Che poi la soluzione ottimale e finale la si possa individuare in un nuovo Stato del Sud, nulla in contrario. Al momento riteniamo importante che il Sud inizi ad avere una rappresentatività politica vera (e non “pezzottata” come quelle proposte da scafati politici siciliani), che sia riconosciuta nel panorama politico e in cui i meridionali possano riconoscersi.

Poi che Dio ci aiuti e indirizzi i suoi sguardi benevoli sui nostri figli, cui speriamo - sul suo esempio - almeno di lasciare una memoria non dispersa ed una strada da proseguire per il riscatto finale del Sud.

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Di Andrea Balìa


Ogni volta che apro il sito dell’amico Mino Errico www.eleaml.org ho la speranza recondita di trovare un articolo, un pezzo – come si dice con un termine non proprio bello – del maestro.

Ne ho letti tanti, oltre ai suoi libri e alle sue analisi, ma la mia voglia, la curiosità ed il rispetto con cui potermi approcciare a nuove ed ulteriori sue riflessioni non è appagato. Ovviamente dicendo maestro non posso che rivolgermi a Nicola Zitara. Maestro è un appellativo importante e delicato che va usato con parsimonia e dandogli il giusto peso, in quanto credo che nella vita d’ognuno di noi – se vi fermate a riflettere – ce ne sono davvero pochi, talvolta pochissimi che possano meritarlo. Ebbene anche per il sottoscritto è così, e Zitara è fuor di dubbio uno dei miei pochi maestri che ha forgiato le mie convinzioni sul meridionalismo.

Di conseguenza anche l’ultimo pezzo “le basi di massa” ha soddisfatto la mia sete di leggere sempre nuove ed ulteriori riflessioni del maestro. Egli sottolinea come, essendo il Sud il mercato più vicino, comodo ed interno, per le merci del Nord, probabilmente quest’ultimo non ha alcun interesse secessionista, se non quello di spremere il limone sino in fondo.

Considerazioni condivisibili, come quelle per cui le piccole formazioni meridionaliste lavorano molto e, forse troppo essenzialmente, su internet mentre egli sollecita e invita a lavorare molto sul territorio, nel piccolo, quasi in una missionaria operazione che fa tornare alla memoria i metodi e gli albori del Partito Comunista.

Caro Maestro volevo tranquillizzarla : premettendo che non va sottovalutato il peso di internet (basti pensare al successo del Movimento a 5 Stelle di Grillo, con ormai circa 60 – tra assessori e consiglieri – in Italia, e percentuali anche tra il 6 e il 7% alle ultime votazioni regionali, costruito quasi tutto in rete), la strada che Lei indica è ciò che il Partito del Sud e il sottoscritto stanno attuando. Da pochi mesi sono nel Direttivo Nazionale ed ho l’incarico di Responsabile Regionale in Campania, e il lavoro che viene portato avanti è proprio questo : incontri e contatti giornalieri con singoli (iscritto su iscritto), divulgazione di testi, partecipazione frenetica a convegni e conferenze, raccolta e diffusione di rassegna stampa mirata, commenti, richieste e critiche con e mail e telefonate a giornali e tv su trasmissioni faziose, citazioni errate e tendenziose, partecipazione a cortei e manifestazioni, laboratori informativi e coinvolgimenti di associazioni civiche ammirevoli ma talvolta dispersive. La ri/strutturazione del Partito con apertura di sempre nuove sedi e sezioni, registrazione dello statuto aggiornato e un ordinato tesseramento, superando superficialità e pressappochismo della prim’ora. Oltre al lavoro d’aggiornamento e informazione dei nostri siti e blog (4), alla gestione su Facebook, e al continuo e faticoso contatto, in cerca di convergenze, perché la famiglia meridionalista cresca unitariamente, dove è possibile.

Insomma un lavoraccio, ma nel segno di quanto da Lei auspicato!

E qualche risultato che ci ripaghi e vada nel segno giusto c’è : il Partito del Sud è presente in 11 regioni con iscritti (in continua e incoraggiante crescita, anche d’imprenditori, specie negli ultimi mesi), un comune ormai conquistato – come Gaeta - con le comunali del 2007, vincendo quelle elezioni col 57%, assieme alla lista civica del Sindaco Raimondi, e governando con successo contro i partiti istituzionali; la presenza in visibilità in diverse tornate elettorali (non ultima, coraggiosamente, in quel famigerato comune di Casale di Principe – unico partito e lista non inquisita e con esito al momento bloccato dalla magistratura), partecipazione e inviti a diverse trasmissioni su Tv locali. La citazione di Pino Aprile da Gad Lerner su La7 (ad una seconda e più decente puntata ottenuta dopo le valanghe di nostre proteste) che avverte Lombardo che il Partito del Sud già esiste, come egli più volte nomina nel suo successo “Terroni”.

L’apertura di 2 Supermercati Comprasud in Sicilia e il prossimo a giorni a Udine, cui seguiranno molti altri nei prossimi 12/24 mesi.

E infine la causa ai Savoia, deliberata dal Comune di Gaeta, tutt’ora in essere, come riportato da giornali e alcuni telegiornali nazionali, e su cui il nostro Presidente Antonio Ciano ha ricevuto una lunga intervista in prima pagina su Le Monde.

Credo che molto di più non si possa al momento!

Che poi la soluzione ottimale e finale la si possa individuare in un nuovo Stato del Sud, nulla in contrario. Al momento riteniamo importante che il Sud inizi ad avere una rappresentatività politica vera (e non “pezzottata” come quelle proposte da scafati politici siciliani), che sia riconosciuta nel panorama politico e in cui i meridionali possano riconoscersi.

Poi che Dio ci aiuti e indirizzi i suoi sguardi benevoli sui nostri figli, cui speriamo - sul suo esempio - almeno di lasciare una memoria non dispersa ed una strada da proseguire per il riscatto finale del Sud.

Le basi di massa



Di Nicola Zitara

Siderno, 28 Maggio 2010

Chi guardi anche al panorama politico del Sud anche nelle minuzie, può agevolmente notare che esistono e vanno sorgendo delle formazioni partitiche all'insegna di un forte autonomismo meridionale - come l'Mpa di Lombardo - o del tutto propugnanti il separatismo tra Sud e Paese restante. Ovviamente si tratta di una reazione 'nervosa' alla tracotanza della Lega stronzobossista e alla simmetrica propensione dei governi nazionali a piegare le ginocchia di fronte a richieste persino illecite, come quella riguardante le multe sull'eccesso di produzione lattaria.

Che la Stronzolega voglia veramente la secessione è cosa poco credibile, in quanto il sistema economico padano si alienerebbe il suo più devoto cliente, che è il Sud deserto d'industrie e anche d'agricoltura. Il Nord vuole togliere a Roma il comando sulla spesa pubblica, e il progetto sta andando avanti a vele gonfie. Il futuro resta, però, tutto da vedere. Non saranno sicuramente le formazioni politiche meridionali a incidere sugli eventi in quanto, nella sostanza, si tratta di voci fioche, di circoli - più che personali - di tipo epistolare attraverso Internet.

Il problema dell'unità d'Italia è vecchio quanto la stessa unità, in quanto il capitalismo della Liguria-Toscana-Lombardia-Piemonte usò l'unità per costruire al Sud una colonia di consumo e sovrappopolazione. Ciò nonostante il Sud costituisse, con le sue produzioni ed esportazioni agricole, la prima e più efficiente fonte della ricchezza nazionale. E' da allora che la colonia è in attesa di un moto di liberazione. Cosa che non fu il Meridionalismo nelle sue varie vesti di liberale, cattolico, socialista, dovendosi considerare questo moto piuttosto un'invocazione all'equilibrio fra la parte egemone del Paese e la parte soggiacente.

L'illusione meridionalistica sopravvive ancora in pochi. Credo anche che questi pochi la usino con poca convinzione, e solo come un ritrito argomento di dibattito con i loro avversari più convinti. Al contempo la separazione è un problema di tempo: degli anni che occorreranno per convincere le popolazioni meridionali a fondare - o meglio rifondare - uno Stato indipendente. In questo senso, i partiti sono necessari. Sarebbe assurdo dire no al proliferare di formazioni neoborboniche o indipententiste. Il problema riguarda la struttura dilatata, internettista che propendono ad assumere. Senza negare questa, bisogna pensare all'aggregazione diretta, personale, su base paesana, di quartiere, di vicolo, come fece, dopo la Liberazione, il Partito Comunista con le cellule locali.

Bisogna radicarsi sul territorio come fanno la Chiesa e gli uffici postali.

Fonte:Eleaml

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Di Nicola Zitara

Siderno, 28 Maggio 2010

Chi guardi anche al panorama politico del Sud anche nelle minuzie, può agevolmente notare che esistono e vanno sorgendo delle formazioni partitiche all'insegna di un forte autonomismo meridionale - come l'Mpa di Lombardo - o del tutto propugnanti il separatismo tra Sud e Paese restante. Ovviamente si tratta di una reazione 'nervosa' alla tracotanza della Lega stronzobossista e alla simmetrica propensione dei governi nazionali a piegare le ginocchia di fronte a richieste persino illecite, come quella riguardante le multe sull'eccesso di produzione lattaria.

Che la Stronzolega voglia veramente la secessione è cosa poco credibile, in quanto il sistema economico padano si alienerebbe il suo più devoto cliente, che è il Sud deserto d'industrie e anche d'agricoltura. Il Nord vuole togliere a Roma il comando sulla spesa pubblica, e il progetto sta andando avanti a vele gonfie. Il futuro resta, però, tutto da vedere. Non saranno sicuramente le formazioni politiche meridionali a incidere sugli eventi in quanto, nella sostanza, si tratta di voci fioche, di circoli - più che personali - di tipo epistolare attraverso Internet.

Il problema dell'unità d'Italia è vecchio quanto la stessa unità, in quanto il capitalismo della Liguria-Toscana-Lombardia-Piemonte usò l'unità per costruire al Sud una colonia di consumo e sovrappopolazione. Ciò nonostante il Sud costituisse, con le sue produzioni ed esportazioni agricole, la prima e più efficiente fonte della ricchezza nazionale. E' da allora che la colonia è in attesa di un moto di liberazione. Cosa che non fu il Meridionalismo nelle sue varie vesti di liberale, cattolico, socialista, dovendosi considerare questo moto piuttosto un'invocazione all'equilibrio fra la parte egemone del Paese e la parte soggiacente.

L'illusione meridionalistica sopravvive ancora in pochi. Credo anche che questi pochi la usino con poca convinzione, e solo come un ritrito argomento di dibattito con i loro avversari più convinti. Al contempo la separazione è un problema di tempo: degli anni che occorreranno per convincere le popolazioni meridionali a fondare - o meglio rifondare - uno Stato indipendente. In questo senso, i partiti sono necessari. Sarebbe assurdo dire no al proliferare di formazioni neoborboniche o indipententiste. Il problema riguarda la struttura dilatata, internettista che propendono ad assumere. Senza negare questa, bisogna pensare all'aggregazione diretta, personale, su base paesana, di quartiere, di vicolo, come fece, dopo la Liberazione, il Partito Comunista con le cellule locali.

Bisogna radicarsi sul territorio come fanno la Chiesa e gli uffici postali.

Fonte:Eleaml

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«Gli Usa dominano ma sono in crisi» - Intervista a Sergio Romano


di Umberto De Giovannangeli

L’America di Obama e l’Italia di Giorgio Napolitano.

L’ Unità ne parla con uno dei più autorevoli analisti di politica internazionale: l’ambasciatore Sergio Romano.

L’incontro tra Giorgio Napolitano e Barack Obama in quale contesto delle relazioni Usa-Italia si colloca?

«Se lo guardiamo dalla prospettiva americana, l’incontro si colloca in uno dei momenti più delicati per gli Stati Uniti...».

Perché tra i più delicati?

«Perché gli Usa stanno facendo due guerre, non le stanno vincendo e per di più, anche se non lo ammettono pubblicamente, sono pur sempre responsabili in primis di questa crisi del credito e finanziaria. Lo sono, i responsabili, perché, bene o male, Wall Street ha fissato le regole del gioco negli ultimi trenta-quarant’anni, da Reagan in poima per certi versi anche prima... Noi ci siamo conformati a queste regole. Sia chiaro: non è che questo ci renda innocenti, abbiamo le nostre colpe, ma la leadership era quella degli Stati Uniti. E non era semplicemente una leadership di carattere politico, riferita a contesti politico-militari, di sicurezza. Era qualcosa di più...».

Cosa era questa leadership, ambasciatore Romano?

«Gli Usa sono stati il Paese che ha fissato le regole del gioco economico Del mondo per un periodo molto lungo eper di più hanno preso delle decisioni di carattere politico-culturale, la guerra al terrorismo... Insomma,su tutti questi fronti l’America mi pare che sia perdente in questo momento.
Per questo non solo “appare” ma è realmente un Paese nervoso che oltre tutto sta anche cercando di riformare, almeno in parte, la sua società con delle medicine che sono quelle di Roosevelt, quelle di Johnson, e che creano all’interno della società americana dei forti dissensi.Non bisogna dimenticare che Obama ha di fronte a sé una opposizione molto forte, non soltanto al Congresso ma anche dentro la società. Quindi è un Paese che ha bisogno di amici, che ha bisogno di alleati, che ha bisogno di consenso..».

L’Italia può essere un alleato autorevole e concreto?

«La più bella ragazza del mondo può dare soltanto quello che ha... Questo era un vecchio adagio, molto di più non può dare. Noi non siamo la “più bella ragazza del mondo”, possiamo dare quel che possiamo dare, che non è poi moltissimo...
Naturalmente abbiamo la nostra posizione mediterranea, il peso economico dell’Italia resta nonostante tutto ragguardevole, e quindi gli americani hanno anche bisogno di noi: non arrivo a dire che abbiano bisogno soprattutto di noi. E hanno bisogno, tra l’altro, anche del nostro territorio, e questo non è l’aspetto più bello del rapporto italo- americano. Quando un Paese dà territorio all’alleato maggiore, questa non è una posizione di forza né di grande prestigio o autorevolezza ».

Prima di recarsi a l’Aquila per il G8,
Obama incontrò al Quirinale Napoletano ed ebbe per lui parole di grande stima personale, esaltandone la leadership morale....

«Quella è una vicenda a cui non ho mai saputo dare una risposta. Abbiamo tutti letto quelle parole. Quello che mi sono chiesto è: chi gliele ha scritte? Obama non sapeva neanche chi fosse il Capo dello Stato italiano. Obama era soprattutto un uomo che usciva da una campagna elettorale, immerso in contesto totalmente domestico... Un presidente intelligente ha però dei consiglieri intelligenti, e questi consiglieri si suppone che siano informati e sappiano cosa avviene nei Paesi amici, alleati, e naturalmente gli debbono anche suggerire il tono giusto.Qualcunoha suggerito aObama di fare un elogio di Giorgio Napolitano...».

C’è chi lesse quell’elogio come una frecciata a Berlusconi...

«So che c’era questa ipotesi, che resta tale. Sappiamo però che Berlusconi aveva fatto un forte investimento sul suo rapporto conGeorge W.Bush. Un investimento a perdere... »..

Fonte:L'Unità
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di Umberto De Giovannangeli

L’America di Obama e l’Italia di Giorgio Napolitano.

L’ Unità ne parla con uno dei più autorevoli analisti di politica internazionale: l’ambasciatore Sergio Romano.

L’incontro tra Giorgio Napolitano e Barack Obama in quale contesto delle relazioni Usa-Italia si colloca?

«Se lo guardiamo dalla prospettiva americana, l’incontro si colloca in uno dei momenti più delicati per gli Stati Uniti...».

Perché tra i più delicati?

«Perché gli Usa stanno facendo due guerre, non le stanno vincendo e per di più, anche se non lo ammettono pubblicamente, sono pur sempre responsabili in primis di questa crisi del credito e finanziaria. Lo sono, i responsabili, perché, bene o male, Wall Street ha fissato le regole del gioco negli ultimi trenta-quarant’anni, da Reagan in poima per certi versi anche prima... Noi ci siamo conformati a queste regole. Sia chiaro: non è che questo ci renda innocenti, abbiamo le nostre colpe, ma la leadership era quella degli Stati Uniti. E non era semplicemente una leadership di carattere politico, riferita a contesti politico-militari, di sicurezza. Era qualcosa di più...».

Cosa era questa leadership, ambasciatore Romano?

«Gli Usa sono stati il Paese che ha fissato le regole del gioco economico Del mondo per un periodo molto lungo eper di più hanno preso delle decisioni di carattere politico-culturale, la guerra al terrorismo... Insomma,su tutti questi fronti l’America mi pare che sia perdente in questo momento.
Per questo non solo “appare” ma è realmente un Paese nervoso che oltre tutto sta anche cercando di riformare, almeno in parte, la sua società con delle medicine che sono quelle di Roosevelt, quelle di Johnson, e che creano all’interno della società americana dei forti dissensi.Non bisogna dimenticare che Obama ha di fronte a sé una opposizione molto forte, non soltanto al Congresso ma anche dentro la società. Quindi è un Paese che ha bisogno di amici, che ha bisogno di alleati, che ha bisogno di consenso..».

L’Italia può essere un alleato autorevole e concreto?

«La più bella ragazza del mondo può dare soltanto quello che ha... Questo era un vecchio adagio, molto di più non può dare. Noi non siamo la “più bella ragazza del mondo”, possiamo dare quel che possiamo dare, che non è poi moltissimo...
Naturalmente abbiamo la nostra posizione mediterranea, il peso economico dell’Italia resta nonostante tutto ragguardevole, e quindi gli americani hanno anche bisogno di noi: non arrivo a dire che abbiano bisogno soprattutto di noi. E hanno bisogno, tra l’altro, anche del nostro territorio, e questo non è l’aspetto più bello del rapporto italo- americano. Quando un Paese dà territorio all’alleato maggiore, questa non è una posizione di forza né di grande prestigio o autorevolezza ».

Prima di recarsi a l’Aquila per il G8,
Obama incontrò al Quirinale Napoletano ed ebbe per lui parole di grande stima personale, esaltandone la leadership morale....

«Quella è una vicenda a cui non ho mai saputo dare una risposta. Abbiamo tutti letto quelle parole. Quello che mi sono chiesto è: chi gliele ha scritte? Obama non sapeva neanche chi fosse il Capo dello Stato italiano. Obama era soprattutto un uomo che usciva da una campagna elettorale, immerso in contesto totalmente domestico... Un presidente intelligente ha però dei consiglieri intelligenti, e questi consiglieri si suppone che siano informati e sappiano cosa avviene nei Paesi amici, alleati, e naturalmente gli debbono anche suggerire il tono giusto.Qualcunoha suggerito aObama di fare un elogio di Giorgio Napolitano...».

C’è chi lesse quell’elogio come una frecciata a Berlusconi...

«So che c’era questa ipotesi, che resta tale. Sappiamo però che Berlusconi aveva fatto un forte investimento sul suo rapporto conGeorge W.Bush. Un investimento a perdere... »..

Fonte:L'Unità
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Ciampi: "La notte del '92 con la paura del golpe"

Parla l'ex presidente della Repubblica: "Alle quattro di notte parlai con Scalfaro al Quirinale e gli dissi 'dobbiamo reagire'. Grasso dice cose giuste"

di MASSIMO GIANNINI

ROMA - "Non c'è democrazia senza verità. Questo è il tempo della verità. Chi c'è dietro le stragi del '92 e '93? Chi c'è dietro le bombe contro il mio governo di allora? Il Paese ha il diritto di saperlo, per evitare che quella stagione si ripeta...". Dopo la denuncia di Piero Grasso 1, dopo l'appello di Walter Veltroni 2, ora anche Carlo Azeglio Ciampi chiede al governo e al presidente del Consiglio di rompere il muro del silenzio, di chiarire in Parlamento cosa accadde tra lo Stato e la mafia in uno dei passaggi più oscuri della nostra Repubblica.

L'ex presidente, a Santa Severa per un weekend di riposo, è rimasto molto colpito dalle parole del procuratore nazionale antimafia, amplificate dall'ex leader del Pd. E non si sottrae a una riflessione e, prima ancora, a un ricordo di quei terribili giorni di quasi vent'anni fa. "Proprio la scorsa settimana ho parlato a lungo con Veltroni, che è venuto a trovarmi, di quelle angosciose vicende. E ora mi ritrovo al 100 per cento nei contenuti dell'intervista che ha rilasciato a "Repubblica". Quelle domande inevase, quel bisogno di sapere e di capire, riflettono pienamente i miei pensieri. Tuttora noi non sappiamo nulla di quei tragici attentati. Chi armò la mano degli attentatori? Fu solo la mafia, o dietro Cosa Nostra si mossero anche pezzi deviati dell'apparato statale, anzi dell'anti-Stato annidato dentro e contro lo Stato, come dice Veltroni? E perché, soprattutto, partì questo attacco allo Stato? Tuttora io stesso non so capire... ".

Il ricordo di Ciampi è vivissimo. E il presidente emerito, all'epoca dei fatti presidente del Consiglio di un esecutivo di emergenza, che prese in mano un Paese sull'orlo del collasso politico (dopo Tangentopoli) e finanziario (dopo la maxi-svalutazione della lira) non esita ad azzardare l'ipotesi più inquietante: l'Italia, in quel frangente, rischiò il colpo di Stato, anche se è ignoto il profilo di chi ordì quella trama. "Il mio governo fu contrassegnato dalle bombe. Ricordo come fosse adesso quel 27 luglio, avevo appena terminato una giornata durissima che si era conclusa positivamente con lo sblocco della vertenza degli autotrasportatori. Ero tutto contento, e me ne andavo a Santa Severa per qualche ora di riposo. Arrivai a tarda sera, e a mezzanotte mi informarono della bomba a Milano. Chiamai subito Palazzo Chigi, per parlare con Andrea Manzella che era il mio segretario generale. Mentre parlavamo al telefono, udimmo un boato fortissimo, in diretta: era l'esplosione della bomba di San Giorgio al Velabro. Andrea mi disse "Carlo, non capisco cosa sta succedendo...", ma non fece in tempo a finire, perché cadde la linea. Io richiamai subito, ma non ci fu verso: le comunicazioni erano misteriosamente interrotte. Non esito a dirlo, oggi: ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi... ".
Resta da capire per mano di chi. Su questo Ciampi allarga le braccia. "Non so dare risposte. So che allora corsi come un pazzo in macchina, e mi precipitai a Roma. Arrivai a Palazzo Chigi all'una e un quarto di notte, convocai un Consiglio supremo di difesa alle 3, perché ero convinto che lo Stato dovesse dare subito una risposta forte, immediata, visibile. Alle 4 parlai con Scalfaro al Quirinale, e gli dissi "presidente, dobbiamo reagire". Alle 8 del mattino riunii il Consiglio dei ministri, e subito dopo partii per Milano. Il golpe non ci fu, grazie a dio. Ma certo, su quella notte, sui giorni che la precedettero e la seguirono, resta un velo di mistero che è giunto il momento di squarciare, una volta per tutte". La certezza che esponeva ieri Veltroni è la stessa che ripete Ciampi: non furono solo stragi di mafia, ed anzi, sulla base delle inchieste si dovrebbe smettere di definirle così. Furono stragi di un "anti-Stato", ancora tutto da scoprire. E come Veltroni anche Ciampi aggiunge un dubbio: perché a un certo punto, poco dopo la nascita del suo governo, le stragi cominciano? E perché, a un certo punto, dopo gli eccidi di Falcone e Borsellino, le stragi finiscono? Perché la mafia comincia a mettere le bombe? Perché la mafia smette di mettere le bombe?

È lo scenario ipotizzato dal procuratore Grasso: gli attentati servirono forse a preparare il terreno alla nascita di una nuova "entità politica", che doveva irrompere sulla scena tra le macerie di Mani Pulite. Un "aggregato imprenditoriale e politico" che doveva conservare la situazione esistente. Quell'entità, quell'aggregato, secondo questo scenario, potrebbe essere Forza Italia. Nel momento in cui quel partito si prepara a nascere, e siamo al '94, Cosa Nostra interrompe la strategia stragista. È uno scenario credibile? Ciampi non si avventura in supposizioni: "Non sta a me parlare di tutto questo. Parlano gli avvenimenti di quel periodo. Parlano i fatti di allora, che sono quelli richiamati da Grasso. Il procuratore antimafia dice la verità, e io condivido pienamente le sue parole".

Per questo, in nome di quella verità troppo a lungo negata, l'ex capo dello Stato oggi rilancia l'appello: è sacrosanto che chi sa parli. Ed è sacrosanto, come chiede Veltroni, che "Berlusconi e il governo non tacciano", perché la lotta alla mafia non è questione di parte, "ma è il tema bipartisan per eccellenza". Si apra dunque una sessione parlamentare, dedicata a far luce su quegli avvenimenti. Perché il clima che si respira oggi, a tratti, sembra pericolosamente rievocare quello del '92-'93. Ciampi stesso ne parlerà, in un libro autobiografico scritto insieme ad Arrigo Levi, che uscirà per "il Mulino" tra pochi giorni. "Lì è tutto scritto, ciò che accadde e ciò che penso. Così come lo riportai, ora per ora, sulle mie agende dell'epoca... ". Deve restare memoria, di tutto questo. Ma insieme alla memoria deve venir fuori anche la verità. "Perché senza verità - conclude l'ex presidente della Repubblica - non c'è democrazia".

Fonte:La Repubblica del 29/05/2010

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Parla l'ex presidente della Repubblica: "Alle quattro di notte parlai con Scalfaro al Quirinale e gli dissi 'dobbiamo reagire'. Grasso dice cose giuste"

di MASSIMO GIANNINI

ROMA - "Non c'è democrazia senza verità. Questo è il tempo della verità. Chi c'è dietro le stragi del '92 e '93? Chi c'è dietro le bombe contro il mio governo di allora? Il Paese ha il diritto di saperlo, per evitare che quella stagione si ripeta...". Dopo la denuncia di Piero Grasso 1, dopo l'appello di Walter Veltroni 2, ora anche Carlo Azeglio Ciampi chiede al governo e al presidente del Consiglio di rompere il muro del silenzio, di chiarire in Parlamento cosa accadde tra lo Stato e la mafia in uno dei passaggi più oscuri della nostra Repubblica.

L'ex presidente, a Santa Severa per un weekend di riposo, è rimasto molto colpito dalle parole del procuratore nazionale antimafia, amplificate dall'ex leader del Pd. E non si sottrae a una riflessione e, prima ancora, a un ricordo di quei terribili giorni di quasi vent'anni fa. "Proprio la scorsa settimana ho parlato a lungo con Veltroni, che è venuto a trovarmi, di quelle angosciose vicende. E ora mi ritrovo al 100 per cento nei contenuti dell'intervista che ha rilasciato a "Repubblica". Quelle domande inevase, quel bisogno di sapere e di capire, riflettono pienamente i miei pensieri. Tuttora noi non sappiamo nulla di quei tragici attentati. Chi armò la mano degli attentatori? Fu solo la mafia, o dietro Cosa Nostra si mossero anche pezzi deviati dell'apparato statale, anzi dell'anti-Stato annidato dentro e contro lo Stato, come dice Veltroni? E perché, soprattutto, partì questo attacco allo Stato? Tuttora io stesso non so capire... ".

Il ricordo di Ciampi è vivissimo. E il presidente emerito, all'epoca dei fatti presidente del Consiglio di un esecutivo di emergenza, che prese in mano un Paese sull'orlo del collasso politico (dopo Tangentopoli) e finanziario (dopo la maxi-svalutazione della lira) non esita ad azzardare l'ipotesi più inquietante: l'Italia, in quel frangente, rischiò il colpo di Stato, anche se è ignoto il profilo di chi ordì quella trama. "Il mio governo fu contrassegnato dalle bombe. Ricordo come fosse adesso quel 27 luglio, avevo appena terminato una giornata durissima che si era conclusa positivamente con lo sblocco della vertenza degli autotrasportatori. Ero tutto contento, e me ne andavo a Santa Severa per qualche ora di riposo. Arrivai a tarda sera, e a mezzanotte mi informarono della bomba a Milano. Chiamai subito Palazzo Chigi, per parlare con Andrea Manzella che era il mio segretario generale. Mentre parlavamo al telefono, udimmo un boato fortissimo, in diretta: era l'esplosione della bomba di San Giorgio al Velabro. Andrea mi disse "Carlo, non capisco cosa sta succedendo...", ma non fece in tempo a finire, perché cadde la linea. Io richiamai subito, ma non ci fu verso: le comunicazioni erano misteriosamente interrotte. Non esito a dirlo, oggi: ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi... ".
Resta da capire per mano di chi. Su questo Ciampi allarga le braccia. "Non so dare risposte. So che allora corsi come un pazzo in macchina, e mi precipitai a Roma. Arrivai a Palazzo Chigi all'una e un quarto di notte, convocai un Consiglio supremo di difesa alle 3, perché ero convinto che lo Stato dovesse dare subito una risposta forte, immediata, visibile. Alle 4 parlai con Scalfaro al Quirinale, e gli dissi "presidente, dobbiamo reagire". Alle 8 del mattino riunii il Consiglio dei ministri, e subito dopo partii per Milano. Il golpe non ci fu, grazie a dio. Ma certo, su quella notte, sui giorni che la precedettero e la seguirono, resta un velo di mistero che è giunto il momento di squarciare, una volta per tutte". La certezza che esponeva ieri Veltroni è la stessa che ripete Ciampi: non furono solo stragi di mafia, ed anzi, sulla base delle inchieste si dovrebbe smettere di definirle così. Furono stragi di un "anti-Stato", ancora tutto da scoprire. E come Veltroni anche Ciampi aggiunge un dubbio: perché a un certo punto, poco dopo la nascita del suo governo, le stragi cominciano? E perché, a un certo punto, dopo gli eccidi di Falcone e Borsellino, le stragi finiscono? Perché la mafia comincia a mettere le bombe? Perché la mafia smette di mettere le bombe?

È lo scenario ipotizzato dal procuratore Grasso: gli attentati servirono forse a preparare il terreno alla nascita di una nuova "entità politica", che doveva irrompere sulla scena tra le macerie di Mani Pulite. Un "aggregato imprenditoriale e politico" che doveva conservare la situazione esistente. Quell'entità, quell'aggregato, secondo questo scenario, potrebbe essere Forza Italia. Nel momento in cui quel partito si prepara a nascere, e siamo al '94, Cosa Nostra interrompe la strategia stragista. È uno scenario credibile? Ciampi non si avventura in supposizioni: "Non sta a me parlare di tutto questo. Parlano gli avvenimenti di quel periodo. Parlano i fatti di allora, che sono quelli richiamati da Grasso. Il procuratore antimafia dice la verità, e io condivido pienamente le sue parole".

Per questo, in nome di quella verità troppo a lungo negata, l'ex capo dello Stato oggi rilancia l'appello: è sacrosanto che chi sa parli. Ed è sacrosanto, come chiede Veltroni, che "Berlusconi e il governo non tacciano", perché la lotta alla mafia non è questione di parte, "ma è il tema bipartisan per eccellenza". Si apra dunque una sessione parlamentare, dedicata a far luce su quegli avvenimenti. Perché il clima che si respira oggi, a tratti, sembra pericolosamente rievocare quello del '92-'93. Ciampi stesso ne parlerà, in un libro autobiografico scritto insieme ad Arrigo Levi, che uscirà per "il Mulino" tra pochi giorni. "Lì è tutto scritto, ciò che accadde e ciò che penso. Così come lo riportai, ora per ora, sulle mie agende dell'epoca... ". Deve restare memoria, di tutto questo. Ma insieme alla memoria deve venir fuori anche la verità. "Perché senza verità - conclude l'ex presidente della Repubblica - non c'è democrazia".

Fonte:La Repubblica del 29/05/2010

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La Germania potrebbe uscire dall’Euro “dalla sera alla mattina”



25 maggio 2010 (MoviSol) – Diversi notiziari e bollettini finanziari tedeschi riportano le forti dichiarazioni di Ansgar Belke, direttore di ricerca nell’Istituto tedesco per la Ricerca Economica (DIW – Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung): in perfetto accordo con i tempi, l’economista ha valutato che “legalmente, un’uscita volontaria dall’unione monetaria è possibile”. Belke è entrato nei dettagli dicendo che “in primo luogo, il marco tedesco dovrebbe essere reintrodotto come unità di conto, con un cambio fisso [rispetto all'euro] per circa un anno. Durante tale periodo, l’euro rimarrebbe la moneta ufficiale mentre verrebbero stampate e coniate [rispettivamente] nuove banconote e monete, destinate a circolare [legalmente] l’anno successivo. Tutte le monete e le banconote in euro sarebbero quindi abolite e l’euro diventerebbe a sua volta una unità di conto. Nell’ultima fase, il cambio valutario tra le due monete sarebbe sospeso, e il marco tedesco ritornerebbe nuovamente indipendente”.

Benché Belke ci stia spiegando come si potrebbe, a suo avviso, abbandonare l’euro, non è favorevole a queste misure.

Alfonso Tuor, economista e vicedirettore de Il Corriere del Ticino, già in colloquio con MoviSol sulle frequenze di Radio Padania, si è spinto oltre. In un’intervista per l’EIR, ha sostenuto che “l’uscita della Germania dall’euro deve avvenire dalla sera alla mattina. Non si può fare in un anno; deve essere fatto dalla sera alla mattina, o in un fine settimana. L’annuncio deve essere dato a sorpresa, per esempio dicendo: ‘Avete tempo 30 giorni per convertire i vostri euro in marchi tedeschi, e decidere se volete che il vostro debito sia denominato in marchi o in euro’… Deve essere fatto come Nixon fece con l’oro”.

La questione del changeover fisico tra le monete è irrilevante, per Tour. “Il denaro circolante è davvero poco. Le masse monetarie sono principalmente elettroniche”. Il cambio tecnico tra banconote “è un gioco da ragazzi”, da potersi fare successivamente.

Tuor è convinto che la Germania uscirà dall’unione monetaria nel giro di 2-3 mesi, “o anche in un mese”. Infatti, nel sistema finanziario “sta venendo giù tutto”. Ha poi aggiunto: “Non vedo chi possa intervenire” per fermare questo processo. Il crollo dei mercati azionari sta dando altri effetti, nello svalutare i collaterali delle banche. È una reazione a catena.

“Sono convinto che la partecipazione della Germania nel pacchetto di salvataggio sia il prezzo pagato da quella nazione per uscire dall’euro”, ha concluso. In altre parole, presto la Germania dirà: abbiamo già dato, ma ora è finita. Torniamo al marco. (grassetto della redazione)
(fonte: movisol.org)


Fonte:http://www.stampalibera.com/?p=12671
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25 maggio 2010 (MoviSol) – Diversi notiziari e bollettini finanziari tedeschi riportano le forti dichiarazioni di Ansgar Belke, direttore di ricerca nell’Istituto tedesco per la Ricerca Economica (DIW – Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung): in perfetto accordo con i tempi, l’economista ha valutato che “legalmente, un’uscita volontaria dall’unione monetaria è possibile”. Belke è entrato nei dettagli dicendo che “in primo luogo, il marco tedesco dovrebbe essere reintrodotto come unità di conto, con un cambio fisso [rispetto all'euro] per circa un anno. Durante tale periodo, l’euro rimarrebbe la moneta ufficiale mentre verrebbero stampate e coniate [rispettivamente] nuove banconote e monete, destinate a circolare [legalmente] l’anno successivo. Tutte le monete e le banconote in euro sarebbero quindi abolite e l’euro diventerebbe a sua volta una unità di conto. Nell’ultima fase, il cambio valutario tra le due monete sarebbe sospeso, e il marco tedesco ritornerebbe nuovamente indipendente”.

Benché Belke ci stia spiegando come si potrebbe, a suo avviso, abbandonare l’euro, non è favorevole a queste misure.

Alfonso Tuor, economista e vicedirettore de Il Corriere del Ticino, già in colloquio con MoviSol sulle frequenze di Radio Padania, si è spinto oltre. In un’intervista per l’EIR, ha sostenuto che “l’uscita della Germania dall’euro deve avvenire dalla sera alla mattina. Non si può fare in un anno; deve essere fatto dalla sera alla mattina, o in un fine settimana. L’annuncio deve essere dato a sorpresa, per esempio dicendo: ‘Avete tempo 30 giorni per convertire i vostri euro in marchi tedeschi, e decidere se volete che il vostro debito sia denominato in marchi o in euro’… Deve essere fatto come Nixon fece con l’oro”.

La questione del changeover fisico tra le monete è irrilevante, per Tour. “Il denaro circolante è davvero poco. Le masse monetarie sono principalmente elettroniche”. Il cambio tecnico tra banconote “è un gioco da ragazzi”, da potersi fare successivamente.

Tuor è convinto che la Germania uscirà dall’unione monetaria nel giro di 2-3 mesi, “o anche in un mese”. Infatti, nel sistema finanziario “sta venendo giù tutto”. Ha poi aggiunto: “Non vedo chi possa intervenire” per fermare questo processo. Il crollo dei mercati azionari sta dando altri effetti, nello svalutare i collaterali delle banche. È una reazione a catena.

“Sono convinto che la partecipazione della Germania nel pacchetto di salvataggio sia il prezzo pagato da quella nazione per uscire dall’euro”, ha concluso. In altre parole, presto la Germania dirà: abbiamo già dato, ma ora è finita. Torniamo al marco. (grassetto della redazione)
(fonte: movisol.org)


Fonte:http://www.stampalibera.com/?p=12671
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sabato 29 maggio 2010

ELEZIONI COMUNALI DI NAPOLI 2011 : ACCORDO FRA IL PARTITO DEL SUD E INSIEME PER LA RINASCITA

COMUNICATO STAMPA


PARTITO DEL SUD - INSIEME PER LA RINASCITA














Il PARTITO DEL SUD (nello specifico della sez. Guido Dorso di Napoli) e INSIEME PER LA RINASCITA a fronte di convergenze e verifiche su obiettivi, programmi e strategie, e di sinergie consolidate in comuni iniziative sostenute, in essere e future, dichiarano l’intento concordato di lavorare per dar luogo ad un’unica lista per la prossima competizione elettorale al Comune di Napoli.
Il tutto all’interno di una costruenda ed auspicabile coalizione anche con eventuali altre liste a sostegno d’un unico candidato sindaco a rappresentanza d’un fronte compatto meridionalista, nell’interesse del nostro territorio e della sua gente.

firmato
PARTITO DEL SUD - INSIEME PER LA RINASCITA

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COMUNICATO STAMPA


PARTITO DEL SUD - INSIEME PER LA RINASCITA














Il PARTITO DEL SUD (nello specifico della sez. Guido Dorso di Napoli) e INSIEME PER LA RINASCITA a fronte di convergenze e verifiche su obiettivi, programmi e strategie, e di sinergie consolidate in comuni iniziative sostenute, in essere e future, dichiarano l’intento concordato di lavorare per dar luogo ad un’unica lista per la prossima competizione elettorale al Comune di Napoli.
Il tutto all’interno di una costruenda ed auspicabile coalizione anche con eventuali altre liste a sostegno d’un unico candidato sindaco a rappresentanza d’un fronte compatto meridionalista, nell’interesse del nostro territorio e della sua gente.

firmato
PARTITO DEL SUD - INSIEME PER LA RINASCITA

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Le Auto Blu ci costano 21 miliardi di euro all'anno. Se si dimezzassero le Auto Blu non ci sarebbe bisogno della finanziaria



Record di auto blu in Italia: con 629.120 vetture siamo i primi al mondo. Sapete quanto ci costa questo record? Tra vetture, autisti, manutenzione, carburante, pedaggi autostradali ben 21 miliardi di euro ogni anno

Avete letto bene: ventuno miliardi di Euro. La cifra astronomica è il conto che dobbiamo pagare per avere il più alto numero di auto blu di tutto il mondo. Negli Stati Uniti sono 73.000; in Francia 65.000; in Gran Bretagna -notizia di ieri il taglio del Governo inglese alle auto con autista- sono 55.000; in Germania 54.000; in Spagna 44.000; in Giappone 35.000; in Grecia 34.000 e in Portogallo 23.000. In Italia? 629.120 vetture!!
il dato assurdo è che questa folle cifra è aumentata negli ultimi anni: nel 2009 erano 607.918, nel 2007 erano 574.000 e nel 2005 erano 198.596. Il dato arriva da una proiezione effettuata dalla KRLS Network of Business Ethics per conto dell’Associazione Contribuenti Italiani.

Tagliare la spesa pubblica si può senza alcun danno per gli italiani. Basta solo applicare le leggi vigenti anche alla casta. Gli amministratori pubblici, in Italia, hanno superato ogni limite. Non basta pubblicare sul sito internet il nome delle amministrazioni buone o cattive; per ridurre drasticamente il parco auto della pubblica amministrazione bisogna pubblicare il nome e cognome degli utilizzatori e tassare le auto blu come fringe benefit, ha dichiarato il presidente di Contribuenti.it, Vittorio Carlomagno.
La domanda mi sorge spontanea: perchè in tutto il mondo hanno meno di un decimo delle nostre auto blu? Non sarebbe il caso di tagliare questo tipo di privilegio estremamente caro piuttosto che alzare il pedaggio autostradale? Se la cifra calasse del 50%, rimanendo sempre lo Stato vincitore, le auto blu ci costerebbero solamente 11 miliardi di Euro.
E pensare che hanno anche avuto la faccia tosta di chiedere l’immunitàè per i propri autisti..


Fonte:http://motori.tuttogratis.it/le-auto-blu-ci-costano-21-miliardi-di-euro/P26765/
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Record di auto blu in Italia: con 629.120 vetture siamo i primi al mondo. Sapete quanto ci costa questo record? Tra vetture, autisti, manutenzione, carburante, pedaggi autostradali ben 21 miliardi di euro ogni anno

Avete letto bene: ventuno miliardi di Euro. La cifra astronomica è il conto che dobbiamo pagare per avere il più alto numero di auto blu di tutto il mondo. Negli Stati Uniti sono 73.000; in Francia 65.000; in Gran Bretagna -notizia di ieri il taglio del Governo inglese alle auto con autista- sono 55.000; in Germania 54.000; in Spagna 44.000; in Giappone 35.000; in Grecia 34.000 e in Portogallo 23.000. In Italia? 629.120 vetture!!
il dato assurdo è che questa folle cifra è aumentata negli ultimi anni: nel 2009 erano 607.918, nel 2007 erano 574.000 e nel 2005 erano 198.596. Il dato arriva da una proiezione effettuata dalla KRLS Network of Business Ethics per conto dell’Associazione Contribuenti Italiani.

Tagliare la spesa pubblica si può senza alcun danno per gli italiani. Basta solo applicare le leggi vigenti anche alla casta. Gli amministratori pubblici, in Italia, hanno superato ogni limite. Non basta pubblicare sul sito internet il nome delle amministrazioni buone o cattive; per ridurre drasticamente il parco auto della pubblica amministrazione bisogna pubblicare il nome e cognome degli utilizzatori e tassare le auto blu come fringe benefit, ha dichiarato il presidente di Contribuenti.it, Vittorio Carlomagno.
La domanda mi sorge spontanea: perchè in tutto il mondo hanno meno di un decimo delle nostre auto blu? Non sarebbe il caso di tagliare questo tipo di privilegio estremamente caro piuttosto che alzare il pedaggio autostradale? Se la cifra calasse del 50%, rimanendo sempre lo Stato vincitore, le auto blu ci costerebbero solamente 11 miliardi di Euro.
E pensare che hanno anche avuto la faccia tosta di chiedere l’immunitàè per i propri autisti..


Fonte:http://motori.tuttogratis.it/le-auto-blu-ci-costano-21-miliardi-di-euro/P26765/
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La negazione di Dio - Ferdinando II di Borbone e “la crisi degli zolfi sicilani"


di Ivan D'Addario


Guido Landi, nel suo "Istituzioni di diritto pubblico nel Regno delle Due Sicilie" scrisse che tale regno "fu considerato, sino alla vigilia della sua dissoluzione, una forte costruzione politica: pari almeno al Regno di Sardegna e superiore a tutti gli altri stati italiani".

La legislazione tecnicamente e formalmente accurata si ispirava al modello della Francia Napoleonica, il più progredito del secolo. Lo storico inglese Bolton King sostenne che nessuno stato in Italia poteva vantare istituzioni così progredite come quelle del Regno delle Due Sicilie. Tuttavia Lord Gladstone, non la pensava allo stesso modo definendo il Regno delle Due Sicilie “la negazione di Dio”, aprendo una vera e propria campagna denigratoria volta a delegittimare il regno di Ferdinando II di Borbone.


Dietro tale campagna denigratoria perpetrata dalla Gran Bretagna ai danni delle Due Sicilie si celavano questioni legate alla politica internazionale e agli accordi commerciali stipulati dai due paesi.


Nel 1800 l ‘Inghilterra opprimeva con la sua politica imperialista i popoli dell’Irlanda, dell’India e delle isole dello Jonio. Quando la Cina nel 1839 decretò il divieto di importazione dell’oppio da parte della Compagnia Inglese delle Indie orientali per tutelare la propria popolazione, il ministro degli esteri Palmerston ordinò lo sbarco di alcuni marinai inglesi con l’intenzione di provocare disordini che puntualmente si verificarono. A seguito dell’intervento della flotta britannica Hong Kong fu occupata e ceduta in seguito alla Gran Bretagna col trattato di Nanchino del 1842 divenendo un porto franco per l’importazione dell’oppio. In India gli inglesi imposero la vendita di stoffe di cotone prodotte in Inghilterra eliminando dal mercato indiano la produzione locale. In Inghilterra nelle miniere di carbone venivano impiegati donne e bambini per tirare i vagoni poiché il loro costo è inferiore al mantenimento dei cavalli...


Ferdinando di Borbone nacque a Palermo il 12 gennaio 1810, durante gli anni dell’esilio Borbonico dovuta all’invasione francese nel Regno di Napoli (1806-1815). Il re crebbe ascoltando in famiglia le forti lamentele contro gli inglesi che col pretesto di proteggere i Borboni in Sicilia, cercavano di pilotare la politica napoletana secondo gli interessi del governo britannico.


In seguito, e precisamente dopo la restaurazione, a causa dei condizionamenti imposti dagli alleati e dalla rivoluzione del 1820 Ferdinando vide nuovamente il regno occupato, questa volta dagli austriaci. Non deve sorprendere pertanto se nel giovane Ferdinando maturi un forte sentimento di indipendenza del regno, lontano da ogni condizionamento esterno.
L’ascesa al trono del Regno delle Due Sicilie l’8 novembre 1830 ad appena vent’anni, determinò una ventata di entusiasmo paragonabile a quella che si ebbe nel 1734 con Carlo di Borbone e sin dai primi anni del suo governo le potenze europee si accorsero che il giovane re non sarebbe stato facilmente manovrabile. Il nuovo re non sarebbe stato né filo-francese né filo-inglese ma esclusivamente duosiciliano.

Egli diede immediata prova di determinazione e di un preciso piano di governo mirato alla riorganizzazione del proprio Stato, alla riduzione del debito pubblico, al potenziamento dell’esercito e della marina duo-siciliana (quella commerciale terza al mondo dopo Inghilterra e Francia) nonché allo sviluppo industriale e al miglioramento dell’ordine pubblico.

Il re con una serie di viaggi prese contatto con le popolazioni delle province, esaminando personalmente i problemi locali e promovendo numerosi interventi. Ferdinando cercò sempre di sottrarre il proprio stato dalle mire imperialiste di Inghilterra e Francia, che avevano in quel tempo numerosi interessi nel Mediterraneo. Il sovrano duosiciliano adottò inoltre un modello politico-economico di tipo protezionistico, ispirandosi in gran parte al modello francese di Jean-Baptiste Colbert che aveva consentito lo sviluppo dell’industria transalpina. Parte della storiografia ha considerato il governo di Ferdinando II come l’artefice di un progressivo isolamento internazionale del Regno delle Due Sicilie. Secondo un’espressione frequentemente ripetuta nel regno, Ferdinando II come padre dei suoi sudditi aveva introdotto nel suo paese pace, abbondanza, e giustizia. La sua volontà di migliorare e modernizzare il proprio apparato industriale (il regno vantava la costruzione dei più grandi cantieri navali d’Europa), sotto il diretto controllo dello Stato portò in beve il regno a vantare la costruzione delle prime industrie italiane, soprattutto del settore tessile e metallurgico. Anche l’agricoltura e l’allevamento vengono sviluppate attraverso la creazione di appositi centri studi statali e un sistema di finanziamento alla piccola proprietà rappresentata dai Monti Frumentari.


Mentre l’impero britannico imponeva con l’uso della forza e dietro la minaccia della sua flotta militare la propria politica commerciale, il regno di Ferdinando II fu un regno pacifico, amante della pace e lontano da mire espansionistiche o imperialiste che permise iniziative scientifiche e culturali di ampio respiro e libertà.


Con Feridnando II il consuetudinario rapporto anglo-borbonico entrò in crisi a causa della questione degli zolfi della Sicilia. Il re duosiciliano a causa di un calo dei prezzi dovuta alla sovrapproduzione decise di sottrarre la produzione dello zolfo siciliano (unica in Europa) agli inglesi -i quali ne disponevano a piacimento e in regime di monopolio sin dal 1816- stipulando un vantaggioso contratto con la società francese Taix-Aycard che già qualche anno prima ne aveva fatto richiesta. Il governo britannico non limitandosi alle sole proteste inviò una squadra navale nel golfo di Napoli, alcune navi mercantili battenti bandiera duosiciliana vennero intercettate e scortate fino a Malta. Ferdianando II per tutta risposta intimò l’embargo a tutte le navi inglesi sorprese nelle acque territoriali del suo regno e inviò contemporaneamente un contingente di 12.000 uomini in Sicilia pronti a intervenire. Il 21 luglio 1840 grazie alla mediazione del re di Francia Luigi Filippo e del Metternich venne annullato il contratto con i Francesi previo risarcimento dei danni agli inglesi.


Gli zolfi siciliani non furono tuttavia l’unico motivo di attrito tra l’Inghilterra e le Due Sicilie. A complicare i rapporti tra i due stati aveva già contribuitola comparsa di un’isoletta a circa 40 km dalla costa siciliana nel 1831. L’isoletta suscitò subito l’interesse di Gran Bretagna e Francia, che nel Mar Mediterraneo cercavano punti strategici per gli approdi delle loro navi, sia mercantili che militari.

L’Inghilterra, trovandosi col suo ammiraglio sir Percival Otham in prossimità dell’isola, vi prese subito possesso in nome della Corona Britannica e in agosto giunse sul posto il capitano Jenhouse, che piantandoci la bandiera britannica, la ribattezzò isola “Graham”. Successivamente i francesi intervenuti per effettuare rilievi e ricognizioni la ribattezzarono “Iulia” in riferimento alla sua comparsa avvenuta nel mese di luglio. Questi avvenimenti causarono inevitabilmente il malcontento e le proteste degli abitanti del Regno delle Due Sicilie, che assieme a quelle del capitano Corrao arrivarono ai Borbone. Si propose quindi di nominare l’isola “Corrao”, chiedendo inoltre al re provvedimenti contro l’ingerenza inglese nelle acque territoriali duosiciliane. Ferdinando II, inviò allora sul posto la corvetta “Etna” al comando del capitano Corrao il quale, arrivato sull’isola, piantò la bandiera borbonica ribattezzandola “Ferdinandea” in onore del sovrano.


Verso la fine d’ottobre del 1831 il governo borbonico inviò ai governi di Gran Bretagna e Francia una memoria con la quale oltre a informare i due paesi dell’accaduto, sottolineò che a norma del diritto internazionale la nuova terra apparteneva di diritto alla Sicilia. Tuttavia i due governi a quanto pare non fornirono alcuna risposta ai duosiciliani aprendo così una frattura tra le relazioni diplomatiche degli stati, tutti interessati a garantirsi la proprietà dell’isola nel Mediterraneo. Nel dicembre dello stesso anno fortunatamente l’isoletta si inabissò evitando quello che si verificherà nel 1992 tra l’Inghilterra e l’Argentina per le Falkland (o Malvinas). A creare scompiglio tra i due paesi non ci furono soltanto questioni di politica internazionale ma anche di carattere familiare. Il fratello del re, Carlo principe di Capua si rese protagonista infatti di una fuga d’amore con una protestante inglese parente di Lord Palmerston. I due si sposarono a Malta e Ferdinando contrario al matrimonio escluse i due amanti dalla famiglia reale con tutte le conseguenze che ne derivavano suscitando l’ira del governo britannico.


Come se non bastasse nel 1851 Ferdinando II decise di concedere ad alcune navi russe l’uso dei porti delle Due Sicilie. A seguito di tale decisione l’Inghilterra si vide minacciare seriamente la sua egemonia nel Mediterraneo basti pensare che nello stesso anno maturò uno stato di tensione tra Turchia e Russia che cercava di allargare la sua influenza nei Balcani.


La Gran Bretagna ritenendo la questione degli zolfi e più in generale la condotta politica di Feridnando II come oltraggiose si impegnò a screditare le Due Sicilie attraverso una vera e propria campagna denigratoria.


Il 17 luglio 1851 il governo britannico fa diffondere in tutte le ambasciate europee una lettera del Gladstone inviata a Lord Aberdeen nella quale si legge che il Regno delle Due Sicilie è ritenuto "la negazione di Dio eretta a sistema di governo". La pubblicazione della lettera sui più famosi giornali europei produsse l’effetto sperato dalla Gran Bretagna dando un immagine negativa del Regno duosiciliano a tutta l’Europa. Il Gladstone mosse tali accuse al governo duosiciliano riferendosi a una sua presunta visita alle carceri napoletane dove erano detenuti alcuni capi della rivolta del 15 maggio 1848.


Il Gladstone si recò a Napoli nel 1888 dopo l’annessione al Regno d’Italia e in tale occasione confessò ai vertici del Partito Liberale di non aver mai messo piede in nessun carcere delle Due Sicilie ma che scrisse tali accuse su incarico di Lord Palmerston per screditare il regno.

Il Lord britannico era venuto nel Mezzogiorno per seguire le vicende del processo tenutosi presso la Gran Corte Criminale di Napoli contro i rivoltosi del ‘48, ma in tale occasione neanche lui visitò alcun carcere.


Riferimenti bibliografici:


A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie; Bologna 1997
A.A.V.V, La storia proibita; Napoli 2001
A. Pagano, Due Sicilie 1830-1880; Lecce 2002
S. Trevisani, Borboni e briganti; Lecce 2002
F. Mastroberti, Tra scienza e arbitrio. Il problema giudiziario e penale nelle Sicilie dal 1821 al 1848; Bari 2005
P. Colletta; Storia del Reame di Napoli;
G. Landi; Istituzioni di diritto pubblico del Regno delle Due Sicilie.
M. Herman; Napoli al tempo di re Bomba; Napoli 1995


Fonte: InStoria
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di Ivan D'Addario


Guido Landi, nel suo "Istituzioni di diritto pubblico nel Regno delle Due Sicilie" scrisse che tale regno "fu considerato, sino alla vigilia della sua dissoluzione, una forte costruzione politica: pari almeno al Regno di Sardegna e superiore a tutti gli altri stati italiani".

La legislazione tecnicamente e formalmente accurata si ispirava al modello della Francia Napoleonica, il più progredito del secolo. Lo storico inglese Bolton King sostenne che nessuno stato in Italia poteva vantare istituzioni così progredite come quelle del Regno delle Due Sicilie. Tuttavia Lord Gladstone, non la pensava allo stesso modo definendo il Regno delle Due Sicilie “la negazione di Dio”, aprendo una vera e propria campagna denigratoria volta a delegittimare il regno di Ferdinando II di Borbone.


Dietro tale campagna denigratoria perpetrata dalla Gran Bretagna ai danni delle Due Sicilie si celavano questioni legate alla politica internazionale e agli accordi commerciali stipulati dai due paesi.


Nel 1800 l ‘Inghilterra opprimeva con la sua politica imperialista i popoli dell’Irlanda, dell’India e delle isole dello Jonio. Quando la Cina nel 1839 decretò il divieto di importazione dell’oppio da parte della Compagnia Inglese delle Indie orientali per tutelare la propria popolazione, il ministro degli esteri Palmerston ordinò lo sbarco di alcuni marinai inglesi con l’intenzione di provocare disordini che puntualmente si verificarono. A seguito dell’intervento della flotta britannica Hong Kong fu occupata e ceduta in seguito alla Gran Bretagna col trattato di Nanchino del 1842 divenendo un porto franco per l’importazione dell’oppio. In India gli inglesi imposero la vendita di stoffe di cotone prodotte in Inghilterra eliminando dal mercato indiano la produzione locale. In Inghilterra nelle miniere di carbone venivano impiegati donne e bambini per tirare i vagoni poiché il loro costo è inferiore al mantenimento dei cavalli...


Ferdinando di Borbone nacque a Palermo il 12 gennaio 1810, durante gli anni dell’esilio Borbonico dovuta all’invasione francese nel Regno di Napoli (1806-1815). Il re crebbe ascoltando in famiglia le forti lamentele contro gli inglesi che col pretesto di proteggere i Borboni in Sicilia, cercavano di pilotare la politica napoletana secondo gli interessi del governo britannico.


In seguito, e precisamente dopo la restaurazione, a causa dei condizionamenti imposti dagli alleati e dalla rivoluzione del 1820 Ferdinando vide nuovamente il regno occupato, questa volta dagli austriaci. Non deve sorprendere pertanto se nel giovane Ferdinando maturi un forte sentimento di indipendenza del regno, lontano da ogni condizionamento esterno.
L’ascesa al trono del Regno delle Due Sicilie l’8 novembre 1830 ad appena vent’anni, determinò una ventata di entusiasmo paragonabile a quella che si ebbe nel 1734 con Carlo di Borbone e sin dai primi anni del suo governo le potenze europee si accorsero che il giovane re non sarebbe stato facilmente manovrabile. Il nuovo re non sarebbe stato né filo-francese né filo-inglese ma esclusivamente duosiciliano.

Egli diede immediata prova di determinazione e di un preciso piano di governo mirato alla riorganizzazione del proprio Stato, alla riduzione del debito pubblico, al potenziamento dell’esercito e della marina duo-siciliana (quella commerciale terza al mondo dopo Inghilterra e Francia) nonché allo sviluppo industriale e al miglioramento dell’ordine pubblico.

Il re con una serie di viaggi prese contatto con le popolazioni delle province, esaminando personalmente i problemi locali e promovendo numerosi interventi. Ferdinando cercò sempre di sottrarre il proprio stato dalle mire imperialiste di Inghilterra e Francia, che avevano in quel tempo numerosi interessi nel Mediterraneo. Il sovrano duosiciliano adottò inoltre un modello politico-economico di tipo protezionistico, ispirandosi in gran parte al modello francese di Jean-Baptiste Colbert che aveva consentito lo sviluppo dell’industria transalpina. Parte della storiografia ha considerato il governo di Ferdinando II come l’artefice di un progressivo isolamento internazionale del Regno delle Due Sicilie. Secondo un’espressione frequentemente ripetuta nel regno, Ferdinando II come padre dei suoi sudditi aveva introdotto nel suo paese pace, abbondanza, e giustizia. La sua volontà di migliorare e modernizzare il proprio apparato industriale (il regno vantava la costruzione dei più grandi cantieri navali d’Europa), sotto il diretto controllo dello Stato portò in beve il regno a vantare la costruzione delle prime industrie italiane, soprattutto del settore tessile e metallurgico. Anche l’agricoltura e l’allevamento vengono sviluppate attraverso la creazione di appositi centri studi statali e un sistema di finanziamento alla piccola proprietà rappresentata dai Monti Frumentari.


Mentre l’impero britannico imponeva con l’uso della forza e dietro la minaccia della sua flotta militare la propria politica commerciale, il regno di Ferdinando II fu un regno pacifico, amante della pace e lontano da mire espansionistiche o imperialiste che permise iniziative scientifiche e culturali di ampio respiro e libertà.


Con Feridnando II il consuetudinario rapporto anglo-borbonico entrò in crisi a causa della questione degli zolfi della Sicilia. Il re duosiciliano a causa di un calo dei prezzi dovuta alla sovrapproduzione decise di sottrarre la produzione dello zolfo siciliano (unica in Europa) agli inglesi -i quali ne disponevano a piacimento e in regime di monopolio sin dal 1816- stipulando un vantaggioso contratto con la società francese Taix-Aycard che già qualche anno prima ne aveva fatto richiesta. Il governo britannico non limitandosi alle sole proteste inviò una squadra navale nel golfo di Napoli, alcune navi mercantili battenti bandiera duosiciliana vennero intercettate e scortate fino a Malta. Ferdianando II per tutta risposta intimò l’embargo a tutte le navi inglesi sorprese nelle acque territoriali del suo regno e inviò contemporaneamente un contingente di 12.000 uomini in Sicilia pronti a intervenire. Il 21 luglio 1840 grazie alla mediazione del re di Francia Luigi Filippo e del Metternich venne annullato il contratto con i Francesi previo risarcimento dei danni agli inglesi.


Gli zolfi siciliani non furono tuttavia l’unico motivo di attrito tra l’Inghilterra e le Due Sicilie. A complicare i rapporti tra i due stati aveva già contribuitola comparsa di un’isoletta a circa 40 km dalla costa siciliana nel 1831. L’isoletta suscitò subito l’interesse di Gran Bretagna e Francia, che nel Mar Mediterraneo cercavano punti strategici per gli approdi delle loro navi, sia mercantili che militari.

L’Inghilterra, trovandosi col suo ammiraglio sir Percival Otham in prossimità dell’isola, vi prese subito possesso in nome della Corona Britannica e in agosto giunse sul posto il capitano Jenhouse, che piantandoci la bandiera britannica, la ribattezzò isola “Graham”. Successivamente i francesi intervenuti per effettuare rilievi e ricognizioni la ribattezzarono “Iulia” in riferimento alla sua comparsa avvenuta nel mese di luglio. Questi avvenimenti causarono inevitabilmente il malcontento e le proteste degli abitanti del Regno delle Due Sicilie, che assieme a quelle del capitano Corrao arrivarono ai Borbone. Si propose quindi di nominare l’isola “Corrao”, chiedendo inoltre al re provvedimenti contro l’ingerenza inglese nelle acque territoriali duosiciliane. Ferdinando II, inviò allora sul posto la corvetta “Etna” al comando del capitano Corrao il quale, arrivato sull’isola, piantò la bandiera borbonica ribattezzandola “Ferdinandea” in onore del sovrano.


Verso la fine d’ottobre del 1831 il governo borbonico inviò ai governi di Gran Bretagna e Francia una memoria con la quale oltre a informare i due paesi dell’accaduto, sottolineò che a norma del diritto internazionale la nuova terra apparteneva di diritto alla Sicilia. Tuttavia i due governi a quanto pare non fornirono alcuna risposta ai duosiciliani aprendo così una frattura tra le relazioni diplomatiche degli stati, tutti interessati a garantirsi la proprietà dell’isola nel Mediterraneo. Nel dicembre dello stesso anno fortunatamente l’isoletta si inabissò evitando quello che si verificherà nel 1992 tra l’Inghilterra e l’Argentina per le Falkland (o Malvinas). A creare scompiglio tra i due paesi non ci furono soltanto questioni di politica internazionale ma anche di carattere familiare. Il fratello del re, Carlo principe di Capua si rese protagonista infatti di una fuga d’amore con una protestante inglese parente di Lord Palmerston. I due si sposarono a Malta e Ferdinando contrario al matrimonio escluse i due amanti dalla famiglia reale con tutte le conseguenze che ne derivavano suscitando l’ira del governo britannico.


Come se non bastasse nel 1851 Ferdinando II decise di concedere ad alcune navi russe l’uso dei porti delle Due Sicilie. A seguito di tale decisione l’Inghilterra si vide minacciare seriamente la sua egemonia nel Mediterraneo basti pensare che nello stesso anno maturò uno stato di tensione tra Turchia e Russia che cercava di allargare la sua influenza nei Balcani.


La Gran Bretagna ritenendo la questione degli zolfi e più in generale la condotta politica di Feridnando II come oltraggiose si impegnò a screditare le Due Sicilie attraverso una vera e propria campagna denigratoria.


Il 17 luglio 1851 il governo britannico fa diffondere in tutte le ambasciate europee una lettera del Gladstone inviata a Lord Aberdeen nella quale si legge che il Regno delle Due Sicilie è ritenuto "la negazione di Dio eretta a sistema di governo". La pubblicazione della lettera sui più famosi giornali europei produsse l’effetto sperato dalla Gran Bretagna dando un immagine negativa del Regno duosiciliano a tutta l’Europa. Il Gladstone mosse tali accuse al governo duosiciliano riferendosi a una sua presunta visita alle carceri napoletane dove erano detenuti alcuni capi della rivolta del 15 maggio 1848.


Il Gladstone si recò a Napoli nel 1888 dopo l’annessione al Regno d’Italia e in tale occasione confessò ai vertici del Partito Liberale di non aver mai messo piede in nessun carcere delle Due Sicilie ma che scrisse tali accuse su incarico di Lord Palmerston per screditare il regno.

Il Lord britannico era venuto nel Mezzogiorno per seguire le vicende del processo tenutosi presso la Gran Corte Criminale di Napoli contro i rivoltosi del ‘48, ma in tale occasione neanche lui visitò alcun carcere.


Riferimenti bibliografici:


A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie; Bologna 1997
A.A.V.V, La storia proibita; Napoli 2001
A. Pagano, Due Sicilie 1830-1880; Lecce 2002
S. Trevisani, Borboni e briganti; Lecce 2002
F. Mastroberti, Tra scienza e arbitrio. Il problema giudiziario e penale nelle Sicilie dal 1821 al 1848; Bari 2005
P. Colletta; Storia del Reame di Napoli;
G. Landi; Istituzioni di diritto pubblico del Regno delle Due Sicilie.
M. Herman; Napoli al tempo di re Bomba; Napoli 1995


Fonte: InStoria

Paragone - "L'ultima Parola" del 28/05/2010: Nuovo attacco al Sud



Ancora accuse ai meridionali nella trasmissione di ieri su Rai 2 alle 23,10 del giornalista di regime Paragone.
Cavalcando le dichiarazioni leghiste di Bossi e Borghezio (il lupo perde il pelo..), di questi ultimi giorni sulla manovra economica del governo, non trova niente di meglio da dire se non attribuire tutte le colpe della crisi economica al meridione, così come l'evasione fiscale e ogni altra nequizia possa passare per la mente.
Dati che, come più volte e da più fonti dimostrato in questi giorni, sono assolutamente privi di ogni fondamento.
In particolare sui dati dell'evasione fiscale è ampiamente dimostrato che i più grandi evasori risiedono al nord, così come le più grandi truffe e borseggi, ai danni dei cittadini e dello stato,degli ultimi anni sono da attribuirsi ad imprese del nord (parmalat, calciopoli, tangentopoli, le ultime truffe carosello in campo telefonico ecc.ecc)...ma tant'è pur di dimostrare l'indimostrabile Paragone, giornalista di area leghista, avvalora le solite tesi del padrone, pur di riceverne un lauto stipendio e una pacca sulla spalla, degno rappresentante di un giornalismo sevile come quello italiano al 72 posto nelle classifiche mondiali per libertà e obiettività.

Quindi la teoria che si è voluta far passare in trasmissione è che tutta la colpa della manovra economica "lacrime e sangue" del governo è da attribuirsi al Sud, che è un "bordello" come detto dal giornalista inglese di The Economist Edward Lucas, molto informato sul nostro paese visto che è sposato con una Signora piemontese...giornalista che , bontà sua, si augura per il bene del nord la separazione dal Sud con il ritorno al Regno delle Due Sicilie...in un trionfo di luoghi comuni, ovvietà e discriminazioni varie degne del peggiore bar sport.

Ricordiamo al pennarulo ascaro Paragone che il suo lauto stipendio, a fronte di uno share fortunatamente sempre più basso, è pagato anche dai telespettatori meridionali, che della sua servile e provocatoria crociata anti-meridionale ne hanno ormai le scatole piene, così come di pagare il canone ad un'azienda la cui dirigenza, pur dichiarandosi sconcertata dagli argomenti trattati nella trasmissione di Paragone, si presta al gioco dell'offesa e della discriminazione verso una sola parte della popolazione italiana.
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Ancora accuse ai meridionali nella trasmissione di ieri su Rai 2 alle 23,10 del giornalista di regime Paragone.
Cavalcando le dichiarazioni leghiste di Bossi e Borghezio (il lupo perde il pelo..), di questi ultimi giorni sulla manovra economica del governo, non trova niente di meglio da dire se non attribuire tutte le colpe della crisi economica al meridione, così come l'evasione fiscale e ogni altra nequizia possa passare per la mente.
Dati che, come più volte e da più fonti dimostrato in questi giorni, sono assolutamente privi di ogni fondamento.
In particolare sui dati dell'evasione fiscale è ampiamente dimostrato che i più grandi evasori risiedono al nord, così come le più grandi truffe e borseggi, ai danni dei cittadini e dello stato,degli ultimi anni sono da attribuirsi ad imprese del nord (parmalat, calciopoli, tangentopoli, le ultime truffe carosello in campo telefonico ecc.ecc)...ma tant'è pur di dimostrare l'indimostrabile Paragone, giornalista di area leghista, avvalora le solite tesi del padrone, pur di riceverne un lauto stipendio e una pacca sulla spalla, degno rappresentante di un giornalismo sevile come quello italiano al 72 posto nelle classifiche mondiali per libertà e obiettività.

Quindi la teoria che si è voluta far passare in trasmissione è che tutta la colpa della manovra economica "lacrime e sangue" del governo è da attribuirsi al Sud, che è un "bordello" come detto dal giornalista inglese di The Economist Edward Lucas, molto informato sul nostro paese visto che è sposato con una Signora piemontese...giornalista che , bontà sua, si augura per il bene del nord la separazione dal Sud con il ritorno al Regno delle Due Sicilie...in un trionfo di luoghi comuni, ovvietà e discriminazioni varie degne del peggiore bar sport.

Ricordiamo al pennarulo ascaro Paragone che il suo lauto stipendio, a fronte di uno share fortunatamente sempre più basso, è pagato anche dai telespettatori meridionali, che della sua servile e provocatoria crociata anti-meridionale ne hanno ormai le scatole piene, così come di pagare il canone ad un'azienda la cui dirigenza, pur dichiarandosi sconcertata dagli argomenti trattati nella trasmissione di Paragone, si presta al gioco dell'offesa e della discriminazione verso una sola parte della popolazione italiana.
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La grande bugia del Sud evasore


di Lino Patruno


Questa non vuol essere una difesa dell’economia sommersa del Sud. Ma vuole essere l’ennesima sconcertata difesa di un Sud che prima o poi sarà considerato la causa di tutti i mali terreni: compresa l’attuale crisi finanziaria planetaria. Dire che nel Sud ci sono percentuali «inaccettabili» di evasione fiscale, come l’85 per cento in Calabria e il 63 in Sicilia, è dire probabilmente la verità. Ma dirlo dopo averlo detto altre mille volte è dire un’altra verità: nulla è stato fatto finora per impedirlo. Soprattutto significa trovare sempre il cattivo di tutte le situazioni, il Sud che andava eliminato alla nascita perché non facesse danni.

Ora c’è sommerso e sommerso. L’idraulico che viene dopo averlo implorato per settimane, sta dieci minuti e si becca 40 euro senza ricevuta, ci fa arrabbiare tutti. Ma l’alternativa è il rubinetto che continua a perdere. E se potessimo mettere in detrazione quella spesa, anche l’idraulico non avrebbe scappatoie.
E così con l’estetista dei massaggi a domicilio. E con l’infermiere che viene a fare l’iniezione. E col medico dalla doppia tariffa, fattura o no? Ma in Italia è più facile che Simona Ventura diventi una gentildonna che non un controllo incrociato del fisco fra chi incassa e chi spende. Ciò che è normale nel resto del mondo.

Poi c’è il sommerso di chi prende mille euro al mese e deve arrotondare. Più che dell’arrotondamento in nero, cioè dell’evasione, dovremmo indignarci dei mille euro al mese nel Paese coi più bassi salari in Europa. C’è il sommerso delle pizzerie e dei bar che non staccano uno scontrino fiscale neanche sotto tortura, ma tu non glielo chiedi per quieto vivere e lui è spesso uno sfessato che ha aperto per campare. C’è il sommerso della piccola impresa edile che ristruttura, ripara, fa manutenzione, quelle «invisibili» in cui ci sono più incidenti sul lavoro che fatture. Andrebbero combattute e basta, benché se spariscono è complicato trovare una azienda più grande e in regola ma agli stessi prezzi. E c’è il sommerso dell’agricoltura, dove ribattono che se pagassero tutto (soprattutto i contributi) diventeremmo un deserto di terre abbandonate e mangeremmo solo banane tropicali.

Che tutto il sommerso sia una grande evasione, è vero come è vero che con Lippi la nostra nazionale di calcio sarà eliminata al primo turno mondiale. Ma tacciarlo di grande illegalità come se dietro al sommerso al Sud ci sia solo la malavita comincia a essere antimeridionalismo. È una concorrenza inaccettabile per chi rispetta le leggi e paga tutto. Ma molto spesso è l’alternativa a un lavoro che non si trova. E un’alternativa alla difficoltà di sopravvivere in un Sud in cui 150 di storia dell’Unità non hanno ancora dato parità di condizioni rispetto al Nord per avviare un’attività. E forse un’alternativa a una rivolta sociale. Anche i sindacati, sapendolo, chiudono un occhio.

Ecco perché sembriamo più ricchi di quanto dicono le cifre, e probabilmente lo siamo. Ecco perché in giro si vede un livello di consumi altrimenti inspiegabile. Ecco perché in Puglia, il cui reddito individuale è del 30 per cento in meno del Nord, il 30 per cento di economia sommersa quasi compensa.

Il sommerso andrebbe spazzato via senza tentennamenti, anche perché in molti casi nasconde sfruttamenti se non schiavismi. Ma allora spetta allo Stato creare le condizioni perché investire al Sud non sia più costoso che al Nord: insomma perché sia possibile emergere. Come avvenuto nel mitico Nordest, esploso da una evasione fiscale molto più ampia. Ma dove tutto attorno, dalle banche alla pubblica amministrazione ai servizi, ha consentito alle fabbrichette di diventare fabbriche. Mentre da noi, più che fabbrichette, ci sono singoli lavoratori in nero. E nulla che li aiuti se volessero fare il grande passo e crescere alla luce del sole.

E poi, questo Sud presunto più evasore del Nord. È improbabile che siano soprattutto sudisti quei furbetti che hanno portato i soldi nei paradisi fiscali all’estero e ci hanno fatto il favore di rientrare pagando solo il 5 per cento. Sono per due terzi lombardi i nomi della attuale lista Falciani da 6 miliardi di euro. È impossibile che parli sudista un’evasione fiscale da 120 miliardi l’anno e senza pari nel mondo. È impossibile che siano molto sudiste le grandi rendite finanziarie graziosamente tassate solo con la miseria del 12 per cento. Perché sarebbe l’unico caso nella storia universale in cui i poveri non solo evadono più dei ricchi, ma hanno tanti soldi da evadere tanto.

È più probabile che, visto che ci sono questi brutti sporchi e cattivi dei meridionali, sia comodo dargli addosso anche per questo. E poi piazzargli la soluzione finale del federalismo fiscale, si arrangino coi loro soldi visto che ne hanno tanti per evadere. Verrebbe voglia di dire che un giorno pagheranno tutto, ma quel giorno non arriva mai e la grande menzogna continua.

Fonte:La Gazzetta del Mezzogiorno del 28/05/2008
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di Lino Patruno


Questa non vuol essere una difesa dell’economia sommersa del Sud. Ma vuole essere l’ennesima sconcertata difesa di un Sud che prima o poi sarà considerato la causa di tutti i mali terreni: compresa l’attuale crisi finanziaria planetaria. Dire che nel Sud ci sono percentuali «inaccettabili» di evasione fiscale, come l’85 per cento in Calabria e il 63 in Sicilia, è dire probabilmente la verità. Ma dirlo dopo averlo detto altre mille volte è dire un’altra verità: nulla è stato fatto finora per impedirlo. Soprattutto significa trovare sempre il cattivo di tutte le situazioni, il Sud che andava eliminato alla nascita perché non facesse danni.

Ora c’è sommerso e sommerso. L’idraulico che viene dopo averlo implorato per settimane, sta dieci minuti e si becca 40 euro senza ricevuta, ci fa arrabbiare tutti. Ma l’alternativa è il rubinetto che continua a perdere. E se potessimo mettere in detrazione quella spesa, anche l’idraulico non avrebbe scappatoie.
E così con l’estetista dei massaggi a domicilio. E con l’infermiere che viene a fare l’iniezione. E col medico dalla doppia tariffa, fattura o no? Ma in Italia è più facile che Simona Ventura diventi una gentildonna che non un controllo incrociato del fisco fra chi incassa e chi spende. Ciò che è normale nel resto del mondo.

Poi c’è il sommerso di chi prende mille euro al mese e deve arrotondare. Più che dell’arrotondamento in nero, cioè dell’evasione, dovremmo indignarci dei mille euro al mese nel Paese coi più bassi salari in Europa. C’è il sommerso delle pizzerie e dei bar che non staccano uno scontrino fiscale neanche sotto tortura, ma tu non glielo chiedi per quieto vivere e lui è spesso uno sfessato che ha aperto per campare. C’è il sommerso della piccola impresa edile che ristruttura, ripara, fa manutenzione, quelle «invisibili» in cui ci sono più incidenti sul lavoro che fatture. Andrebbero combattute e basta, benché se spariscono è complicato trovare una azienda più grande e in regola ma agli stessi prezzi. E c’è il sommerso dell’agricoltura, dove ribattono che se pagassero tutto (soprattutto i contributi) diventeremmo un deserto di terre abbandonate e mangeremmo solo banane tropicali.

Che tutto il sommerso sia una grande evasione, è vero come è vero che con Lippi la nostra nazionale di calcio sarà eliminata al primo turno mondiale. Ma tacciarlo di grande illegalità come se dietro al sommerso al Sud ci sia solo la malavita comincia a essere antimeridionalismo. È una concorrenza inaccettabile per chi rispetta le leggi e paga tutto. Ma molto spesso è l’alternativa a un lavoro che non si trova. E un’alternativa alla difficoltà di sopravvivere in un Sud in cui 150 di storia dell’Unità non hanno ancora dato parità di condizioni rispetto al Nord per avviare un’attività. E forse un’alternativa a una rivolta sociale. Anche i sindacati, sapendolo, chiudono un occhio.

Ecco perché sembriamo più ricchi di quanto dicono le cifre, e probabilmente lo siamo. Ecco perché in giro si vede un livello di consumi altrimenti inspiegabile. Ecco perché in Puglia, il cui reddito individuale è del 30 per cento in meno del Nord, il 30 per cento di economia sommersa quasi compensa.

Il sommerso andrebbe spazzato via senza tentennamenti, anche perché in molti casi nasconde sfruttamenti se non schiavismi. Ma allora spetta allo Stato creare le condizioni perché investire al Sud non sia più costoso che al Nord: insomma perché sia possibile emergere. Come avvenuto nel mitico Nordest, esploso da una evasione fiscale molto più ampia. Ma dove tutto attorno, dalle banche alla pubblica amministrazione ai servizi, ha consentito alle fabbrichette di diventare fabbriche. Mentre da noi, più che fabbrichette, ci sono singoli lavoratori in nero. E nulla che li aiuti se volessero fare il grande passo e crescere alla luce del sole.

E poi, questo Sud presunto più evasore del Nord. È improbabile che siano soprattutto sudisti quei furbetti che hanno portato i soldi nei paradisi fiscali all’estero e ci hanno fatto il favore di rientrare pagando solo il 5 per cento. Sono per due terzi lombardi i nomi della attuale lista Falciani da 6 miliardi di euro. È impossibile che parli sudista un’evasione fiscale da 120 miliardi l’anno e senza pari nel mondo. È impossibile che siano molto sudiste le grandi rendite finanziarie graziosamente tassate solo con la miseria del 12 per cento. Perché sarebbe l’unico caso nella storia universale in cui i poveri non solo evadono più dei ricchi, ma hanno tanti soldi da evadere tanto.

È più probabile che, visto che ci sono questi brutti sporchi e cattivi dei meridionali, sia comodo dargli addosso anche per questo. E poi piazzargli la soluzione finale del federalismo fiscale, si arrangino coi loro soldi visto che ne hanno tanti per evadere. Verrebbe voglia di dire che un giorno pagheranno tutto, ma quel giorno non arriva mai e la grande menzogna continua.

Fonte:La Gazzetta del Mezzogiorno del 28/05/2008
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venerdì 28 maggio 2010

Palermo Sabato 29 Maggio: volantinaggio del Partito del Sud contro la farsa delle celebrazioni garibaldesche


Sabato 29 maggio alle ore 21 a Palermo Ponte Ammiraglio , rivisitazione scenica dell'entrata di Garibaldi a Palermo, tre giorni di "Festeggiamenti" che stanno costando 600.000 euro al Comune di Palermo.
Palermo festeggia il suo Massacratore con una notte bianca che iniziera' alle 21, l'organizzatore e' Philippe Daverio .

Invitiamo tutti a partecipare, almeno quelli che abitano nelle vicinanze, invitiamo gli altri a pubblicizzare il nostro volantinaggio "contro celebrativo", svergognando tutti coloro che si stanno adoperando per questa ignobile farsa, mentre Palermo affoga nella immondizia.

A chi vorra' partecipare suggeriamo di portare le proprie bandiere, effettueremo un volantinaggio per divulgare la vera storia dell'Unita d'Italia.

Appuntamento alle 20,30 a Piazza San Domenico con bandiere e volantini per raccontare la storia negata.

Partito del Sud Palermo

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Sabato 29 maggio alle ore 21 a Palermo Ponte Ammiraglio , rivisitazione scenica dell'entrata di Garibaldi a Palermo, tre giorni di "Festeggiamenti" che stanno costando 600.000 euro al Comune di Palermo.
Palermo festeggia il suo Massacratore con una notte bianca che iniziera' alle 21, l'organizzatore e' Philippe Daverio .

Invitiamo tutti a partecipare, almeno quelli che abitano nelle vicinanze, invitiamo gli altri a pubblicizzare il nostro volantinaggio "contro celebrativo", svergognando tutti coloro che si stanno adoperando per questa ignobile farsa, mentre Palermo affoga nella immondizia.

A chi vorra' partecipare suggeriamo di portare le proprie bandiere, effettueremo un volantinaggio per divulgare la vera storia dell'Unita d'Italia.

Appuntamento alle 20,30 a Piazza San Domenico con bandiere e volantini per raccontare la storia negata.

Partito del Sud Palermo

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Il lato oscuro del Risorgimento? In fondo al mare



Di Paolo Granzotto

Illustre dott. Granzotto, le sottopongo uno spiacevole incontro fatto durante la lettura del volume di Cesaremaria Glori, La tragica morte di Ippolito Nievo. Il naufragio doloso del piroscafo «Ercole». Nell’Introduzione l’autore scrive: «Giudico assai opportuno trascrivere parte del contenuto di una lettera che Giuseppe Garibaldi indirizzò ad Adelaide Cairoli nel 1868, cioè tre anni dopo la conclusione della guerra civile contro il cosiddetto Brigantaggio meridionale: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò non rifarei la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odi”». Di fronte a tale confessione sono rimasto di sasso, anche perché poco dopo ho letto delle distanze che aveva preso dall’avventura meridionale anche il suo colonnello Nievo prima di inabissarsi assieme agli ottanta garibaldini con l’Ercole in acque campane mai indagate. Io mi chiedo - e, se mi consente, chiedo a lei - è proprio il caso di rivangare un passato di persecuzioni e di lutti tra le popolazioni che ne sono state vittime? La vera celebrazione sarebbe di fare luce sul naufragio dell’Ercole e sulla morte dell’eroico Nievo.
e-mail

Conosco l’interessante libro di Cesaremaria Glori, caro Troja, così come quelle amareggiate considerazioni di Garibaldi: non le sole, d’altronde, che in riferimento alla «via dell’Italia meridionale» figurano nei suoi carteggi. Però, vede, se secondo lei non è il caso di rivangare «un passato di persecuzioni e di lutti», allora non è proprio il caso - sopra tutto ora che si celebra il centocinquantenario dell’unità - di proporsi di far luce sul misterioso inabissamento dell’Ercole. Oltre tutto, sarebbe lavoro inutile. Già una trentina d’anni fa lo scrittore (e giornalista, l’avemmo anche al Giornale) Stanislao Nievo, pronipote di Ippolito, provò a disvelare quel mistero: con l’aiuto di Jacques Picard e del suo batiscafo Trieste, rinvenne quello che quasi sicuramente è il relitto dell’Ercole, giacente a 250 metri al largo di Punta Campanella (ne scrisse poi un bellissimo libro, Il prato in fondo al mare, che s’aggiudicò il Campiello). Ma fra i pochi resti dell’imbarcazione Stanis Nievo non trovò la risposta ai suoi interrogativi: non solo gli fu impossibile stabilire le cause del naufragio, ma non rinvenne nessuna traccia del forziere che avrebbe contenuto o il tesoro dei Mille o l’imponente documentazione delle spese (e delle entrate) della cassa dei garibaldini amministrata dal prozio. Documentazione la cui scomparsa negli abissi fu da subito indicata, già allora, marzo del 1861, come il vero e inconfessabile movente del naufragio, provocato quindi artatamente, dell’Ercole.
Perché poi «qualcuno», in alto e basso loco, a Torino o a Londra, volesse impedire che la documentazione puntigliosamente archiviata da Nievo finisse di domino pubblico è presto detto: essa avrebbe rivelato non solo finanziamenti occulti (fra questi le famose 10mila piastre d’oro turche, imbarcate a Talamone), ma anche le spese occulte, quelle per comprarsi i generali borbonici, quelle per reclutare i picciotti mafiosi e quelle che costituirono i benefit, oggi si chiamano così, degli eroici, questo va da sé, ma rapaci ufficiali garibaldini. Le «Carte Nievo» avrebbero cioè messo in luce il lato oscuro, canagliesco e tangentaro dell’impresa dei Mille, compromesso le alte sfere politiche e militari e fortemente ridimensionato la visione eroica e ideale della risorgimentale «via dell’Italia meridionale». Possiamo così dire che Ippolito Nievo, il caramelloso (mi scusino i suoi fan, ma io la penso così) autore di Le confessioni di un italiano e di Angelo di bontà, fu una vittima, sacrificata sull’altare della vulgata.

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Di Paolo Granzotto

Illustre dott. Granzotto, le sottopongo uno spiacevole incontro fatto durante la lettura del volume di Cesaremaria Glori, La tragica morte di Ippolito Nievo. Il naufragio doloso del piroscafo «Ercole». Nell’Introduzione l’autore scrive: «Giudico assai opportuno trascrivere parte del contenuto di una lettera che Giuseppe Garibaldi indirizzò ad Adelaide Cairoli nel 1868, cioè tre anni dopo la conclusione della guerra civile contro il cosiddetto Brigantaggio meridionale: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò non rifarei la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odi”». Di fronte a tale confessione sono rimasto di sasso, anche perché poco dopo ho letto delle distanze che aveva preso dall’avventura meridionale anche il suo colonnello Nievo prima di inabissarsi assieme agli ottanta garibaldini con l’Ercole in acque campane mai indagate. Io mi chiedo - e, se mi consente, chiedo a lei - è proprio il caso di rivangare un passato di persecuzioni e di lutti tra le popolazioni che ne sono state vittime? La vera celebrazione sarebbe di fare luce sul naufragio dell’Ercole e sulla morte dell’eroico Nievo.
e-mail

Conosco l’interessante libro di Cesaremaria Glori, caro Troja, così come quelle amareggiate considerazioni di Garibaldi: non le sole, d’altronde, che in riferimento alla «via dell’Italia meridionale» figurano nei suoi carteggi. Però, vede, se secondo lei non è il caso di rivangare «un passato di persecuzioni e di lutti», allora non è proprio il caso - sopra tutto ora che si celebra il centocinquantenario dell’unità - di proporsi di far luce sul misterioso inabissamento dell’Ercole. Oltre tutto, sarebbe lavoro inutile. Già una trentina d’anni fa lo scrittore (e giornalista, l’avemmo anche al Giornale) Stanislao Nievo, pronipote di Ippolito, provò a disvelare quel mistero: con l’aiuto di Jacques Picard e del suo batiscafo Trieste, rinvenne quello che quasi sicuramente è il relitto dell’Ercole, giacente a 250 metri al largo di Punta Campanella (ne scrisse poi un bellissimo libro, Il prato in fondo al mare, che s’aggiudicò il Campiello). Ma fra i pochi resti dell’imbarcazione Stanis Nievo non trovò la risposta ai suoi interrogativi: non solo gli fu impossibile stabilire le cause del naufragio, ma non rinvenne nessuna traccia del forziere che avrebbe contenuto o il tesoro dei Mille o l’imponente documentazione delle spese (e delle entrate) della cassa dei garibaldini amministrata dal prozio. Documentazione la cui scomparsa negli abissi fu da subito indicata, già allora, marzo del 1861, come il vero e inconfessabile movente del naufragio, provocato quindi artatamente, dell’Ercole.
Perché poi «qualcuno», in alto e basso loco, a Torino o a Londra, volesse impedire che la documentazione puntigliosamente archiviata da Nievo finisse di domino pubblico è presto detto: essa avrebbe rivelato non solo finanziamenti occulti (fra questi le famose 10mila piastre d’oro turche, imbarcate a Talamone), ma anche le spese occulte, quelle per comprarsi i generali borbonici, quelle per reclutare i picciotti mafiosi e quelle che costituirono i benefit, oggi si chiamano così, degli eroici, questo va da sé, ma rapaci ufficiali garibaldini. Le «Carte Nievo» avrebbero cioè messo in luce il lato oscuro, canagliesco e tangentaro dell’impresa dei Mille, compromesso le alte sfere politiche e militari e fortemente ridimensionato la visione eroica e ideale della risorgimentale «via dell’Italia meridionale». Possiamo così dire che Ippolito Nievo, il caramelloso (mi scusino i suoi fan, ma io la penso così) autore di Le confessioni di un italiano e di Angelo di bontà, fu una vittima, sacrificata sull’altare della vulgata.

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