mercoledì 30 giugno 2010

In memoria del Banco di Sicilia. Una lunga tormentata storia.


di Massimo Costa (Università di Palermo)

Il Banco di Sicilia è stato la Banca dei Siciliani, la banca pubblica, praticamente per secoli.
Esso nasce ufficialmente con le "Reali Casse di Corte" di Palermo e Messina, succursali del Banco delle Due Sicilie (di Napoli) dotate di ampia autonomia contabile ed organizzativa (1843). Nascevano per sostituire le gloriose ma ormai inadeguate banche comunali delle due maggiori città siciliane: la Tavola di Palermo (nata nel 1551) e la Tavola di Messina (nata nel 1587). La prima era la terza banca pubblica del mondo per anzianità, aveva praticamente inventato la "moneta di banco" (con le sue "polizze", antenate della cartamoneta) e svolgeva funzioni di Tesoreria per l'intero Regno di Sicilia, in pratica una banca centrale ante litteram.
Sebbene non vi sia una stretta successione giuridica tra il Banco di Sicilia e le due antiche Tavole, vi fu però una stretta successione funzionale, visto che immediatamente le funzioni di Tesoreria pubblica e le principali funzioni "sovrane" passarono alle Casse di Corte appena istituite e che le Tavole vennero messe in liquidazione entro gli anni '50 del XIX secolo con passaggio in massa dei depositi da esse al Banco.
Nel 1848 il Governo Siciliano rivoluzionario espropria le due Casse e le riunisce nel "Banco Nazionale di Sicilia" sotto forma di società anonima, parte di proprietà del Regno di Sicilia ricostituito, parte proprietà di privati. L'anno successivo le quote sociali del "Banco" a seguito del ritorno del governo duosiciliano sono confiscate e riportate nelle mani del tesoro napoletano, ma l'autonomia giuridica del "Banco" è mantenuta.
L'anno dopo ancora (1850) il "Banco" è costituito in ente pubblico con il nome di "Banco dei Regi Dominii al di là del Faro" con funzioni di Banca centrale per il territorio della Sicilia (di fatto uno stato confederato a Napoli) e questa è comunemente considerata la sua data di nascita ufficiale.
La dittatura garibaldina, oltre alla confisca di circa un terzo delle riserve auree del Banco per pagare i debiti di guerra e le spese straordinarie, ne cambia il nome in "Banco di Sicilia" eretto in "ente morale". Nel contempo istituisce un'altra banca pubblica, radicata nel territorio, e destinata ad un ruolo anch'esso non meno importante: la Cassa Centrale di Risparmio Vittorio Emanuele per le Provincie Siciliane, nel tempo diventata semplicemente la Sicilcassa.
Nei primi anni dopo l'annessione all'Italia il Banco continua ad operare come istituto di emissione secondo le modalità antiche del Regno delle Due Sicilie, emettendo cioè i cosiddetti "Titoli apodissari", ancora non molto diversi dalle "polizze" che la Tavola di Palermo aveva inventato tre secoli prima, ma teoricamente all'ordine e non al portatore come le vere e proprie banconote moderne.
Nel 1867 viene ufficialmente riconosciuto al Banco il diritto di emissione in senso moderno e di banca centrale per il territorio siciliano del Regno d'Italia. Dopo una prima gestione "scandalosa" del Banco nei primi anni posteriori all'Unità esso progressivamente diventa una delle banche più importanti d'Italia grazie alla bilancia commerciale costantemente attiva della Sicilia e grazie all'opera infaticabile e rigorosa di Emanuele Notarbartolo che la governa sino al 1893, anno del suo assassinio.
Nel 1870 è autorizzata ad aprire filiali fuori da Palermo e Messina e progressivamente si irrobustisce. Il Banco resta lontano dallo scandalo della Banca Romana e, grazie anche al suo diverso ordinamento giuridico, riesce a mantenere insieme al Banco di Napoli, il diritto di emissione anche dopo la costituzione della Banca d'Italia alla fine del secolo.
Nella sua progressiva espansione arriva a svolgere funzioni di banca centrale anche nei possedimenti libici per mezzo della Banca di Tripoli dalla stessa controllata.
Nel 1926 le funzioni di emissione vengono accentrate alla Banca d'Italia e le riserve auree e valutarie del Banco confiscate alla Sicilia. Il Banco però mantiene assieme al Banco di Napoli il diritto di emettere vaglia cambiari e altri titoli speciali all'ordine riservati alla sola banca centrale, come confermato dalle leggi collegate al codice del 1942.
Nel 1936, in occasione della pubblicizzazione della Banca d'Italia, ottiene una congrua partecipazione al capitale della stessa.
Nel 1946 si vede riconosciute dallo Statuto speciale della Regione Siciliana funzioni costituzionali, all'art. 40, in materia di gestione delle riserve valutarie siciliane per mezzo di apposita "Camera di Compensazione" e, implicitamente, di Tesoreria "naturale" nonché finanziatore dei disavanzi della Regione Siciliana in collaborazione con la Sicilcassa. La parte dello Statuto relativa alla restituzione alla Sicilia delle proprie riserve valutarie per il tramite del Banco non è stata però mai attuata.
Negli anni della Repubblica il Banco si sviluppa lentamente ma costantemente in un clima di rigido oligopolio del sistema bancario italiano. Nonostante la complessiva subalternità rispetto al sistema bancario settentrionale mantiene il proprio posto di rilievo tra i maggiori istituti di credito italiani, apre filiali in tutta Italia (escluso il Mezzogiorno continentale) e in particolare nel Triveneto, nonché all'estero, con una presenza, negli anni '80, che bene o male va da Singapore a Los Angeles.
Ma il "Banco dei siciliani" non sopravviverà al vento della globalizzazione ed alla caduta del Muro di Berlino.
Si inizia nel 1990 con la trasformazione (a rigore incostituzionale, viste le funzioni garantite dallo Statuto siciliano) in società per azioni e trasferimento del pacchetto azionario alla neocostituita "Fondazione Banco di Sicilia".
Nel 1992 con una ricapitalizzazione determinata da politiche aziendali non sempre consistenti con la sopravvivenza a lungo termine dell'istituto, avallate "misteriosamente" dalla Banca d'Italia, entra nel capitale sociale la Regione Siciliana stessa, rendendo la "politica" quanto mai determinante nella gestione del Banco.
Ma il colpo avviene nel 1997, nell'apparente indifferenza generale. L'occasione è data dalle condizioni "comatose" dell'altro grande istituto bancario pubblico siciliano, la Sicilcassa, la cui gestione scandalosa non era stata mai oggetto di alcuna reprimenda da parte dell'istituto di vigilanza. La Sicilcassa viene "salvata" con i soldi dello Stato, padrone del Mediocredito Centrale. Ma il Mediocredito, anziché "comprare" direttamente la Sicilcassa "costringe" il Banco, che pure allora avrebbe avuto spalle solide senza partner continentali, a salvare "Sicilcassa" con i suoi soldi. In pratica Mediocredito (e quindi il Tesoro italiano) entrava come socio principale nel Banco, e questo, con i nuovi capitali, acquistava e incorporava Sicilcassa.
La Regione patteggiava, da socio di minoranza insieme alla Fondazione dei modesti patti parasociali: la nomina di alcuni consiglieri di amministrazione, la permanenza in vita del Banco come istituto autonomo per soli 12 anni successivi al 1997!
Da quel momento in poi il Banco entra nella fase terminale della sua vita, soltanto dilazionata nel tempo ma già decisa.
Nel 1998 i grandi alberghi siciliani, cuore del patrimonio del Banco, vengono svenduti all'immobiliare di Caltagirone con il pretesto che le banche dovevano fare solo attività bancaria.
Nel 1999 il tesoro si disfa del Mediocredito centrale cedendolo alla Banca di Roma. Il "Banco", indirettamente, cessa di essere banca pubblica e finisce in mano di privati.
Poco a poco le funzioni collaterali del Banco sono spostate da Palermo a Roma, ad esempio il centro informatico, etc., lasciando per il momento in Sicilia solo il core business.
Nel 2002 si riorganizza il gruppo bancario romano sotto il nome di Capitalia. La Regione e la Fondazione assurdamente vendono le loro partecipazioni dirette nel Banco, che diventa del 100 % sotto il controllo di Capitalia, e si accontentano di una partecipazione infima in cambio nel capitale complessivo di quest'ultima.
Capitalia utilizza questo controllo per farsi cedere a prezzi nominali tutti gli edifici storici del Banco e della Cassa di Risparmio, di valore praticamente inestimabile, frutto del lavoro e del sacrificio di generazioni di Siciliani, che ora finiscono nelle mani dei grandi banchieri privati, letteralmente con un tratto di penna.
Nel 2007 Capitalia si fonde in Unicredit. Alla Regione e alla Fondazione vanno in concambio quote ancor più irrisorie nel patrimonio di questo colosso bancario privato (lo 0,6 % a testa).
Unicredit sulle prime fa intendere di voler mantenere autonomia al Banco, ma costringe lo stesso a rinchiudersi nei confini della Regione Siciliana, cedendo tutti gli sportelli fuori dall'Isola e centralizzando tutte le istruttorie di concessione di credito di una qualche minima rilevanza sempre fuori dall'Isola. Il Banco è ormai un'ombra.
La crisi del 2008 e la persistenza dei patti parasociali costringono Unicredit a dilazionare il colpo finale. All'aumento di capitale sociale di Unicredit per far fronte alla crisi partecipano anche Regione e Fondazione per non perdere le loro ragioni relative di capitale.
Nel 2010 viene decisa la soluzione finale: il Banco entro l'anno sarà fuso per incorporazione in Unicredit. L'ultima presidenza del Banco, coraggiosa su altri fronti, sarà ricordata per il sussiegoso silenzio su questa vicenda.
Ne restano tre vestigia, ricordo di un passato in cui la storia delle istituzioni finanziarie si faceva anche in Sicilia:
- il "marchio", che forse sarà ancora esposto negli sportelli siciliani per ingannare la clientela, come una vera e propria mummia dietro cui si nasconde un feroce sciamano sanguinario, predatore dei risparmi siciliani che devono essere investiti a favore del solito "maledetto" Nord;
- la partecipazione della Regione in Unicredit ed in altri minori istituti bancari - Irfis, Ircac, Crias - seme per la speranza di ricostruzione di una vera "Banca di Sicilia";
- la fondazione Banco di Sicilia, il cui patrimonio è ancora solido e la cui guida è ancora in mani più che attive, che lascia ancora qualche speranza per il futuro dopo il "fondo" che è stato toccato in questo torno di millennio.
Questi i fatti, i fatti storici, quasi senza nessun commento. Nessun popolo potrà mai prosperare senza una banca propria, e la Sicilia ormai è politicamente matura per costruirsene una. Così non era vent'anni fa, quando l'assenza di un soggetto politico siciliano consentì al peggior ascarismo di compiere un crimine che nemmeno i saccheggiatori garibaldini e postunitari ebbero il coraggio di fare. Ma la nuova Banca di Sicilia sarà solo erede morale del vecchio Banco. Questo, in quanto tale, non è più. Non esiste più e non lo si può fare risuscitare.
I Siciliani, un po' commossi, ne danno la mesta notizia.
Il miglior modo per ricordarlo è guardare avanti e non ripetere mai più gli errori di questa brutta storia.


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di Massimo Costa (Università di Palermo)

Il Banco di Sicilia è stato la Banca dei Siciliani, la banca pubblica, praticamente per secoli.
Esso nasce ufficialmente con le "Reali Casse di Corte" di Palermo e Messina, succursali del Banco delle Due Sicilie (di Napoli) dotate di ampia autonomia contabile ed organizzativa (1843). Nascevano per sostituire le gloriose ma ormai inadeguate banche comunali delle due maggiori città siciliane: la Tavola di Palermo (nata nel 1551) e la Tavola di Messina (nata nel 1587). La prima era la terza banca pubblica del mondo per anzianità, aveva praticamente inventato la "moneta di banco" (con le sue "polizze", antenate della cartamoneta) e svolgeva funzioni di Tesoreria per l'intero Regno di Sicilia, in pratica una banca centrale ante litteram.
Sebbene non vi sia una stretta successione giuridica tra il Banco di Sicilia e le due antiche Tavole, vi fu però una stretta successione funzionale, visto che immediatamente le funzioni di Tesoreria pubblica e le principali funzioni "sovrane" passarono alle Casse di Corte appena istituite e che le Tavole vennero messe in liquidazione entro gli anni '50 del XIX secolo con passaggio in massa dei depositi da esse al Banco.
Nel 1848 il Governo Siciliano rivoluzionario espropria le due Casse e le riunisce nel "Banco Nazionale di Sicilia" sotto forma di società anonima, parte di proprietà del Regno di Sicilia ricostituito, parte proprietà di privati. L'anno successivo le quote sociali del "Banco" a seguito del ritorno del governo duosiciliano sono confiscate e riportate nelle mani del tesoro napoletano, ma l'autonomia giuridica del "Banco" è mantenuta.
L'anno dopo ancora (1850) il "Banco" è costituito in ente pubblico con il nome di "Banco dei Regi Dominii al di là del Faro" con funzioni di Banca centrale per il territorio della Sicilia (di fatto uno stato confederato a Napoli) e questa è comunemente considerata la sua data di nascita ufficiale.
La dittatura garibaldina, oltre alla confisca di circa un terzo delle riserve auree del Banco per pagare i debiti di guerra e le spese straordinarie, ne cambia il nome in "Banco di Sicilia" eretto in "ente morale". Nel contempo istituisce un'altra banca pubblica, radicata nel territorio, e destinata ad un ruolo anch'esso non meno importante: la Cassa Centrale di Risparmio Vittorio Emanuele per le Provincie Siciliane, nel tempo diventata semplicemente la Sicilcassa.
Nei primi anni dopo l'annessione all'Italia il Banco continua ad operare come istituto di emissione secondo le modalità antiche del Regno delle Due Sicilie, emettendo cioè i cosiddetti "Titoli apodissari", ancora non molto diversi dalle "polizze" che la Tavola di Palermo aveva inventato tre secoli prima, ma teoricamente all'ordine e non al portatore come le vere e proprie banconote moderne.
Nel 1867 viene ufficialmente riconosciuto al Banco il diritto di emissione in senso moderno e di banca centrale per il territorio siciliano del Regno d'Italia. Dopo una prima gestione "scandalosa" del Banco nei primi anni posteriori all'Unità esso progressivamente diventa una delle banche più importanti d'Italia grazie alla bilancia commerciale costantemente attiva della Sicilia e grazie all'opera infaticabile e rigorosa di Emanuele Notarbartolo che la governa sino al 1893, anno del suo assassinio.
Nel 1870 è autorizzata ad aprire filiali fuori da Palermo e Messina e progressivamente si irrobustisce. Il Banco resta lontano dallo scandalo della Banca Romana e, grazie anche al suo diverso ordinamento giuridico, riesce a mantenere insieme al Banco di Napoli, il diritto di emissione anche dopo la costituzione della Banca d'Italia alla fine del secolo.
Nella sua progressiva espansione arriva a svolgere funzioni di banca centrale anche nei possedimenti libici per mezzo della Banca di Tripoli dalla stessa controllata.
Nel 1926 le funzioni di emissione vengono accentrate alla Banca d'Italia e le riserve auree e valutarie del Banco confiscate alla Sicilia. Il Banco però mantiene assieme al Banco di Napoli il diritto di emettere vaglia cambiari e altri titoli speciali all'ordine riservati alla sola banca centrale, come confermato dalle leggi collegate al codice del 1942.
Nel 1936, in occasione della pubblicizzazione della Banca d'Italia, ottiene una congrua partecipazione al capitale della stessa.
Nel 1946 si vede riconosciute dallo Statuto speciale della Regione Siciliana funzioni costituzionali, all'art. 40, in materia di gestione delle riserve valutarie siciliane per mezzo di apposita "Camera di Compensazione" e, implicitamente, di Tesoreria "naturale" nonché finanziatore dei disavanzi della Regione Siciliana in collaborazione con la Sicilcassa. La parte dello Statuto relativa alla restituzione alla Sicilia delle proprie riserve valutarie per il tramite del Banco non è stata però mai attuata.
Negli anni della Repubblica il Banco si sviluppa lentamente ma costantemente in un clima di rigido oligopolio del sistema bancario italiano. Nonostante la complessiva subalternità rispetto al sistema bancario settentrionale mantiene il proprio posto di rilievo tra i maggiori istituti di credito italiani, apre filiali in tutta Italia (escluso il Mezzogiorno continentale) e in particolare nel Triveneto, nonché all'estero, con una presenza, negli anni '80, che bene o male va da Singapore a Los Angeles.
Ma il "Banco dei siciliani" non sopravviverà al vento della globalizzazione ed alla caduta del Muro di Berlino.
Si inizia nel 1990 con la trasformazione (a rigore incostituzionale, viste le funzioni garantite dallo Statuto siciliano) in società per azioni e trasferimento del pacchetto azionario alla neocostituita "Fondazione Banco di Sicilia".
Nel 1992 con una ricapitalizzazione determinata da politiche aziendali non sempre consistenti con la sopravvivenza a lungo termine dell'istituto, avallate "misteriosamente" dalla Banca d'Italia, entra nel capitale sociale la Regione Siciliana stessa, rendendo la "politica" quanto mai determinante nella gestione del Banco.
Ma il colpo avviene nel 1997, nell'apparente indifferenza generale. L'occasione è data dalle condizioni "comatose" dell'altro grande istituto bancario pubblico siciliano, la Sicilcassa, la cui gestione scandalosa non era stata mai oggetto di alcuna reprimenda da parte dell'istituto di vigilanza. La Sicilcassa viene "salvata" con i soldi dello Stato, padrone del Mediocredito Centrale. Ma il Mediocredito, anziché "comprare" direttamente la Sicilcassa "costringe" il Banco, che pure allora avrebbe avuto spalle solide senza partner continentali, a salvare "Sicilcassa" con i suoi soldi. In pratica Mediocredito (e quindi il Tesoro italiano) entrava come socio principale nel Banco, e questo, con i nuovi capitali, acquistava e incorporava Sicilcassa.
La Regione patteggiava, da socio di minoranza insieme alla Fondazione dei modesti patti parasociali: la nomina di alcuni consiglieri di amministrazione, la permanenza in vita del Banco come istituto autonomo per soli 12 anni successivi al 1997!
Da quel momento in poi il Banco entra nella fase terminale della sua vita, soltanto dilazionata nel tempo ma già decisa.
Nel 1998 i grandi alberghi siciliani, cuore del patrimonio del Banco, vengono svenduti all'immobiliare di Caltagirone con il pretesto che le banche dovevano fare solo attività bancaria.
Nel 1999 il tesoro si disfa del Mediocredito centrale cedendolo alla Banca di Roma. Il "Banco", indirettamente, cessa di essere banca pubblica e finisce in mano di privati.
Poco a poco le funzioni collaterali del Banco sono spostate da Palermo a Roma, ad esempio il centro informatico, etc., lasciando per il momento in Sicilia solo il core business.
Nel 2002 si riorganizza il gruppo bancario romano sotto il nome di Capitalia. La Regione e la Fondazione assurdamente vendono le loro partecipazioni dirette nel Banco, che diventa del 100 % sotto il controllo di Capitalia, e si accontentano di una partecipazione infima in cambio nel capitale complessivo di quest'ultima.
Capitalia utilizza questo controllo per farsi cedere a prezzi nominali tutti gli edifici storici del Banco e della Cassa di Risparmio, di valore praticamente inestimabile, frutto del lavoro e del sacrificio di generazioni di Siciliani, che ora finiscono nelle mani dei grandi banchieri privati, letteralmente con un tratto di penna.
Nel 2007 Capitalia si fonde in Unicredit. Alla Regione e alla Fondazione vanno in concambio quote ancor più irrisorie nel patrimonio di questo colosso bancario privato (lo 0,6 % a testa).
Unicredit sulle prime fa intendere di voler mantenere autonomia al Banco, ma costringe lo stesso a rinchiudersi nei confini della Regione Siciliana, cedendo tutti gli sportelli fuori dall'Isola e centralizzando tutte le istruttorie di concessione di credito di una qualche minima rilevanza sempre fuori dall'Isola. Il Banco è ormai un'ombra.
La crisi del 2008 e la persistenza dei patti parasociali costringono Unicredit a dilazionare il colpo finale. All'aumento di capitale sociale di Unicredit per far fronte alla crisi partecipano anche Regione e Fondazione per non perdere le loro ragioni relative di capitale.
Nel 2010 viene decisa la soluzione finale: il Banco entro l'anno sarà fuso per incorporazione in Unicredit. L'ultima presidenza del Banco, coraggiosa su altri fronti, sarà ricordata per il sussiegoso silenzio su questa vicenda.
Ne restano tre vestigia, ricordo di un passato in cui la storia delle istituzioni finanziarie si faceva anche in Sicilia:
- il "marchio", che forse sarà ancora esposto negli sportelli siciliani per ingannare la clientela, come una vera e propria mummia dietro cui si nasconde un feroce sciamano sanguinario, predatore dei risparmi siciliani che devono essere investiti a favore del solito "maledetto" Nord;
- la partecipazione della Regione in Unicredit ed in altri minori istituti bancari - Irfis, Ircac, Crias - seme per la speranza di ricostruzione di una vera "Banca di Sicilia";
- la fondazione Banco di Sicilia, il cui patrimonio è ancora solido e la cui guida è ancora in mani più che attive, che lascia ancora qualche speranza per il futuro dopo il "fondo" che è stato toccato in questo torno di millennio.
Questi i fatti, i fatti storici, quasi senza nessun commento. Nessun popolo potrà mai prosperare senza una banca propria, e la Sicilia ormai è politicamente matura per costruirsene una. Così non era vent'anni fa, quando l'assenza di un soggetto politico siciliano consentì al peggior ascarismo di compiere un crimine che nemmeno i saccheggiatori garibaldini e postunitari ebbero il coraggio di fare. Ma la nuova Banca di Sicilia sarà solo erede morale del vecchio Banco. Questo, in quanto tale, non è più. Non esiste più e non lo si può fare risuscitare.
I Siciliani, un po' commossi, ne danno la mesta notizia.
Il miglior modo per ricordarlo è guardare avanti e non ripetere mai più gli errori di questa brutta storia.


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Video da Associazione Due Sicilie San Giovanni in Fiore: Energia elettrica rubata dal Nord a discapito del Sud


http://www.facebook.com/profile.php?id=100000698291299#!/video/video.php?v=1502327278952&oid=120620574630180

I laghi della Sila si trovano su territorio espropriato da proprietà private, per l'85% delle terre espropriate dall'Ente di riforma si è trattato invece di terreni di qualità demaniale, che la Corte Costituzionale ha dichiarato più volte in espropriabili.I demani sono per loro natura inalienabili, per cui la vendita operata è risultata senz'altro nulla. Oltre all'espropriazione ILLEGITTIMA fatta con un semplice decreto prefettizio di 330.00.00 ettari per la costruzione dei laghi idroelettrici, risultano diverse altre occupazioni abusive senza alcun titolo per complessivi 61.82.00 ettari.
Aggiungo che l'adoperato degli ultimi amministratori comunali, ha lasciato sinora le cose nella situazione illegittima di prima a tutto vantaggio degli usurpatori, che non solo quelli di ieri ma anche quelli di oggi.
.
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http://www.facebook.com/profile.php?id=100000698291299#!/video/video.php?v=1502327278952&oid=120620574630180

I laghi della Sila si trovano su territorio espropriato da proprietà private, per l'85% delle terre espropriate dall'Ente di riforma si è trattato invece di terreni di qualità demaniale, che la Corte Costituzionale ha dichiarato più volte in espropriabili.I demani sono per loro natura inalienabili, per cui la vendita operata è risultata senz'altro nulla. Oltre all'espropriazione ILLEGITTIMA fatta con un semplice decreto prefettizio di 330.00.00 ettari per la costruzione dei laghi idroelettrici, risultano diverse altre occupazioni abusive senza alcun titolo per complessivi 61.82.00 ettari.
Aggiungo che l'adoperato degli ultimi amministratori comunali, ha lasciato sinora le cose nella situazione illegittima di prima a tutto vantaggio degli usurpatori, che non solo quelli di ieri ma anche quelli di oggi.
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Filmare le discariche? Vietato per legge



Di Tommaso Sodano

Una notizia che non è apparsa sui grandi organi di informazione ma che è paradigmatica del gravissimo deficit democratico che sta vivendo il nostro Paese. Tre giovani studenti, animati dalla voglia di costruire un pezzo di verità attorno alla discarica della vergogna costruita all’interno del Parco nazionale del Vesuvio, con una telecamerina si sono recati presso la ex Sari di località Pozzelle, nel comune di Terzigno per riprendere il pattume lì sversato.

Ma forse non tutti sanno che nell’anno di grazia 2010, nel Paese del duo Bertolaso & Berlusconi filmare o fotografare un sito come quello di Terzigno, catalogato come “area di interesse strategico nazionale”, è reato, è vietato dalla legge. E infatti puntuale sul posto arriva una pattuglia dei carabinieri che ferma i tre giovani e li porta in Caserma e i tre giovani vengono denunciati a a piede libero per la violazione dell’articolo 650 del codice penale: “inosservanza dei provvedimenti dell’autorità“.

È accaduto mercoledi 23 giugno nel pomeriggio a Terzigno: gli studenti erano saliti fino alla discarica per filmare l’attività dell’impianto, almeno dall’esterno. “L’ intenzione era quella di girare un documentario in grado di sensibilizzare quella parte di popolazione che pare non interessarsi affatto al problema delle discariche, inconsapevole dei gravi rischi di salute a cui va incontro. Volevo portare il documentario in visione nelle scuole, dargli risalto tramiteinternet: è assurdo ma già a partire da Pompei molta gente non è a conoscenza nè della discarica nè dei disagi che tanti cittadini di Boscoreale e Terzigno stanno vivendo.”

Questa la volontà dichiarata da Francesco Servino, uno dei tre giovani fermati. Volevano realizzare un documentario, una sorta di reportage amatoriale che, tuttavia, sarebbe servito a denunciare il paradosso di un sito di immondizia in una riserva naturale. I carabinieri che li hanno incrociati , glielo hanno impedito e li hanno formalmente denunciati alla procura dellaRepubblica. Il fatto grave ha creato una forte mobilitazione, attestati di solidarietà e tanta preoccupazione per questa limitazione della libertà di espressione .

In realtà il fatto rende esplicito quello che è avvenuto in Campania con la equiparazione,voluta da Bertolaso, degli impianti per la gestione dei rifiuti a siti militari strategici, facendo venir meno la possibilità di vigilanza e controllo da parte dei cittadini e delle stesse istituzioni locali. Una sorta di extraterritorialità che espropria le comunità locali da qualsiasi azione di tutela e che rappresenta il modello sperimentale su cui nei prossimi anni a il Governovorrà cimentarsi con la realizzazione delle centrali nucleari. In realtà questo episodio rappresenta l’anticipazione della legge bavaglio, una intimidazione inaudita contro cui bisogna reagire energicamente. Ma in reltà dobbiamo porci anche una semplice domanda: ma cosa si vuole nascondere nella discarica di Terzigno? E oltre alla solidarietà ai giovani bisogna che sulla questione si apra una discussione nazionale e se c’è qualche oppositore in Parlamento batta un colpo!

Fonte: Il fatto quotidiano
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Di Tommaso Sodano

Una notizia che non è apparsa sui grandi organi di informazione ma che è paradigmatica del gravissimo deficit democratico che sta vivendo il nostro Paese. Tre giovani studenti, animati dalla voglia di costruire un pezzo di verità attorno alla discarica della vergogna costruita all’interno del Parco nazionale del Vesuvio, con una telecamerina si sono recati presso la ex Sari di località Pozzelle, nel comune di Terzigno per riprendere il pattume lì sversato.

Ma forse non tutti sanno che nell’anno di grazia 2010, nel Paese del duo Bertolaso & Berlusconi filmare o fotografare un sito come quello di Terzigno, catalogato come “area di interesse strategico nazionale”, è reato, è vietato dalla legge. E infatti puntuale sul posto arriva una pattuglia dei carabinieri che ferma i tre giovani e li porta in Caserma e i tre giovani vengono denunciati a a piede libero per la violazione dell’articolo 650 del codice penale: “inosservanza dei provvedimenti dell’autorità“.

È accaduto mercoledi 23 giugno nel pomeriggio a Terzigno: gli studenti erano saliti fino alla discarica per filmare l’attività dell’impianto, almeno dall’esterno. “L’ intenzione era quella di girare un documentario in grado di sensibilizzare quella parte di popolazione che pare non interessarsi affatto al problema delle discariche, inconsapevole dei gravi rischi di salute a cui va incontro. Volevo portare il documentario in visione nelle scuole, dargli risalto tramiteinternet: è assurdo ma già a partire da Pompei molta gente non è a conoscenza nè della discarica nè dei disagi che tanti cittadini di Boscoreale e Terzigno stanno vivendo.”

Questa la volontà dichiarata da Francesco Servino, uno dei tre giovani fermati. Volevano realizzare un documentario, una sorta di reportage amatoriale che, tuttavia, sarebbe servito a denunciare il paradosso di un sito di immondizia in una riserva naturale. I carabinieri che li hanno incrociati , glielo hanno impedito e li hanno formalmente denunciati alla procura dellaRepubblica. Il fatto grave ha creato una forte mobilitazione, attestati di solidarietà e tanta preoccupazione per questa limitazione della libertà di espressione .

In realtà il fatto rende esplicito quello che è avvenuto in Campania con la equiparazione,voluta da Bertolaso, degli impianti per la gestione dei rifiuti a siti militari strategici, facendo venir meno la possibilità di vigilanza e controllo da parte dei cittadini e delle stesse istituzioni locali. Una sorta di extraterritorialità che espropria le comunità locali da qualsiasi azione di tutela e che rappresenta il modello sperimentale su cui nei prossimi anni a il Governovorrà cimentarsi con la realizzazione delle centrali nucleari. In realtà questo episodio rappresenta l’anticipazione della legge bavaglio, una intimidazione inaudita contro cui bisogna reagire energicamente. Ma in reltà dobbiamo porci anche una semplice domanda: ma cosa si vuole nascondere nella discarica di Terzigno? E oltre alla solidarietà ai giovani bisogna che sulla questione si apra una discussione nazionale e se c’è qualche oppositore in Parlamento batta un colpo!

Fonte: Il fatto quotidiano
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I GIOVANI MERIDIONALISTI RISPONDONO AI GIOVANI DELLA LEGA

Il movimento meridionalista “insieme per la rinascita”accoglie con grande sorpresa e stupore le parole dei Giovani della Lega che nientemeno presentano un’interrogazione al Ministro Maroni,in virtù di fantomatiche persecuzioni razziste che,a lor dire,Napoli sta riservando al partito Leghista.
Della serie,come si dice qui a Napoli : il bue che chiama cornuto l’asino.
Forse i giovani della Lega dimenticano le parole colme di odio che il loro partito ha da sempre riservato ai meridionali.Come dimenticare,ad esempio,le farneticanti affermazioni dell’On.Gentilini,che nel corso di un comizio affermò:” Io voglio la rivoluzione contro chi dice che devo mangiarmi la spazzatura di Napoli. Io la prendo e la macino e poi se la devono mangiare loro”o come dimenticare gli osceni cori di Salvini,che a Pontida intonava”senti che puzza,scappano i cani,stanno arrivando i meridionali,brutti terroni terremotati che con il sapone non si sono mai lavati”?Per poi non dimenticare la perla massima dell’On.Borghezio che affermò”Il meridione ?ma regaliamolo alla Corona di Spagna !”.
Ebbene,Napoli e i napoletani non dimenticano questo,così come non scordano i cartelli affissi fuori molti palazzi del Settentrione che recitavano:non si affitta ai meridionali!
Alcune provocazioni e iniziative che stanno perpetuando sempre di più,pedissequamente,molti movimenti meridionalisti negli ultimi tempi,possono essere letti solo ed unicamente come una legittima difesa nei confronti di un Governo che si sta sempre di più facendo tirare la giacchetta da un partito che non fa gli interessi della nazione ma solo di un fantomatico stato che non esiste:la Padania.Del resto ancora ci stiamo chiedendo come abbia fatto Bossi e gli altri Ministri Leghisti a giurare sulla Costituzione Italiana,quando l’art.1 dello statuto della Lega recita :” Il Movimento politico denominato “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania” ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana.”
A questo punto siamo noi a chiedere spiegazioni a Maroni.

Insieme per la Rinascita
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Il movimento meridionalista “insieme per la rinascita”accoglie con grande sorpresa e stupore le parole dei Giovani della Lega che nientemeno presentano un’interrogazione al Ministro Maroni,in virtù di fantomatiche persecuzioni razziste che,a lor dire,Napoli sta riservando al partito Leghista.
Della serie,come si dice qui a Napoli : il bue che chiama cornuto l’asino.
Forse i giovani della Lega dimenticano le parole colme di odio che il loro partito ha da sempre riservato ai meridionali.Come dimenticare,ad esempio,le farneticanti affermazioni dell’On.Gentilini,che nel corso di un comizio affermò:” Io voglio la rivoluzione contro chi dice che devo mangiarmi la spazzatura di Napoli. Io la prendo e la macino e poi se la devono mangiare loro”o come dimenticare gli osceni cori di Salvini,che a Pontida intonava”senti che puzza,scappano i cani,stanno arrivando i meridionali,brutti terroni terremotati che con il sapone non si sono mai lavati”?Per poi non dimenticare la perla massima dell’On.Borghezio che affermò”Il meridione ?ma regaliamolo alla Corona di Spagna !”.
Ebbene,Napoli e i napoletani non dimenticano questo,così come non scordano i cartelli affissi fuori molti palazzi del Settentrione che recitavano:non si affitta ai meridionali!
Alcune provocazioni e iniziative che stanno perpetuando sempre di più,pedissequamente,molti movimenti meridionalisti negli ultimi tempi,possono essere letti solo ed unicamente come una legittima difesa nei confronti di un Governo che si sta sempre di più facendo tirare la giacchetta da un partito che non fa gli interessi della nazione ma solo di un fantomatico stato che non esiste:la Padania.Del resto ancora ci stiamo chiedendo come abbia fatto Bossi e gli altri Ministri Leghisti a giurare sulla Costituzione Italiana,quando l’art.1 dello statuto della Lega recita :” Il Movimento politico denominato “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania” ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana.”
A questo punto siamo noi a chiedere spiegazioni a Maroni.

Insieme per la Rinascita
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L'UE CONTROLLERA' I CITTADINI CON OPINIONI RADICALI

di Irene Lozano
Tra i successi della Presidenza spagnola dell’UE, è passata praticamente inosservata l’approvazione di un programma di controllo e di raccolta sistematica di dati personali di cittadini sospettati di sperimentare un processo di “radicalizzazione”. Questo programma può essere usato contro individui coinvolti in gruppi “di estrema destra o sinistra, nazionalisti, religiosi o no-global”, secondo quanto figura nei documenti ufficiali.

Lo scorso 26 aprile, il Consiglio dell’UE riunito a Lussemburgo, affrontato il punto all'ordine del giorno dal titolo: "Radicalizzazione nell’UE", che si è concluso con l’approvazione del documento 8570/10. L'iniziativa fa parte della strategia di prevenzione del terrorismo in Europa, e inizialmente concepito per gruppi terroristici islamici. Tuttavia, il documento estende il sospetto in una tale forma ed in termini così generici che dà la possibilità alla polizia di controllare qualsiasi individuo o gruppo sospettato di essere radicalizzato.

Così, un’attivista di un’organizzazione civile, politica o cittadina, senza rapporti col terrorismo, potrebbe essere spiato nel quadro di un programma che invita ad investigare dal "grado di impegno ideologico o politico" del sospettato, fino alla sua situazione economica di “disoccupato, deterioramento, perdita di una borsa di studio o di aiuto finanziario”.

Il documento approvato raccomanda agli Stati membri che “condividono informazione relativa ai processi di radicalizzazione”. “Cosa intende l’UE per radicalizzazione? Il testo dovrebbe definire il concetto, ma questo permetterebbe di limitare il controllo all’ambito del terrorismo islamico, e quindi non lo fa. Sollecita, invece, a considerare tra gli obiettivi ogni tipo di difensore di idee eterodosse. L’accordo mette anche sotto la lente d’ingrandimento della polizia i cittadini che difendono le idee radicali classiche, quelle dei sostenitori del riformismo democratico che hanno fatto così bene alla democrazia. Si potrebbe anche applicare contro coloro che si considerino radicali nel senso etimologico, dato che “radicale” è, nè più nè meno, quello che affronta i problemi dalla radice.

L’accordo polverizza lo spirito europeo della tolleranza verso tutte le idee, sempre che si difendano attraverso la parola, dato che, nella sua ansia di prevenire il terrorismo, amplifica il ventaglio di sospettati fino a diluire la notevole differenza tra i mezzi con i quali si difendono le idee e le idee stesse.Il programma completo di controllo è raccolto in un documento precedente, il 7984/10, intitolato “Strumento per conservare dati e informazioni sui processi di radicalizzazione violenta”, di marzo di quest’anno. Casualmente, a questo testo è stato dato un carattere confidenziale, e si è conosciuto solo grazie al fatto che l’organizzazione della difesa delle libertà civili, http://www.statewatch.org/ha avuto accesso ad esso e lo ha reso pubblico.

La ONG denuncia che questo programma “non è diretto in primo luogo verso persone o gruppi che abbiano la pretesa di compiere atti terroristici, ma a persone che hanno punti di vista radicali, che vengono definiti come propagatori di messaggi radicali”.Tra gli obiettivi del documento segreto figura “combattere la radicalizzazione ed il reclutamento” ed include allusioni relative alla persecuzione di chi incitano all’odio o alla violenza che sembrano essere dirette a gruppi terroristici o filo terroristi. Ma, queste risultano non necessarie, dato che sono già penalizzate dalla legislazione penale dei paesi europei. Il testo allude indistintamente alla “radicalizzazione” e la “radicalizzazione violenta”, associando il ricorso alla violenza con ogni tipo di idee estreme o antisistema.

Il documento invita i governi a controllare i “messaggi di radicalizzazione”
fino al punto di sfiorare la vulnerabilità della libertà d’espressione. Il programma invita a scrutare le audizioni nelle quali vengono rivolti messaggi radicali, siano essi di sostegno alla violenza oppure no, se esistono altri gruppi con le stesse idee che rinneghino la violenza, come si trasmettono i messaggi radicali, ecc.
Scendendo nei dettagli sul controllo individuale, raccomanda d’indagare anche i sentimenti delle persone che militano in gruppi sospetti, attraverso domande come quelle che mirano a conoscere i “sentimenti della persona in relazione alla sua nuova identità collettiva ed ai membri del gruppo” E con domande tipo: “La persona ha fatto commenti su fatti, principalmente di natura politica, usando argomenti basati su messaggi radicali? Ha fatto commenti sulla sua intenzione di prendere parte ad atti violenti?".

In questo modo, l’accordo apre una pericolosa via di persecuzione delle idee, gli argomenti e perfino gli stati d’animo.
La riunione nella quale è stato approvato questo programma di controllo cittadino è stata presieduta dal ministro degli Affari Esteri, Miguel Angel Moratinos, dato che la Spagna ha la Presidenza di turno dell’UE. Ha assisto anche il segretario di Stato dell' UE, Diego Lopez Garrido, così come la maggior parte dei ministri degli Affari Esteri comunitari.
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di Irene Lozano
Tra i successi della Presidenza spagnola dell’UE, è passata praticamente inosservata l’approvazione di un programma di controllo e di raccolta sistematica di dati personali di cittadini sospettati di sperimentare un processo di “radicalizzazione”. Questo programma può essere usato contro individui coinvolti in gruppi “di estrema destra o sinistra, nazionalisti, religiosi o no-global”, secondo quanto figura nei documenti ufficiali.

Lo scorso 26 aprile, il Consiglio dell’UE riunito a Lussemburgo, affrontato il punto all'ordine del giorno dal titolo: "Radicalizzazione nell’UE", che si è concluso con l’approvazione del documento 8570/10. L'iniziativa fa parte della strategia di prevenzione del terrorismo in Europa, e inizialmente concepito per gruppi terroristici islamici. Tuttavia, il documento estende il sospetto in una tale forma ed in termini così generici che dà la possibilità alla polizia di controllare qualsiasi individuo o gruppo sospettato di essere radicalizzato.

Così, un’attivista di un’organizzazione civile, politica o cittadina, senza rapporti col terrorismo, potrebbe essere spiato nel quadro di un programma che invita ad investigare dal "grado di impegno ideologico o politico" del sospettato, fino alla sua situazione economica di “disoccupato, deterioramento, perdita di una borsa di studio o di aiuto finanziario”.

Il documento approvato raccomanda agli Stati membri che “condividono informazione relativa ai processi di radicalizzazione”. “Cosa intende l’UE per radicalizzazione? Il testo dovrebbe definire il concetto, ma questo permetterebbe di limitare il controllo all’ambito del terrorismo islamico, e quindi non lo fa. Sollecita, invece, a considerare tra gli obiettivi ogni tipo di difensore di idee eterodosse. L’accordo mette anche sotto la lente d’ingrandimento della polizia i cittadini che difendono le idee radicali classiche, quelle dei sostenitori del riformismo democratico che hanno fatto così bene alla democrazia. Si potrebbe anche applicare contro coloro che si considerino radicali nel senso etimologico, dato che “radicale” è, nè più nè meno, quello che affronta i problemi dalla radice.

L’accordo polverizza lo spirito europeo della tolleranza verso tutte le idee, sempre che si difendano attraverso la parola, dato che, nella sua ansia di prevenire il terrorismo, amplifica il ventaglio di sospettati fino a diluire la notevole differenza tra i mezzi con i quali si difendono le idee e le idee stesse.Il programma completo di controllo è raccolto in un documento precedente, il 7984/10, intitolato “Strumento per conservare dati e informazioni sui processi di radicalizzazione violenta”, di marzo di quest’anno. Casualmente, a questo testo è stato dato un carattere confidenziale, e si è conosciuto solo grazie al fatto che l’organizzazione della difesa delle libertà civili, http://www.statewatch.org/ha avuto accesso ad esso e lo ha reso pubblico.

La ONG denuncia che questo programma “non è diretto in primo luogo verso persone o gruppi che abbiano la pretesa di compiere atti terroristici, ma a persone che hanno punti di vista radicali, che vengono definiti come propagatori di messaggi radicali”.Tra gli obiettivi del documento segreto figura “combattere la radicalizzazione ed il reclutamento” ed include allusioni relative alla persecuzione di chi incitano all’odio o alla violenza che sembrano essere dirette a gruppi terroristici o filo terroristi. Ma, queste risultano non necessarie, dato che sono già penalizzate dalla legislazione penale dei paesi europei. Il testo allude indistintamente alla “radicalizzazione” e la “radicalizzazione violenta”, associando il ricorso alla violenza con ogni tipo di idee estreme o antisistema.

Il documento invita i governi a controllare i “messaggi di radicalizzazione”
fino al punto di sfiorare la vulnerabilità della libertà d’espressione. Il programma invita a scrutare le audizioni nelle quali vengono rivolti messaggi radicali, siano essi di sostegno alla violenza oppure no, se esistono altri gruppi con le stesse idee che rinneghino la violenza, come si trasmettono i messaggi radicali, ecc.
Scendendo nei dettagli sul controllo individuale, raccomanda d’indagare anche i sentimenti delle persone che militano in gruppi sospetti, attraverso domande come quelle che mirano a conoscere i “sentimenti della persona in relazione alla sua nuova identità collettiva ed ai membri del gruppo” E con domande tipo: “La persona ha fatto commenti su fatti, principalmente di natura politica, usando argomenti basati su messaggi radicali? Ha fatto commenti sulla sua intenzione di prendere parte ad atti violenti?".

In questo modo, l’accordo apre una pericolosa via di persecuzione delle idee, gli argomenti e perfino gli stati d’animo.
La riunione nella quale è stato approvato questo programma di controllo cittadino è stata presieduta dal ministro degli Affari Esteri, Miguel Angel Moratinos, dato che la Spagna ha la Presidenza di turno dell’UE. Ha assisto anche il segretario di Stato dell' UE, Diego Lopez Garrido, così come la maggior parte dei ministri degli Affari Esteri comunitari.

martedì 29 giugno 2010

Antonio Ciano intervistato da Radio 24


Nel corso della trasmissione 24 Mattino di oggi alle ore 8:30 con tema:E' giusto vendere i beni dello Stato per fare cassa?

L'intervento di Antonio Ciano è dal minuto 41:25 al minuto 44:55 e dal minuto 49:56 al minuto 51:42

Il Link con l'intervista :
http://www.radio24.ilsole24ore.com/popup/player.php?filename=promo-24mattino290610.mp3
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Nel corso della trasmissione 24 Mattino di oggi alle ore 8:30 con tema:E' giusto vendere i beni dello Stato per fare cassa?

L'intervento di Antonio Ciano è dal minuto 41:25 al minuto 44:55 e dal minuto 49:56 al minuto 51:42

Il Link con l'intervista :
http://www.radio24.ilsole24ore.com/popup/player.php?filename=promo-24mattino290610.mp3
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OCEANUS incontra Ciccio Merolla


http://www.youtube.com/watch?v=nx6aUu45V5w

Anche il percussionista partenopeo Ciccio Merolla nella battaglia di OCEANUS onlus per scuotere le coscienze, per rivendicare l'ennesimo diritto violato nelle terre campane, il diritto a RESPIRARE!!

Ciccio Merolla è un vero talento, in questo video ci dedica un saggio della sua bravura, nella sua arte c'è tutta la forza dell'estro partenopeo!
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http://www.youtube.com/watch?v=nx6aUu45V5w

Anche il percussionista partenopeo Ciccio Merolla nella battaglia di OCEANUS onlus per scuotere le coscienze, per rivendicare l'ennesimo diritto violato nelle terre campane, il diritto a RESPIRARE!!

Ciccio Merolla è un vero talento, in questo video ci dedica un saggio della sua bravura, nella sua arte c'è tutta la forza dell'estro partenopeo!

Tassa sulle banche, il G20 non trova il coraggio


I Grandi trovano l’accordo per il dimezzamento del deficit entro il 2013 e per la riduzione del debito pubblico entro il 2016. Quanto al sistema finanziario, ogni paese farà da sé. Dure le Ong: “Un’occasione persa per la lotta alla povertà”


L’impegno comune per la riduzione del deficit, sì. Un accordo condiviso per una tassa sulle banche, no. Il G20 di Toronto trova un’intesa di compromesso sui temi della crescita e delle politiche fiscali, ma sul tema della redistribuzione degli oneri e del coinvolgimento del sistema finanziario nella lotta a una recessione da esso stesso creata, il vertice non raggiunge una posizione comune e riconosce che ogni paese farà da sé. “Siamo d’accordo sulla necessità che il sistema finanziario contribuisca in modo equo e sostanziale” ai danni creati, ma “riconosciamo che ci sono una serie di approcci politici diversi” al raggiungimento di questo scopo. È quanto si legge nel comunicato finale del G20, nel quale si precisa che alcuni paesi perseguono la via della leva fiscale, altri differenti strade. Il comunicato finale conferma l’assenza di ogni riferimento a una tassa sulle transazioni finanziarie.

“Le economie avanzate si sono impegnate a favore di piani fiscali che, come minimo, dimezzeranno i disavanzi entro il 2013 e stabilizzeranno o ridurranno, entro il 2016, il rapporto debito pubblico-prodotto interno lordo”. Così nella bozza del comunicato. Stati Uniti e Unione Europea avevano posizioni diverse al riguardo. Da un lato le politiche di contenimento della spesa europee, dall’altro l’appello del presidente Usa Obama a non ostacolare la ripresa economica abbandonando troppo presto i programmi di stimolo. La soluzione trovata è nel mezzo: un dimezzamento del deficit che si comporti, però, in maniera “growth-friendly”.

Sull’altro grande tema in discussione, la tassa sulle banche, una posizione comune invece non c’è. Nella bozza del comunicato finale le 20 principali economie del mondo riconoscono che la riforma del sistema finanziario deve fondarsi su “quattro pilastri”: un robusto quadro di norme, una supervisione che funzioni, una valutazione internazionale trasparente e la ristrutturazione e la risoluzione di “qualsiasi tipologia di istituzione finanziaria in crisi”. Nessun accenno, però, a imposizioni fiscali. “Alcuni paesi hanno scelto la via degli oneri fiscali – si legge - altri invece hanno adottato un’impostazione diversa”. Ma “per risanare il sistema finanziario” il G20 concorda sul fatto che “il settore finanziario debba farsi carico di qualunque onere associato agli interventi pubblici”.

Il G20 ha perso un’occasione d’oro per affrontare la povertà globale, limitandosi a constatare che non c’è accordo su come far pagare il costo della crisi economica alle banche. E’ quanto rilevano le Ong Oxfam e Ucodep. “Dopo che il G8 ha lasciato cadere nel vuoto il suo impegno di aiutare i paesi più poveri, il G20 ha perso l’occasione di ridurre la povertà attraverso l’adozione di una tassa sulle banche”, commenta Farida Bena, portavoce di Oxfam e Ucodep. “Per usare un linguaggio calcistico, i difensori del Canada hanno impedito agli USA e all’Unione Europea di fare goal nella partita più importante per l’Africa. Il G20 avrebbe dovuto applicare una tassa al settore finanziario per dare veramente una mano ai 64 milioni di persone impoverite dalla crisi economica”.

I leader del G20 si sono detti d’accordo sulla necessità che l'attenzione si concentri sulla creazione di occupazione: lo ha assicurato il presidente americano Barack Obama. “Ci assicureremo che le nuove regole non creino scompiglio sui mercati e non rallentino la ripresa” economica, è invece il commento del presidente del Financial Stability Board (Fsb) e governatore della Banca d'Italia Mario Draghi.



Fonte: http://www.rassegna.it/articoli/2010/06/27/64151/tassa-sulle-banche-il-g20-non-trova-il-coraggio
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I Grandi trovano l’accordo per il dimezzamento del deficit entro il 2013 e per la riduzione del debito pubblico entro il 2016. Quanto al sistema finanziario, ogni paese farà da sé. Dure le Ong: “Un’occasione persa per la lotta alla povertà”


L’impegno comune per la riduzione del deficit, sì. Un accordo condiviso per una tassa sulle banche, no. Il G20 di Toronto trova un’intesa di compromesso sui temi della crescita e delle politiche fiscali, ma sul tema della redistribuzione degli oneri e del coinvolgimento del sistema finanziario nella lotta a una recessione da esso stesso creata, il vertice non raggiunge una posizione comune e riconosce che ogni paese farà da sé. “Siamo d’accordo sulla necessità che il sistema finanziario contribuisca in modo equo e sostanziale” ai danni creati, ma “riconosciamo che ci sono una serie di approcci politici diversi” al raggiungimento di questo scopo. È quanto si legge nel comunicato finale del G20, nel quale si precisa che alcuni paesi perseguono la via della leva fiscale, altri differenti strade. Il comunicato finale conferma l’assenza di ogni riferimento a una tassa sulle transazioni finanziarie.

“Le economie avanzate si sono impegnate a favore di piani fiscali che, come minimo, dimezzeranno i disavanzi entro il 2013 e stabilizzeranno o ridurranno, entro il 2016, il rapporto debito pubblico-prodotto interno lordo”. Così nella bozza del comunicato. Stati Uniti e Unione Europea avevano posizioni diverse al riguardo. Da un lato le politiche di contenimento della spesa europee, dall’altro l’appello del presidente Usa Obama a non ostacolare la ripresa economica abbandonando troppo presto i programmi di stimolo. La soluzione trovata è nel mezzo: un dimezzamento del deficit che si comporti, però, in maniera “growth-friendly”.

Sull’altro grande tema in discussione, la tassa sulle banche, una posizione comune invece non c’è. Nella bozza del comunicato finale le 20 principali economie del mondo riconoscono che la riforma del sistema finanziario deve fondarsi su “quattro pilastri”: un robusto quadro di norme, una supervisione che funzioni, una valutazione internazionale trasparente e la ristrutturazione e la risoluzione di “qualsiasi tipologia di istituzione finanziaria in crisi”. Nessun accenno, però, a imposizioni fiscali. “Alcuni paesi hanno scelto la via degli oneri fiscali – si legge - altri invece hanno adottato un’impostazione diversa”. Ma “per risanare il sistema finanziario” il G20 concorda sul fatto che “il settore finanziario debba farsi carico di qualunque onere associato agli interventi pubblici”.

Il G20 ha perso un’occasione d’oro per affrontare la povertà globale, limitandosi a constatare che non c’è accordo su come far pagare il costo della crisi economica alle banche. E’ quanto rilevano le Ong Oxfam e Ucodep. “Dopo che il G8 ha lasciato cadere nel vuoto il suo impegno di aiutare i paesi più poveri, il G20 ha perso l’occasione di ridurre la povertà attraverso l’adozione di una tassa sulle banche”, commenta Farida Bena, portavoce di Oxfam e Ucodep. “Per usare un linguaggio calcistico, i difensori del Canada hanno impedito agli USA e all’Unione Europea di fare goal nella partita più importante per l’Africa. Il G20 avrebbe dovuto applicare una tassa al settore finanziario per dare veramente una mano ai 64 milioni di persone impoverite dalla crisi economica”.

I leader del G20 si sono detti d’accordo sulla necessità che l'attenzione si concentri sulla creazione di occupazione: lo ha assicurato il presidente americano Barack Obama. “Ci assicureremo che le nuove regole non creino scompiglio sui mercati e non rallentino la ripresa” economica, è invece il commento del presidente del Financial Stability Board (Fsb) e governatore della Banca d'Italia Mario Draghi.



Fonte: http://www.rassegna.it/articoli/2010/06/27/64151/tassa-sulle-banche-il-g20-non-trova-il-coraggio
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E ora Dimissioni, oppure un Ministero......

Senatore Dell'Utri condannato a sette anni. Per concorso esterno in associazione mafiosa

PALERMO - Il senatore Marcello Dell'Utri e' stato condannato a sette anni di reclusione dai giudici della seconda sezione della Corte d'Appello di Palermo, per concorso esterno in associazione mafiosa. In primo grado al parlamentare del Pdl erano stati inflitti nove anni di reclusione.


La corte, riformando la sentenza di primo grado, ha invece assolto Dell'Utri limitatamente alle condotte contestate come commesse in epoca successiva al 1992 perche' ''il fatto non sussiste'', riducendo cosi' la pena da nove a sette anni di reclusione.

I giudici della seconda sezione della corte d'appello hanno infine dichiarato il non doversi procedere nei confronti dell'altro imputato, Gaetano Cina', che frattanto e' deceduto. La sentenza e' stata pronunciata dopo sei giorni di camera di consiglio. Il Pg Antonino Gatto aveva chiesto la condanna di Dell'Utri a 11 anni di reclusione.

Fonte: http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2010/06/28/visualizza_new.html_1847510190.html
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Senatore Dell'Utri condannato a sette anni. Per concorso esterno in associazione mafiosa

PALERMO - Il senatore Marcello Dell'Utri e' stato condannato a sette anni di reclusione dai giudici della seconda sezione della Corte d'Appello di Palermo, per concorso esterno in associazione mafiosa. In primo grado al parlamentare del Pdl erano stati inflitti nove anni di reclusione.


La corte, riformando la sentenza di primo grado, ha invece assolto Dell'Utri limitatamente alle condotte contestate come commesse in epoca successiva al 1992 perche' ''il fatto non sussiste'', riducendo cosi' la pena da nove a sette anni di reclusione.

I giudici della seconda sezione della corte d'appello hanno infine dichiarato il non doversi procedere nei confronti dell'altro imputato, Gaetano Cina', che frattanto e' deceduto. La sentenza e' stata pronunciata dopo sei giorni di camera di consiglio. Il Pg Antonino Gatto aveva chiesto la condanna di Dell'Utri a 11 anni di reclusione.

Fonte: http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2010/06/28/visualizza_new.html_1847510190.html

Forza Argentina !!! Omaggio ai Fratelli Compatroti emigrati in Argentina.


http://www.youtube.com/watch?v=DyQ0ErNrFTk
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http://www.youtube.com/watch?v=DyQ0ErNrFTk

Impianto ENI di Viggiano: una nube di fumo si è propagata per la valle dell’Agri

Ritorna la paura e lo spavento nell'area limitrofa del centro Olio. Emissioni di fumo nero e forte odore di zolfo. Ancora una volta a raccontare un episodio di preoccupazione è Pasquale Zupone. «E' l'ennesimo - ci dice appena lo incontriamo davanti alla struttura petrolifera - Erano le 21 e 20 (di mercoledì sera) quando per caso mi sono affacciato fuori l'abitazione - distante dal Centro Oli meno di trecento metri - e immediatamente ho sentito un forte odore di zolfo, ho rivolto lo sguardo verso il centro olio e ho notato una fumata gialla e grigia chefuoriusciva da uno dei camini della zona dove avviene las eparazione dello zolfo, la zona più pericolosa. Questo è un episodio - ci spiega - che si è verificato già nei mesi passati. Dopo qualche ora, verso le 22 e 40 circa, c'e stato come sempre l'innalzamento della fiaccola, più grande anche di quel “camino” che si trova affianco, con emissioni di fumo nero e un forte odore di gas di H2S, gas nocivo alla salute». E mentre ci mostra le foto scattate in concomitanza dell'episodio, lancia un appello a chi effettua il monitoraggio ambientale, «mi rivolgo a chi deve controllare - sottolinea - come mai non ci sono valori fuori dalla norma? Al di sotto si ma al di sopra mai? Io poi mi rivolgo ancora una volta alla nostra amministrazione quando si decide a prendere provvedimenti verso questi “signori”, chiamati Eni. Soltanto quando si va a finire sulla stampa o in televisione, che sopraggiungono le promesse di provvedimenti. Ed il giorno dopo va tutto nel dimenticatoio. Noi viviamo in questa cupola di veleno. Non solo all'amministrazione- aggiunge Zupone nel suo appello ma anche al presidente De Filippo che parla così bene della risorsa del petrolio. Penso che questa risorsa fa bene solo agli amministratori. Io voglio dire solo una cosa: bisogna dare una mano a noi cittadini che viviamo in questo inferno». Insomma per chi vive, ormai, nelle vicinanze del Centro Oli è diventata un “impresa” come evidenzia anche un altro signore Pancrazio Iannella, la sua casa è situata di fronte al Centro Oli. Per lui e sua moglie “i rumori, le vibrazioni, gli odori e la costante illuminazione della fiaccola, sono ormai diventati un tutt´'uno con la loro vita, insieme, naturalmente alla paura e alle forti preoccupazione di quest'odore di zolfo”. Sono oltre cinquanta le famiglie che vi risiedono. Oltre a far da padrone nella zona il forte odore nauseante dei gas che bruciano, il rumore costante e un illuminazione perenne della fiaccola, accesa per bruciare i gas di scarico.

Angela Pepe - Il Quotidiano della Basilicata


Fonte: Gazzetta della Val D'Agri

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Ritorna la paura e lo spavento nell'area limitrofa del centro Olio. Emissioni di fumo nero e forte odore di zolfo. Ancora una volta a raccontare un episodio di preoccupazione è Pasquale Zupone. «E' l'ennesimo - ci dice appena lo incontriamo davanti alla struttura petrolifera - Erano le 21 e 20 (di mercoledì sera) quando per caso mi sono affacciato fuori l'abitazione - distante dal Centro Oli meno di trecento metri - e immediatamente ho sentito un forte odore di zolfo, ho rivolto lo sguardo verso il centro olio e ho notato una fumata gialla e grigia chefuoriusciva da uno dei camini della zona dove avviene las eparazione dello zolfo, la zona più pericolosa. Questo è un episodio - ci spiega - che si è verificato già nei mesi passati. Dopo qualche ora, verso le 22 e 40 circa, c'e stato come sempre l'innalzamento della fiaccola, più grande anche di quel “camino” che si trova affianco, con emissioni di fumo nero e un forte odore di gas di H2S, gas nocivo alla salute». E mentre ci mostra le foto scattate in concomitanza dell'episodio, lancia un appello a chi effettua il monitoraggio ambientale, «mi rivolgo a chi deve controllare - sottolinea - come mai non ci sono valori fuori dalla norma? Al di sotto si ma al di sopra mai? Io poi mi rivolgo ancora una volta alla nostra amministrazione quando si decide a prendere provvedimenti verso questi “signori”, chiamati Eni. Soltanto quando si va a finire sulla stampa o in televisione, che sopraggiungono le promesse di provvedimenti. Ed il giorno dopo va tutto nel dimenticatoio. Noi viviamo in questa cupola di veleno. Non solo all'amministrazione- aggiunge Zupone nel suo appello ma anche al presidente De Filippo che parla così bene della risorsa del petrolio. Penso che questa risorsa fa bene solo agli amministratori. Io voglio dire solo una cosa: bisogna dare una mano a noi cittadini che viviamo in questo inferno». Insomma per chi vive, ormai, nelle vicinanze del Centro Oli è diventata un “impresa” come evidenzia anche un altro signore Pancrazio Iannella, la sua casa è situata di fronte al Centro Oli. Per lui e sua moglie “i rumori, le vibrazioni, gli odori e la costante illuminazione della fiaccola, sono ormai diventati un tutt´'uno con la loro vita, insieme, naturalmente alla paura e alle forti preoccupazione di quest'odore di zolfo”. Sono oltre cinquanta le famiglie che vi risiedono. Oltre a far da padrone nella zona il forte odore nauseante dei gas che bruciano, il rumore costante e un illuminazione perenne della fiaccola, accesa per bruciare i gas di scarico.

Angela Pepe - Il Quotidiano della Basilicata


Fonte: Gazzetta della Val D'Agri

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lunedì 28 giugno 2010

L'Italia di Berlusconi Tasse e debito pubblico più alti d'Europa


Il debito pubblico in Italia e' sempre il piu' alto in Europa: nel 2009, in rapporto al Pil, dopo il calo rilevato nel 2007, ha proseguito la crescita gia' registrata nel 2008, aumentando di quasi 10 punti percentuali rispetto all'anno precedente e attestandosi al 115,8%, valore molto prossimo a quelli rilevati alla fine degli anni '90. Nel confronto con i paesi dell'Ue, lo stock di debito pubblico
italiano in percentuale al Pil continua ad essere il piu' alto, a fronte del 73,6% rilevato in media Ue-27). E' quanto sostiene l'Istat che ha diffuso oggi informazioni dettagliate sui conti economici e i principali aggregati annuali del settore delle Amministrazioni pubbliche.

Questi i dati principali, segnalati dall'Istat: deficit/Pil 2009 quasi raddoppiato rispetto all'anno precedente (si e' passati dal 2,7% al 5,3%). In valore assoluto, l'indebitamento risulta pari a 80.800 milioni di euro, maggiore di 38.225 milioni di euro rispetto al 2008.
Non solo, nel 2009 il saldo primario (indebitamento al netto della spesa per interessi) del nostro paese e' risultato negativo (-0,6% del Pil), in calo del 3,1% rispetto al 2008. Grazie alla riduzione dei tassi d'interesse, e' diminuita anche l'incidenza degli interessi passivi sul Pil, pari al 4,7% (5,2% nel 2008). Anche il saldo delle partite correnti e' stato negativo: il disavanzo e' pari a 31.129 milioni di euro, con un peggioramento rispetto all'anno precedente di 43.216 milioni di euro. In rapporto al Pil il saldo e' sceso attestandosi al -2%, per effetto della dinamica della crescita delle uscite correnti (2,3%) e del calo delle entrate correnti (-3,6%). E' cresciuta invece la spesa pubblica complessiva del 3,1%, evidenziando una decelerazione rispetto al 2008 (+3,6%). La sua incidenza sul Pil e' aumentata, passando dal 49,4% nel 2008 al 52,5%. Nell'ambito delle spese correnti, continua l'Istat, i
redditi da lavoro dipendente (che incidono per circa un quinto sul totale delle uscite) sono saliti, in Italia, dell'1,0%, con un ritmo molto inferiore rispetto al 2008 (3,6%). Le spese per consumi intermedi hanno registrato un aumento del 7,5%, proseguendo la tendenza degli anni precedenti; le prestazioni sociali in natura, che includono prevalentemente le spese per assistenza sanitaria in convenzione, sono aumentate del 4,0%.
Di conseguenza, la spesa per consumi finali delle Amministrazioni pubbliche e' aumentata del 3,3%, in rallentamento rispetto alla crescita del 4,3% del 2008.

La pressione fiscale aumenta e l'Italia è quinta nell'Unione europea per il peso delle tasse. Lo rileva l'Istat, secondo cui nel 2009 la pressione fiscale complessiva rispetto al Pil è passata al 43,2%, dal 42,9% dell'anno prima. Nella classifica europea dell'incidenza sul Pil del prelievo tributario e contributivo, l'Italia si piazza quindi al quinto posto (insieme alla Francia), preceduta da Danimarca (49%), Svezia (47,8%), Belgio (45,3%) e Austria (43,8%). I valori più bassi sono invece in Lettonia (26,5%), Romania (28%), Slovacchia e Irlanda (29,1%). L'aumento della pressione fiscale in Italia, spiega l'istituto di statistica, "è l'effetto di una riduzione del Pil superiore a quella complessiva del gettito fiscale e parafiscale, la cui dinamica negativa (-2,3%) è stata attenuata da quella, in forte aumento, delle imposte di carattere straordinario (imposte in conto capitale), cresciute in valore assoluto di quasi 12 miliardi". Infatti, fra le imposte straordinarie sono classificati i prelievi operati in base allo scudo fiscale, per
un importo di circa 5 miliardi, e i versamenti una tantum dell'imposta sostitutiva dei tributi, che hanno interessato alcuni settori dell'economia, in particolare quello bancario. Tutte le altre componenti del prelievo fiscale, conclude l'Istat, sono risultate in calo: le imposte indirette del 4,2% (dopo essere diminuite già del 4,9% nel 2008), le imposte dirette del 7,1% e i contributi sociali effettivi dello 0,5%. La flessione delle imposte dirette è dovuta essenzialmente al calo del gettito Ires (-23,1%) rispetto al 2008, mentre quella delle imposte indirette ha risentito delle significative diminuzioni del gettito dell'Iva (-6,7%) e dell'Irap (-13%).

Fonte:L'Unità

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Il debito pubblico in Italia e' sempre il piu' alto in Europa: nel 2009, in rapporto al Pil, dopo il calo rilevato nel 2007, ha proseguito la crescita gia' registrata nel 2008, aumentando di quasi 10 punti percentuali rispetto all'anno precedente e attestandosi al 115,8%, valore molto prossimo a quelli rilevati alla fine degli anni '90. Nel confronto con i paesi dell'Ue, lo stock di debito pubblico
italiano in percentuale al Pil continua ad essere il piu' alto, a fronte del 73,6% rilevato in media Ue-27). E' quanto sostiene l'Istat che ha diffuso oggi informazioni dettagliate sui conti economici e i principali aggregati annuali del settore delle Amministrazioni pubbliche.

Questi i dati principali, segnalati dall'Istat: deficit/Pil 2009 quasi raddoppiato rispetto all'anno precedente (si e' passati dal 2,7% al 5,3%). In valore assoluto, l'indebitamento risulta pari a 80.800 milioni di euro, maggiore di 38.225 milioni di euro rispetto al 2008.
Non solo, nel 2009 il saldo primario (indebitamento al netto della spesa per interessi) del nostro paese e' risultato negativo (-0,6% del Pil), in calo del 3,1% rispetto al 2008. Grazie alla riduzione dei tassi d'interesse, e' diminuita anche l'incidenza degli interessi passivi sul Pil, pari al 4,7% (5,2% nel 2008). Anche il saldo delle partite correnti e' stato negativo: il disavanzo e' pari a 31.129 milioni di euro, con un peggioramento rispetto all'anno precedente di 43.216 milioni di euro. In rapporto al Pil il saldo e' sceso attestandosi al -2%, per effetto della dinamica della crescita delle uscite correnti (2,3%) e del calo delle entrate correnti (-3,6%). E' cresciuta invece la spesa pubblica complessiva del 3,1%, evidenziando una decelerazione rispetto al 2008 (+3,6%). La sua incidenza sul Pil e' aumentata, passando dal 49,4% nel 2008 al 52,5%. Nell'ambito delle spese correnti, continua l'Istat, i
redditi da lavoro dipendente (che incidono per circa un quinto sul totale delle uscite) sono saliti, in Italia, dell'1,0%, con un ritmo molto inferiore rispetto al 2008 (3,6%). Le spese per consumi intermedi hanno registrato un aumento del 7,5%, proseguendo la tendenza degli anni precedenti; le prestazioni sociali in natura, che includono prevalentemente le spese per assistenza sanitaria in convenzione, sono aumentate del 4,0%.
Di conseguenza, la spesa per consumi finali delle Amministrazioni pubbliche e' aumentata del 3,3%, in rallentamento rispetto alla crescita del 4,3% del 2008.

La pressione fiscale aumenta e l'Italia è quinta nell'Unione europea per il peso delle tasse. Lo rileva l'Istat, secondo cui nel 2009 la pressione fiscale complessiva rispetto al Pil è passata al 43,2%, dal 42,9% dell'anno prima. Nella classifica europea dell'incidenza sul Pil del prelievo tributario e contributivo, l'Italia si piazza quindi al quinto posto (insieme alla Francia), preceduta da Danimarca (49%), Svezia (47,8%), Belgio (45,3%) e Austria (43,8%). I valori più bassi sono invece in Lettonia (26,5%), Romania (28%), Slovacchia e Irlanda (29,1%). L'aumento della pressione fiscale in Italia, spiega l'istituto di statistica, "è l'effetto di una riduzione del Pil superiore a quella complessiva del gettito fiscale e parafiscale, la cui dinamica negativa (-2,3%) è stata attenuata da quella, in forte aumento, delle imposte di carattere straordinario (imposte in conto capitale), cresciute in valore assoluto di quasi 12 miliardi". Infatti, fra le imposte straordinarie sono classificati i prelievi operati in base allo scudo fiscale, per
un importo di circa 5 miliardi, e i versamenti una tantum dell'imposta sostitutiva dei tributi, che hanno interessato alcuni settori dell'economia, in particolare quello bancario. Tutte le altre componenti del prelievo fiscale, conclude l'Istat, sono risultate in calo: le imposte indirette del 4,2% (dopo essere diminuite già del 4,9% nel 2008), le imposte dirette del 7,1% e i contributi sociali effettivi dello 0,5%. La flessione delle imposte dirette è dovuta essenzialmente al calo del gettito Ires (-23,1%) rispetto al 2008, mentre quella delle imposte indirette ha risentito delle significative diminuzioni del gettito dell'Iva (-6,7%) e dell'Irap (-13%).

Fonte:L'Unità

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Saviano a El Pais: “L’Italia è un paese cattivo, sto pensando di andarmene”

Lo scrittore in un’intervista rivela che potrebbe trasferirsi all’estero: “Per la gente il nemico non è il sistema, ma chi lo combatte”. “Italia es un paìs malvado para vivir”: Roberto Saviano, in un’intervista a Lola Galan del Pais, si sfoga dopo le polemiche degli ultimi mesi sul suo ruolo di saviano33 1 Saviano a El Pais: LItalia è un paese cattivo, sto pensando di andarmenescrittore antimafia e sulle polemiche con Berlusconi, senza mai nominarlo. Ma soprattutto, rivela di aver voglia di andarsene via: “Qui se hai un lavoro, o se riesci nella vita, la gente pensa che tu sia un raccomandato. E si vivono troppi anni senza avere i diritti garantiti”.

VIVERE SOTTO SCORTA - L’articolo comincia ricordando i cinque milioni di copie vendute del suo romanzo Gomorra, e la sua vita sotto scorta: “E’ il prezzo del successo. Sono usciti molti libri in Italia sulla Mafia, alcuni di alta qualità, ma la differenza è che la mia storia ha avuto un successo enorme. In caso contrario, nulla sarebbe accaduto. A volte penso che sto pagando un prezzo alto, ma perché continuo a scrivere. Non voglio diventare un “mafiologo” o un simbolo che viaggia il mondo per testimoniare. Non ho nemmeno paura di morire: ho parlato della mia morte così tante volte che ormai mi sembra una cosa che non mi riguarda. Ho paura di continuare a dover vivere così”. Cioè, sotto scorta e minacciato, in continuo pericolo di vita.

ANDARSENE DALL’ITALIA? – Tanto che Saviano dice anche di star cominciando a pensare di cambiare paese. “Sto pensando di andarmene. Spagnoli e francesi vedono l’Italia come un paese pieno di belle donne e bei paesaggi, ma non è così: in Italia si vive male, è un paese ‘feroce’”. Perché? “Perché qui in Italia se sei perseguitato da un sistema, prima o poi la gente comincia a pensare che tu stia facendo la vittima. Per la gente il nemico non è il sistema, ma l’individuo che è riuscito a fare qualcosa nella vita. Se lavori, si chiedono chi ti ha raccomandato. Se lavori in televisione, pensano che qualcuno ti ci ha ‘infilato’. E nell’80% dei casi è così, ma la gente si sente legittimata a pensare che questo accada sempre. E’ la nostra frustazione”.

IL PROBLEMA DEL PAESE – Saviano ritiene poi che abbia più impatto sulla vita dei singoli i vizi endemici dei paesi. Nel caso dell’Italia sarebbe la mancanza endemica del rinnovamento. “Se si guarda una politica francese, inglese o spagnola, ogni 10 anni ci sono facce nuove. In Italia, no. Ci sono paesi come la Romania, la Macedonia, Serbia e Grecia, che hanno la medesima politica dal10 anni. Ma nessun altro paese ha gli stessi politici stessi per 20 anni, come capita da noi”.


Fonte: Giornalettismo

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Lo scrittore in un’intervista rivela che potrebbe trasferirsi all’estero: “Per la gente il nemico non è il sistema, ma chi lo combatte”. “Italia es un paìs malvado para vivir”: Roberto Saviano, in un’intervista a Lola Galan del Pais, si sfoga dopo le polemiche degli ultimi mesi sul suo ruolo di saviano33 1 Saviano a El Pais: LItalia è un paese cattivo, sto pensando di andarmenescrittore antimafia e sulle polemiche con Berlusconi, senza mai nominarlo. Ma soprattutto, rivela di aver voglia di andarsene via: “Qui se hai un lavoro, o se riesci nella vita, la gente pensa che tu sia un raccomandato. E si vivono troppi anni senza avere i diritti garantiti”.

VIVERE SOTTO SCORTA - L’articolo comincia ricordando i cinque milioni di copie vendute del suo romanzo Gomorra, e la sua vita sotto scorta: “E’ il prezzo del successo. Sono usciti molti libri in Italia sulla Mafia, alcuni di alta qualità, ma la differenza è che la mia storia ha avuto un successo enorme. In caso contrario, nulla sarebbe accaduto. A volte penso che sto pagando un prezzo alto, ma perché continuo a scrivere. Non voglio diventare un “mafiologo” o un simbolo che viaggia il mondo per testimoniare. Non ho nemmeno paura di morire: ho parlato della mia morte così tante volte che ormai mi sembra una cosa che non mi riguarda. Ho paura di continuare a dover vivere così”. Cioè, sotto scorta e minacciato, in continuo pericolo di vita.

ANDARSENE DALL’ITALIA? – Tanto che Saviano dice anche di star cominciando a pensare di cambiare paese. “Sto pensando di andarmene. Spagnoli e francesi vedono l’Italia come un paese pieno di belle donne e bei paesaggi, ma non è così: in Italia si vive male, è un paese ‘feroce’”. Perché? “Perché qui in Italia se sei perseguitato da un sistema, prima o poi la gente comincia a pensare che tu stia facendo la vittima. Per la gente il nemico non è il sistema, ma l’individuo che è riuscito a fare qualcosa nella vita. Se lavori, si chiedono chi ti ha raccomandato. Se lavori in televisione, pensano che qualcuno ti ci ha ‘infilato’. E nell’80% dei casi è così, ma la gente si sente legittimata a pensare che questo accada sempre. E’ la nostra frustazione”.

IL PROBLEMA DEL PAESE – Saviano ritiene poi che abbia più impatto sulla vita dei singoli i vizi endemici dei paesi. Nel caso dell’Italia sarebbe la mancanza endemica del rinnovamento. “Se si guarda una politica francese, inglese o spagnola, ogni 10 anni ci sono facce nuove. In Italia, no. Ci sono paesi come la Romania, la Macedonia, Serbia e Grecia, che hanno la medesima politica dal10 anni. Ma nessun altro paese ha gli stessi politici stessi per 20 anni, come capita da noi”.


Fonte: Giornalettismo

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Insieme per la rinascita: iniziative contro le offese dei leghisti ai meridionali


POLITICA | Napoli
- Il giorno 26 Giugno presso lo storico bar Gambrinus l'associazione Insieme per la rinascita ha partecipato a una manifestazione promossa da Francesco Emilio Borrelli, Coordinatore Regionale dei Verdi, che contestava la presenza del Ministro leghista Maroni a Napoli. La protesta voleva sottolineare il dissenso della popolazione meridionale dopo le frasi offensive lanciate al congresso della Lega a Pontida. Per questo molti imprenditori napoletani, tra cui Mario Sorbillo, titolare dell'omonima pizzeria, e Marco Ferrigno, artigiano di pastori; hanno affisso presso i loro esercizi commerciali un cartello con la seguente dicitura: "dopo gli insulti contro i napoletani in questo locale non sono graditi i leghisti". Alla stessa manifestazione i ragazzi di Insieme per la rinascita hanno divulgato alcuni progetti di cui l'associazione si sta occupando. La prima iniziativa dal titolo emblematico: "Compra Sud", in collaborazione con il Partito del Sud, vuole sensibilizzare i cittadini meridionali a comprare preferibilmente alimenti prodotti al Sud Italia; questo col fine di arginare gli effetti negativi del federalismo fiscale in merito al pagamento delle tasse presso la regione in cui ha sede legale l'impresa. Inoltre è stato presentato un dossier riguardante alcuni sprechi di denaro pubblico delle amministrazioni leghiste ed in particolare quelle del Veneto.

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POLITICA | Napoli
- Il giorno 26 Giugno presso lo storico bar Gambrinus l'associazione Insieme per la rinascita ha partecipato a una manifestazione promossa da Francesco Emilio Borrelli, Coordinatore Regionale dei Verdi, che contestava la presenza del Ministro leghista Maroni a Napoli. La protesta voleva sottolineare il dissenso della popolazione meridionale dopo le frasi offensive lanciate al congresso della Lega a Pontida. Per questo molti imprenditori napoletani, tra cui Mario Sorbillo, titolare dell'omonima pizzeria, e Marco Ferrigno, artigiano di pastori; hanno affisso presso i loro esercizi commerciali un cartello con la seguente dicitura: "dopo gli insulti contro i napoletani in questo locale non sono graditi i leghisti". Alla stessa manifestazione i ragazzi di Insieme per la rinascita hanno divulgato alcuni progetti di cui l'associazione si sta occupando. La prima iniziativa dal titolo emblematico: "Compra Sud", in collaborazione con il Partito del Sud, vuole sensibilizzare i cittadini meridionali a comprare preferibilmente alimenti prodotti al Sud Italia; questo col fine di arginare gli effetti negativi del federalismo fiscale in merito al pagamento delle tasse presso la regione in cui ha sede legale l'impresa. Inoltre è stato presentato un dossier riguardante alcuni sprechi di denaro pubblico delle amministrazioni leghiste ed in particolare quelle del Veneto.

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Zaia contro i meridionalisti.

A DISTANZA DI POCHE ORE DALLA PROTESTA CONTRO LA LEGA IL MINISTRO ZAIA, GRAN PENSATORE CHE HA CONTRIBUITO A FOTTERSI I FONDI FAS DEL MEZZOGIORNO PER PAGARE LE QUOTE LATTE AI COLTIVATORI PADANI, SI PREOCCUPA (FORSE GLI BRUCIA QUALCOSA!), DI RISPONDERE STIZZITO!


Alle proteste dei cartelli contro i leghisti poco graditi, esposti da oltre 100 esercizi napoletani, alla distribuzione e visione dei nostri volantini (Partito del Sud + Insieme per la Rinascita) che invitano a comprare prodotti del Sud contro l'avvento del loro taroccato federalismo - portati e fatti visionare alla stampa dai ragazzi di Insieme per la Rinascita nella riunione di ieri Sabato 26 allo storico Bar Gambrinus di Napoli - il ministro (sic!) s'è preoccupato di appellare il tutto come "struggenti sciocchezze" invitando i gruppi meridionalisti ad andare a lavorare, meravigliandosi della nostra non comprensione alla loro magna proposta di federalismo!

Che Zaia fosse poca cosa e un ignorante non ci meraviglia : del resto se no che leghista sarebbe? Diamine...un minimo di coerenza! Un vero leghista è tale se fedele al suo ruolo di : duro di comprendonio, fermamente con una interessata visione solo nordcentrica, mediamente coglione e saldamente ignorante!

Complimenti ministro : Lei è un vero leghista!

Andrea Balìa


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A DISTANZA DI POCHE ORE DALLA PROTESTA CONTRO LA LEGA IL MINISTRO ZAIA, GRAN PENSATORE CHE HA CONTRIBUITO A FOTTERSI I FONDI FAS DEL MEZZOGIORNO PER PAGARE LE QUOTE LATTE AI COLTIVATORI PADANI, SI PREOCCUPA (FORSE GLI BRUCIA QUALCOSA!), DI RISPONDERE STIZZITO!


Alle proteste dei cartelli contro i leghisti poco graditi, esposti da oltre 100 esercizi napoletani, alla distribuzione e visione dei nostri volantini (Partito del Sud + Insieme per la Rinascita) che invitano a comprare prodotti del Sud contro l'avvento del loro taroccato federalismo - portati e fatti visionare alla stampa dai ragazzi di Insieme per la Rinascita nella riunione di ieri Sabato 26 allo storico Bar Gambrinus di Napoli - il ministro (sic!) s'è preoccupato di appellare il tutto come "struggenti sciocchezze" invitando i gruppi meridionalisti ad andare a lavorare, meravigliandosi della nostra non comprensione alla loro magna proposta di federalismo!

Che Zaia fosse poca cosa e un ignorante non ci meraviglia : del resto se no che leghista sarebbe? Diamine...un minimo di coerenza! Un vero leghista è tale se fedele al suo ruolo di : duro di comprendonio, fermamente con una interessata visione solo nordcentrica, mediamente coglione e saldamente ignorante!

Complimenti ministro : Lei è un vero leghista!

Andrea Balìa


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Sud: Il fuoco anti-baionette


Di Lino Patruno

Fini dice che la Padania non esiste, e le camice verdi della Lega Nord diventano verdi di rabbia. Il giorno dopo Pontida, un sacrilegio. E proprio mentre, dopo vent’anni di promesse e di insulti a "Roma ladrona", al tricolore nel cesso, dopo il "Va’ pensiero" invece di Mameli e il Sud parassita, il popolo dagli elmi cornuti comincia ad essere impaziente. Quando si fa il federalismo, quando ci teniamo tutti i nostri soldi pur approfittando di un Paese che va avanti anche con i soldi degli altri?

Castelli, uno competente ma con la lingua biforcuta, torna a minacciare che senza federalismo ci sarà la secessione, se ne vanno dall’Italia alla faccia dell’Unità. Non lo faranno perché non gli conviene, e questo aumenta la loro rabbia. Gli elmi cornuti rischiano di rivoltarsi contro chi li ha eccitati. Sarebbe una scena da fantapolitica un Bossi in fuga bersagliato di monetine.

Ma Bossi è scafato quanto folkloristico. Ha capito che in mezzo a questa crisi, il federalismo avrebbe un costo incompatibile con i sacrific imposti alla gente. Anche se lo fanno passare per il rimedio a tutti i mali. E non parliamo del Sud, dove potrebbe essere sommossa. Però al di là della tempesta attuale, tutti sanno ma nessuno ammette che appunto il federalismo costa, non fosse altro perché, invece di passare dallo Stato alle Regioni, le funzioni e gli addetti raddoppieranno. E aumenteranno le tasse, anzi già Tremonti ha detto ai Comuni di farsene una loro sulla casa. E con quello sfacelo delle Regioni poi. Mentre Berlusconi non può rischiare di perdere i voti del Sud, che bilanciano quelli che la Lega gli toglie al Nord.

In questo ambientino ci mancava il nuovo ministro al federalismo Brancher, forse fatto per metterlo al riparo da un processo. Ma che irrita tanto Bossi da fargli muggire che il federalismo sono lui e Calderoli e non si discute. Tre ministri per un federalismo non ancora nato: primo esempio di quanto costerà. E mentre non ci sarebbero neanche i soldi per emanare i regolamenti. E non solo ora che per evitare la bancarotta Tremonti ci taglia di tutto, tranne i patrimoni di chi evade le tasse e guadagnerebbe meno del suo operaio.

Mentre non c’è categoria che non scioperi. E si evadono le tasse anche perché sono troppo alte, ma sono troppo alte perché si evade. Tanto a pagare per tutti ci sono quei fessi dei lavoratori dipendenti. Il federalismo è un lusso da egoisti del Nord in un’Italia con un debito pubblico e un divario economico in cui solo lo sviluppo del Sud potrà salvare tutti. Un incompleto sviluppo del Sud che è la base e il motore della ricchezza del Nord, ecco perché nessuna fa nulla per rimediare, anzi si fa di tutto per non cambiare. Tranne dire che parassita è il Sud: primo caso mondiale in cui parassita non è chi sfrutta ma chi è sfruttato. È avvenuto grazie a 150 anni di decisioni economiche tutte imposte dal Nord. E con i soldi dati al Sud che sono sempre tornati al Nord. Completato il misfatto, con la complicità di un Sud stavolta sí parassita e infingardo. Bossi dice: su questo nostro privilegio piantiamo un federalismo in cui ciascuno si tiene il suo. Bravo.

Se proprio Bossi non avesse voluto più dare, come sostiene, i suoi soldi al Sud, avrebbe dovuto dire: sviluppiamo il Sud dopo averlo sfruttato da sempre. Ma chi ha un euro lo investe al Sud perché non rende. E non rende perché manca ciò che può farlo rendere, dalle strade veloci che colleghino con l’Europa alla pubblica amministrazione che spia fare un progetto. Ciò che appunto serve al Sud, ma potrebbe farlo diventare un pericoloso concorrente per il Nord.

Allora no, meglio il federalismo, si governino da sé e vadano per la loro strada. Così l’euro sarà sempre investito al Nord. Tanto laggiú ormai dipendono troppo dai nostri prodotti da potervi rinunciare.

I meridionali che subiscono senza muovere un dito dovrebbero sapere tutto ciò. Ma opporre qualcos’altro al federalismo. E non aspettare che comunque arrivino altri soldi come sempre, senza che ci siano mai le condizioni perché davvero si possa fare da soli: partendo però da parità di condizioni, non da 150 anni di forzato ritardo.

Invece niente, o quasi. Meno che mai dai politici, sempre timorosi di parlare di Sud come se fosse una parolaccia. O forse altrettanto interessati a non far muovere nulla per continuare a gestire quattro miserabili denari e incassare voti. Ma i quattro denari sono sempre meno, come i tagli a Regioni e Comuni dimostrano. È il momento di rottura anche di questo truffaldino equilibrio. E quando mancheranno gli asili per i bambini e l’assistenza agli anziani, non è detto che il fuoco del Sud non si accenda. Forse non piú con una di quelle fiammate cenciose alla "boia chi molla", due promesse, qualche mezza assunzione e tutto come prima. Stavolta il fuoco al Sud non sarebbe una bell’aria, altro che dieci milioni di baionette, al Nord.

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Di Lino Patruno

Fini dice che la Padania non esiste, e le camice verdi della Lega Nord diventano verdi di rabbia. Il giorno dopo Pontida, un sacrilegio. E proprio mentre, dopo vent’anni di promesse e di insulti a "Roma ladrona", al tricolore nel cesso, dopo il "Va’ pensiero" invece di Mameli e il Sud parassita, il popolo dagli elmi cornuti comincia ad essere impaziente. Quando si fa il federalismo, quando ci teniamo tutti i nostri soldi pur approfittando di un Paese che va avanti anche con i soldi degli altri?

Castelli, uno competente ma con la lingua biforcuta, torna a minacciare che senza federalismo ci sarà la secessione, se ne vanno dall’Italia alla faccia dell’Unità. Non lo faranno perché non gli conviene, e questo aumenta la loro rabbia. Gli elmi cornuti rischiano di rivoltarsi contro chi li ha eccitati. Sarebbe una scena da fantapolitica un Bossi in fuga bersagliato di monetine.

Ma Bossi è scafato quanto folkloristico. Ha capito che in mezzo a questa crisi, il federalismo avrebbe un costo incompatibile con i sacrific imposti alla gente. Anche se lo fanno passare per il rimedio a tutti i mali. E non parliamo del Sud, dove potrebbe essere sommossa. Però al di là della tempesta attuale, tutti sanno ma nessuno ammette che appunto il federalismo costa, non fosse altro perché, invece di passare dallo Stato alle Regioni, le funzioni e gli addetti raddoppieranno. E aumenteranno le tasse, anzi già Tremonti ha detto ai Comuni di farsene una loro sulla casa. E con quello sfacelo delle Regioni poi. Mentre Berlusconi non può rischiare di perdere i voti del Sud, che bilanciano quelli che la Lega gli toglie al Nord.

In questo ambientino ci mancava il nuovo ministro al federalismo Brancher, forse fatto per metterlo al riparo da un processo. Ma che irrita tanto Bossi da fargli muggire che il federalismo sono lui e Calderoli e non si discute. Tre ministri per un federalismo non ancora nato: primo esempio di quanto costerà. E mentre non ci sarebbero neanche i soldi per emanare i regolamenti. E non solo ora che per evitare la bancarotta Tremonti ci taglia di tutto, tranne i patrimoni di chi evade le tasse e guadagnerebbe meno del suo operaio.

Mentre non c’è categoria che non scioperi. E si evadono le tasse anche perché sono troppo alte, ma sono troppo alte perché si evade. Tanto a pagare per tutti ci sono quei fessi dei lavoratori dipendenti. Il federalismo è un lusso da egoisti del Nord in un’Italia con un debito pubblico e un divario economico in cui solo lo sviluppo del Sud potrà salvare tutti. Un incompleto sviluppo del Sud che è la base e il motore della ricchezza del Nord, ecco perché nessuna fa nulla per rimediare, anzi si fa di tutto per non cambiare. Tranne dire che parassita è il Sud: primo caso mondiale in cui parassita non è chi sfrutta ma chi è sfruttato. È avvenuto grazie a 150 anni di decisioni economiche tutte imposte dal Nord. E con i soldi dati al Sud che sono sempre tornati al Nord. Completato il misfatto, con la complicità di un Sud stavolta sí parassita e infingardo. Bossi dice: su questo nostro privilegio piantiamo un federalismo in cui ciascuno si tiene il suo. Bravo.

Se proprio Bossi non avesse voluto più dare, come sostiene, i suoi soldi al Sud, avrebbe dovuto dire: sviluppiamo il Sud dopo averlo sfruttato da sempre. Ma chi ha un euro lo investe al Sud perché non rende. E non rende perché manca ciò che può farlo rendere, dalle strade veloci che colleghino con l’Europa alla pubblica amministrazione che spia fare un progetto. Ciò che appunto serve al Sud, ma potrebbe farlo diventare un pericoloso concorrente per il Nord.

Allora no, meglio il federalismo, si governino da sé e vadano per la loro strada. Così l’euro sarà sempre investito al Nord. Tanto laggiú ormai dipendono troppo dai nostri prodotti da potervi rinunciare.

I meridionali che subiscono senza muovere un dito dovrebbero sapere tutto ciò. Ma opporre qualcos’altro al federalismo. E non aspettare che comunque arrivino altri soldi come sempre, senza che ci siano mai le condizioni perché davvero si possa fare da soli: partendo però da parità di condizioni, non da 150 anni di forzato ritardo.

Invece niente, o quasi. Meno che mai dai politici, sempre timorosi di parlare di Sud come se fosse una parolaccia. O forse altrettanto interessati a non far muovere nulla per continuare a gestire quattro miserabili denari e incassare voti. Ma i quattro denari sono sempre meno, come i tagli a Regioni e Comuni dimostrano. È il momento di rottura anche di questo truffaldino equilibrio. E quando mancheranno gli asili per i bambini e l’assistenza agli anziani, non è detto che il fuoco del Sud non si accenda. Forse non piú con una di quelle fiammate cenciose alla "boia chi molla", due promesse, qualche mezza assunzione e tutto come prima. Stavolta il fuoco al Sud non sarebbe una bell’aria, altro che dieci milioni di baionette, al Nord.

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domenica 27 giugno 2010

VERGOGNE DI STATO



di Stefano Corradino



"Perchè chi sapeva è stato zitto? Perchè chi poteva scoprire non s'è mosso? Perchè questa verità era così inconfessabile da richiedere il silenzio, l'omertà, l'occultamento delle prove? C'era la guerra quella notte del 27 giugno 1980. C'erano 69 adulti e 12 bambini che tornavano a casa, che andavano in vacanza, che leggevano il giornale, che giocavano con una bambola. Quelli che sapevano hanno deciso che i cittadini, la gente, noi, non dovevamo sapere: hanno manomesso le registrazioni, cancellato i tracciati radar, bruciato i registri; hanno inventato esercitazioni che non erano mai avvenute, intimidito i giudici, colpevolizzato i periti e poi hanno fatto la cosa più grave di tutte: hanno costretto i deboli a partecipare alla menzogna, trasformando l'onesta in viltà... Perchè?"

E' la scena finale del film "il Muro di Gomma" diretto da Marco Risi, dedicato alla strage di Ustica. L'attore fiorentino Corso Salani, morto pochi giorni fa per un malore improvviso a soli 48 anni, interpretava il ruolo di Rocco, giornalista del Corriere della Sera impegnato in una coraggiosa indagine, tra le testimonianze strazianti di famiglie distrutte per tanti innocenti precipitati negli abissi marini e i silenzi, i misteri, le menzogne dei Servizi segreti, dei vertici militati, degli apparati dello Stato, di politici evasivi preoccupati che la ricerca della verità potesse mettere a repentaglio le relazioni diplomatiche con altri Paesi.

A 30 anni di distanza l'inchiesta è ancora aperta. Ce lo ha ricordato qualche giorno fa sul nostro giornale on line Andrea Purgatori, il giornalista del Corriere della Sera (e sceneggiatore del film di Risi) che per primo seguì la vicenda del Dc9. Quel muro di gomma non è stato ancora squarciato eppure, come ci ha spiegato Purgatori "sappiamo dei livelli di copertura ai vertici di alcune istituzioni importanti dello Stato come, per esempio, l’Aeronautica Militare". Come lo sappiamo? Grazie alle intercettazioni, quello strumento di indagine che una vergognosa Legge di Stato vorrebbe proibire. Se allora questa Legge fosse stata in vigore di quel silenzio, di quell'omertà, di quegli occultamenti di prove non sapremmo niente.

"Vergogna di Stato" titolava coraggiosamente il Corriere della Sera. Un titolo che domenica 27 giugno 2010 vorremmo rileggere sul principale quotidiano italiano (ma anche sugli altri). Vergogna ben più grave della miserrima figura della nazionale di calcio. La vergogna di una strage senza colpevoli a trent'anni di distanza. E di un governo che vuole impedire per Legge la ricerca della verità.
Il 1° luglio 2010 saremo a Piazza Navona anche per i familiari di quelle 81 vittime che non potranno mai essere risarciti per la perdita che hanno subito. E che non gridano vendetta ma solo verità e giustizia.

Fonte:Articolo21
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di Stefano Corradino



"Perchè chi sapeva è stato zitto? Perchè chi poteva scoprire non s'è mosso? Perchè questa verità era così inconfessabile da richiedere il silenzio, l'omertà, l'occultamento delle prove? C'era la guerra quella notte del 27 giugno 1980. C'erano 69 adulti e 12 bambini che tornavano a casa, che andavano in vacanza, che leggevano il giornale, che giocavano con una bambola. Quelli che sapevano hanno deciso che i cittadini, la gente, noi, non dovevamo sapere: hanno manomesso le registrazioni, cancellato i tracciati radar, bruciato i registri; hanno inventato esercitazioni che non erano mai avvenute, intimidito i giudici, colpevolizzato i periti e poi hanno fatto la cosa più grave di tutte: hanno costretto i deboli a partecipare alla menzogna, trasformando l'onesta in viltà... Perchè?"

E' la scena finale del film "il Muro di Gomma" diretto da Marco Risi, dedicato alla strage di Ustica. L'attore fiorentino Corso Salani, morto pochi giorni fa per un malore improvviso a soli 48 anni, interpretava il ruolo di Rocco, giornalista del Corriere della Sera impegnato in una coraggiosa indagine, tra le testimonianze strazianti di famiglie distrutte per tanti innocenti precipitati negli abissi marini e i silenzi, i misteri, le menzogne dei Servizi segreti, dei vertici militati, degli apparati dello Stato, di politici evasivi preoccupati che la ricerca della verità potesse mettere a repentaglio le relazioni diplomatiche con altri Paesi.

A 30 anni di distanza l'inchiesta è ancora aperta. Ce lo ha ricordato qualche giorno fa sul nostro giornale on line Andrea Purgatori, il giornalista del Corriere della Sera (e sceneggiatore del film di Risi) che per primo seguì la vicenda del Dc9. Quel muro di gomma non è stato ancora squarciato eppure, come ci ha spiegato Purgatori "sappiamo dei livelli di copertura ai vertici di alcune istituzioni importanti dello Stato come, per esempio, l’Aeronautica Militare". Come lo sappiamo? Grazie alle intercettazioni, quello strumento di indagine che una vergognosa Legge di Stato vorrebbe proibire. Se allora questa Legge fosse stata in vigore di quel silenzio, di quell'omertà, di quegli occultamenti di prove non sapremmo niente.

"Vergogna di Stato" titolava coraggiosamente il Corriere della Sera. Un titolo che domenica 27 giugno 2010 vorremmo rileggere sul principale quotidiano italiano (ma anche sugli altri). Vergogna ben più grave della miserrima figura della nazionale di calcio. La vergogna di una strage senza colpevoli a trent'anni di distanza. E di un governo che vuole impedire per Legge la ricerca della verità.
Il 1° luglio 2010 saremo a Piazza Navona anche per i familiari di quelle 81 vittime che non potranno mai essere risarciti per la perdita che hanno subito. E che non gridano vendetta ma solo verità e giustizia.

Fonte:Articolo21
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Le trivellazioni a Sciacca


http://www.youtube.com/watch?v=52-Qsn1yhXo

Il duo Scajola/Prestigiacomo ha concesso negli ultimi anni 95 nuovi permessi di trivellazione in Italia. 71 sulla terraferma e 24 nel Mediterraneo. La superficie interessata dalle trivellazioni nei nostri mari ha una superficie pari alla Regione Abruzzo, circa 11.000 metri quadrati. I petrolieri potranno bucare ovunque, dalle Tremiti alle coste della Sicilia, dalle coste marchigiane e pugliesi alle isole Egadi a Pantelleria, dallo Ionio alle acque intorno all'isola d'Elba a quelle sarde di Oristano. La corsa al petrolio italiano e alla distruzione dell'ambiente e del turismo è un richiamo irresistibile per i petrolieri di mezzo mondo, inclusi ovviamente quelli italiani. E' quasi uno stampede della corsa all'oro nero. Il presidente di Assomineraria Claudio Scalzi spiega che c'è "un certo disordine iniziale" compensato però dal "movimento che porta investimenti, royalties e vivacità". Mi risulta che in Italia non è prevista la responsabilità delle compagnie petrolifere in caso di incidente. Le bandiere blu delle nostre coste diventeranno nere come il petrolio e sono, in realtà, già sulla buona strada. L'italia ha il maggior numero di siti non balneabili d'Europa.
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http://www.youtube.com/watch?v=52-Qsn1yhXo

Il duo Scajola/Prestigiacomo ha concesso negli ultimi anni 95 nuovi permessi di trivellazione in Italia. 71 sulla terraferma e 24 nel Mediterraneo. La superficie interessata dalle trivellazioni nei nostri mari ha una superficie pari alla Regione Abruzzo, circa 11.000 metri quadrati. I petrolieri potranno bucare ovunque, dalle Tremiti alle coste della Sicilia, dalle coste marchigiane e pugliesi alle isole Egadi a Pantelleria, dallo Ionio alle acque intorno all'isola d'Elba a quelle sarde di Oristano. La corsa al petrolio italiano e alla distruzione dell'ambiente e del turismo è un richiamo irresistibile per i petrolieri di mezzo mondo, inclusi ovviamente quelli italiani. E' quasi uno stampede della corsa all'oro nero. Il presidente di Assomineraria Claudio Scalzi spiega che c'è "un certo disordine iniziale" compensato però dal "movimento che porta investimenti, royalties e vivacità". Mi risulta che in Italia non è prevista la responsabilità delle compagnie petrolifere in caso di incidente. Le bandiere blu delle nostre coste diventeranno nere come il petrolio e sono, in realtà, già sulla buona strada. L'italia ha il maggior numero di siti non balneabili d'Europa.

Pomigliano, la fabbrica secondo la Fiat


La trasformazione del lavoro prevista dall’accordo renderà lo stabilimento del napoletano il più neofordista della galassia Fiat. Il modello Wcm e il sistema Ergo-Uas: la produttività massima da inculcare in ciascun operaio. Ossia: più fatica

di Patrizio Di Nicola

L’accordo Fiat di Pomigliano, al di là del risultato del referendum, apre allo studioso molti campi di riflessione. Il giurista, infatti, avrà di che ragionare attorno alla costituzionalità degli articoli 14 e 15 del testo, che prevedono che qualsiasi comportamento, collettivo o di singoli dipendenti contro l’accordo stesso (incluso quindi l’aderire a uno sciopero o proclamarlo), darà luogo a specifiche sanzioni: per i sindacati l’interruzione dei contributi e dei permessi sindacali, mentre per il lavoratore si potrà arrivare al licenziamento.

Gli esperti di relazioni industriali, invece, avranno molti punti da approfondire, primo fra tutti la disciplina degli straordinari e dei recuperi, che prevede lo svolgimento di tali attività anche al posto della pausa per il pasto, 30 minuti alla fine di ciascun turno. I critici dell’accordo fanno notare che ciò è in contrasto con la Direttiva europea sull’orario di lavoro del 2003 (che all’art. 4 prevede, per prestazioni superiori alle sei ore di lavoro consecutive, una pausa), oltre che con la legge 66 del 2003, che fa espresso riferimento a una pausa per la mensa.

Il sociologo del lavoro, dal canto suo, non potrà non concentrarsi sulla trasformazione dell’organizzazione di fabbrica che l’accordo prevede e che renderà lo stabilimento del napoletano il più neofordista della galassia Fiat. Su questo, dunque, ci concentreremo nei paragrafi successivi.

Il modello Wcm
L’articolo 5 dell’accordo, dal titolo “Organizzazione del lavoro” , sancisce l’introduzione di un nuovo modello organizzativo, il Wcm (World Class Manufacturing) e il sistema Ergo-Uas (leggi l'allegato con la descrizione). Il primo termine indica una filosofia, nata dalla produzione snella e dal toyotismo, che prevede il coinvolgimento di tutti i lavoratori, dal manager all’operaio, nel processo di miglioramento continuo del prodotto. L’obiettivo è di produrre automobili sempre più soddisfacenti per i clienti, ai costi migliori (J. Todd, World-Class Manufacturing, McGraw-Hill, London, 1995). Il Wcm pone l’accento sul miglioramento ergonomico delle postazioni lavorative per aumentare la produttività, sulla riprogettazione delle postazioni di lavoro al fine di ridurre la necessità dell’operaio di spostarsi per prendere i pezzi da montare e ridurre in tal modo i tempi del ciclo produttivo, ma soprattutto sul lavoro in team, ai quali è demandata l’attività di problem solving.

Per essere produttori di classe mondiale ci vuole molta partecipazione da parte dei lavoratori: alla Toyota ogni anno arrivano circa un milione di proposte di miglioramento, tutte studiate con attenzione dalla direzione, spesso adottate e premiate. Non si può dire che in Fiat, almeno per ora, esista una filosofia comparabile.

L’Ergo-Uas, dal canto suo, costituisce una metodologia già sperimentata nello stabilimento di Mirafiori, per raggiungere gli obiettivi del Wcm. Il sistema, descritto nell’allegato 2 all’accordo, si basa sulla ridefinizione dei carichi ergonomici derivanti dai nuovi assetti delle postazioni di lavoro e su un sistema di studio dei tempi – peraltro molto simile concettualmente a quello propugnato dall’ingegner Taylor all’inizio del 900 – che grazie all’informatica permette di plasmare completamente il ciclo lavorativo e i gesti degli operai al fine di ottenere, almeno in linea di principio, la produttività massima. Taylor chiamava ciò la One Best Way, il modo migliore di lavorare, che andava inculcato in ciascun operaio.

Un’auto al minuto
Wcm e Ergo-Uas entreranno in funzione a Pomigliano solo tra due anni, quando lo stabilimento, dopo un lungo periodo di cassa integrazione, sarà stato completamente riconvertito per la produzione della Panda e il layout del sito rivoluzionato per ottenere l’obiettivo di produrre 280mila auto, una al minuto, su una singola linea di produzione. Ma l’accordo ha già deciso che le “soluzioni ergonomiche migliorative” che verranno implementate a fine ristrutturazione porteranno a una riduzione delle pause del 25% (anziché due di 20 minuti, tre di 10 minuti, guarda caso il valore minimo previsto dalla citata Direttiva europea). Quei 10 minuti generano un aumento di produzione di circa 6.500 auto l’anno. In teoria ciò si dovrebbe ottenere a parità di fatica, in quanto il sistema di metrica del lavoro “premia” l’operaio che svolge una attività più dura con un surplus di tempo di riposo, aggiunto all’operazione, che va dall’1 al 13% .

Ma le cose non paiono stare proprio così: un operaio di Mirafiori addetto alla produzione della MiTo, ove il metodo è in uso, intervistato da Repubblica, rivela che quasi tutte le lavorazioni che si svolgono in quella fabbrica prevedono il livello minimo di pausa dell’1% (con il vecchio sistema erano al 5%). La saturazione del lavoro, quindi, arriva nelle fasi attive al 99%: il rischio che la fatica aumenti è tutt’altro che teorico, e la fabbrica Wcm somiglia pericolosamente alle strutture tayloriste degli anni sessanta.

Un’inchiesta realizzata a Mirafiori, ad esempio, dimostra che il 60% degli operai svolge compiti ripetitivi, che si esauriscono in circa 60 secondi o poco più, mentre per l’80% delle donne il lavoro è ripetitivo e di estrema semplicità (si veda, ad esempio, F. Garibaldo, A company in transition: Fiat Mirafiori of Turin, in International Journal of Automotive Technology and Management, vol. 8, n. 2, 2008, pp. 185-193).

Taiichi Ohno
Alla base della partecipazione dei lavoratori, secondo le idee originali di Taiichi Ohno, l’ingegnere che negli anni 50 progettò il Toyota Production System, vi è il principio del Jidoka (traducibile con “autonomazione”), cioè l’automazione con un “tocco umano”: un sistema che attribuisce larga autonomia al lavoratore il quale, se si accorge che qualcosa non va nella produzione, può fermarla senza chiedere pareri o permessi. Solo così, infatti, si salvaguarda sempre la qualità del prodotto.

Una procedura kafkiana
Il principio dell’autonomazione non ha avuto sinora larga applicazione fuori del Giappone: nelle fabbriche occidentali fermare la produzione richiede l’intervento di livelli decisionali ben sopra l’operaio. Nella fabbrica che si candida a diventare eccellenza produttiva mondiale vi dovrebbe essere, per i lavoratori, la possibilità di migliorare l’organizzazione del lavoro, partecipando alla progettazione del sistema ergonomico della fabbrica. Dire la propria sul lavoro è un elemento di controllo, che permette di adeguare le mansioni alle persone. Ma la fabbrica Wcm “made in Torino” cerca l’esatto contrario, deve adeguare le persone al lavoro. È qui, in fin dei conti, che la proposta della Fiat si scopre smaccatamente taylor-fordista. Ai lavoratori, infatti, i tempi standard vengono imposti dall’esterno, sulla base di una ricostruzione delle mansioni e dei movimenti effettuati dalla direzione con sofisticati metodi informatici. L’unica partecipazione che viene lasciata agli operai consiste nella possibilità di avanzare un reclamo quando i tempi assegnati sono troppo stretti. Ma la procedura da seguire (descritta a pag. 19 dell’allegato tecnico all’accordo) pare kafkiana: il lavoratore deve dapprima lamentarsi con il proprio responsabile, il quale, se decide di prendere in considerazione la protesta, la passa all’ente preposto allo studio dei tempi, che eseguirà, entro sette giorni, un controllo dell’operazione contestata, comunicando il risultato per via gerarchica. Se la risposta non soddisfa l’operaio, questi può avanzare una nuova protesta, questa volta scritta, tramite un rappresentante della Rsu. Anche in tal caso si avrà una risposta scritta. Se anche questa seconda volta l’esito è negativo, allora il malcapitato potrà appellarsi ad una speciale commissione che deve decidere in cinque giorni. Comunque vada, in tutto questo periodo rimane in vigore il tempo assegnato dalla Fiat (che l’operaio da cui parte la protesta non riesce a rispettare, altrimenti perché si sarebbe imbarcato in tante vicissitudini?) e nessuno può intraprendere azioni “unilaterali”: il guidatore non va mai disturbato.

Più fatica
Nel libro Il tubo di cristallo: modello giapponese e fabbrica integrata alla Fiat auto, scritto nel 1993 da Giuseppe Bonazzi, l’autore si domandava in che modo l’azienda avrebbe potuto ottenere dagli operai la partecipazione necessaria a far funzionare il nuovo metodo produttivo. La chiave di volta veniva individuata nella riduzione dello sforzo fisico, una novità che assumeva anche un valore simbolico: attenuando la penosità tipica del lavoro operaio, se ne aumenta il decoro, la dignità e il comfort, attivando una volontà di partecipazione e di coinvolgimento nelle innovazioni.

Oggi questa esigenza non sembra più all’ordine del giorno, e lavorare nella nuova Pomigliano richiederà più fatica. Per dirla con Luciano Gallino, “occorre che le persone lavorino come robot, ma non possono essere sostituite da robot”.

Una storia che raccontava già Henry Ford nel 1917; solo che si pensava fosse ormai superata.

Fonte: Facebook Partito della Pagnotta





Note sul professor Patrizio Di Nicola
http://www.dinicola.it/currpat.htm
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La trasformazione del lavoro prevista dall’accordo renderà lo stabilimento del napoletano il più neofordista della galassia Fiat. Il modello Wcm e il sistema Ergo-Uas: la produttività massima da inculcare in ciascun operaio. Ossia: più fatica

di Patrizio Di Nicola

L’accordo Fiat di Pomigliano, al di là del risultato del referendum, apre allo studioso molti campi di riflessione. Il giurista, infatti, avrà di che ragionare attorno alla costituzionalità degli articoli 14 e 15 del testo, che prevedono che qualsiasi comportamento, collettivo o di singoli dipendenti contro l’accordo stesso (incluso quindi l’aderire a uno sciopero o proclamarlo), darà luogo a specifiche sanzioni: per i sindacati l’interruzione dei contributi e dei permessi sindacali, mentre per il lavoratore si potrà arrivare al licenziamento.

Gli esperti di relazioni industriali, invece, avranno molti punti da approfondire, primo fra tutti la disciplina degli straordinari e dei recuperi, che prevede lo svolgimento di tali attività anche al posto della pausa per il pasto, 30 minuti alla fine di ciascun turno. I critici dell’accordo fanno notare che ciò è in contrasto con la Direttiva europea sull’orario di lavoro del 2003 (che all’art. 4 prevede, per prestazioni superiori alle sei ore di lavoro consecutive, una pausa), oltre che con la legge 66 del 2003, che fa espresso riferimento a una pausa per la mensa.

Il sociologo del lavoro, dal canto suo, non potrà non concentrarsi sulla trasformazione dell’organizzazione di fabbrica che l’accordo prevede e che renderà lo stabilimento del napoletano il più neofordista della galassia Fiat. Su questo, dunque, ci concentreremo nei paragrafi successivi.

Il modello Wcm
L’articolo 5 dell’accordo, dal titolo “Organizzazione del lavoro” , sancisce l’introduzione di un nuovo modello organizzativo, il Wcm (World Class Manufacturing) e il sistema Ergo-Uas (leggi l'allegato con la descrizione). Il primo termine indica una filosofia, nata dalla produzione snella e dal toyotismo, che prevede il coinvolgimento di tutti i lavoratori, dal manager all’operaio, nel processo di miglioramento continuo del prodotto. L’obiettivo è di produrre automobili sempre più soddisfacenti per i clienti, ai costi migliori (J. Todd, World-Class Manufacturing, McGraw-Hill, London, 1995). Il Wcm pone l’accento sul miglioramento ergonomico delle postazioni lavorative per aumentare la produttività, sulla riprogettazione delle postazioni di lavoro al fine di ridurre la necessità dell’operaio di spostarsi per prendere i pezzi da montare e ridurre in tal modo i tempi del ciclo produttivo, ma soprattutto sul lavoro in team, ai quali è demandata l’attività di problem solving.

Per essere produttori di classe mondiale ci vuole molta partecipazione da parte dei lavoratori: alla Toyota ogni anno arrivano circa un milione di proposte di miglioramento, tutte studiate con attenzione dalla direzione, spesso adottate e premiate. Non si può dire che in Fiat, almeno per ora, esista una filosofia comparabile.

L’Ergo-Uas, dal canto suo, costituisce una metodologia già sperimentata nello stabilimento di Mirafiori, per raggiungere gli obiettivi del Wcm. Il sistema, descritto nell’allegato 2 all’accordo, si basa sulla ridefinizione dei carichi ergonomici derivanti dai nuovi assetti delle postazioni di lavoro e su un sistema di studio dei tempi – peraltro molto simile concettualmente a quello propugnato dall’ingegner Taylor all’inizio del 900 – che grazie all’informatica permette di plasmare completamente il ciclo lavorativo e i gesti degli operai al fine di ottenere, almeno in linea di principio, la produttività massima. Taylor chiamava ciò la One Best Way, il modo migliore di lavorare, che andava inculcato in ciascun operaio.

Un’auto al minuto
Wcm e Ergo-Uas entreranno in funzione a Pomigliano solo tra due anni, quando lo stabilimento, dopo un lungo periodo di cassa integrazione, sarà stato completamente riconvertito per la produzione della Panda e il layout del sito rivoluzionato per ottenere l’obiettivo di produrre 280mila auto, una al minuto, su una singola linea di produzione. Ma l’accordo ha già deciso che le “soluzioni ergonomiche migliorative” che verranno implementate a fine ristrutturazione porteranno a una riduzione delle pause del 25% (anziché due di 20 minuti, tre di 10 minuti, guarda caso il valore minimo previsto dalla citata Direttiva europea). Quei 10 minuti generano un aumento di produzione di circa 6.500 auto l’anno. In teoria ciò si dovrebbe ottenere a parità di fatica, in quanto il sistema di metrica del lavoro “premia” l’operaio che svolge una attività più dura con un surplus di tempo di riposo, aggiunto all’operazione, che va dall’1 al 13% .

Ma le cose non paiono stare proprio così: un operaio di Mirafiori addetto alla produzione della MiTo, ove il metodo è in uso, intervistato da Repubblica, rivela che quasi tutte le lavorazioni che si svolgono in quella fabbrica prevedono il livello minimo di pausa dell’1% (con il vecchio sistema erano al 5%). La saturazione del lavoro, quindi, arriva nelle fasi attive al 99%: il rischio che la fatica aumenti è tutt’altro che teorico, e la fabbrica Wcm somiglia pericolosamente alle strutture tayloriste degli anni sessanta.

Un’inchiesta realizzata a Mirafiori, ad esempio, dimostra che il 60% degli operai svolge compiti ripetitivi, che si esauriscono in circa 60 secondi o poco più, mentre per l’80% delle donne il lavoro è ripetitivo e di estrema semplicità (si veda, ad esempio, F. Garibaldo, A company in transition: Fiat Mirafiori of Turin, in International Journal of Automotive Technology and Management, vol. 8, n. 2, 2008, pp. 185-193).

Taiichi Ohno
Alla base della partecipazione dei lavoratori, secondo le idee originali di Taiichi Ohno, l’ingegnere che negli anni 50 progettò il Toyota Production System, vi è il principio del Jidoka (traducibile con “autonomazione”), cioè l’automazione con un “tocco umano”: un sistema che attribuisce larga autonomia al lavoratore il quale, se si accorge che qualcosa non va nella produzione, può fermarla senza chiedere pareri o permessi. Solo così, infatti, si salvaguarda sempre la qualità del prodotto.

Una procedura kafkiana
Il principio dell’autonomazione non ha avuto sinora larga applicazione fuori del Giappone: nelle fabbriche occidentali fermare la produzione richiede l’intervento di livelli decisionali ben sopra l’operaio. Nella fabbrica che si candida a diventare eccellenza produttiva mondiale vi dovrebbe essere, per i lavoratori, la possibilità di migliorare l’organizzazione del lavoro, partecipando alla progettazione del sistema ergonomico della fabbrica. Dire la propria sul lavoro è un elemento di controllo, che permette di adeguare le mansioni alle persone. Ma la fabbrica Wcm “made in Torino” cerca l’esatto contrario, deve adeguare le persone al lavoro. È qui, in fin dei conti, che la proposta della Fiat si scopre smaccatamente taylor-fordista. Ai lavoratori, infatti, i tempi standard vengono imposti dall’esterno, sulla base di una ricostruzione delle mansioni e dei movimenti effettuati dalla direzione con sofisticati metodi informatici. L’unica partecipazione che viene lasciata agli operai consiste nella possibilità di avanzare un reclamo quando i tempi assegnati sono troppo stretti. Ma la procedura da seguire (descritta a pag. 19 dell’allegato tecnico all’accordo) pare kafkiana: il lavoratore deve dapprima lamentarsi con il proprio responsabile, il quale, se decide di prendere in considerazione la protesta, la passa all’ente preposto allo studio dei tempi, che eseguirà, entro sette giorni, un controllo dell’operazione contestata, comunicando il risultato per via gerarchica. Se la risposta non soddisfa l’operaio, questi può avanzare una nuova protesta, questa volta scritta, tramite un rappresentante della Rsu. Anche in tal caso si avrà una risposta scritta. Se anche questa seconda volta l’esito è negativo, allora il malcapitato potrà appellarsi ad una speciale commissione che deve decidere in cinque giorni. Comunque vada, in tutto questo periodo rimane in vigore il tempo assegnato dalla Fiat (che l’operaio da cui parte la protesta non riesce a rispettare, altrimenti perché si sarebbe imbarcato in tante vicissitudini?) e nessuno può intraprendere azioni “unilaterali”: il guidatore non va mai disturbato.

Più fatica
Nel libro Il tubo di cristallo: modello giapponese e fabbrica integrata alla Fiat auto, scritto nel 1993 da Giuseppe Bonazzi, l’autore si domandava in che modo l’azienda avrebbe potuto ottenere dagli operai la partecipazione necessaria a far funzionare il nuovo metodo produttivo. La chiave di volta veniva individuata nella riduzione dello sforzo fisico, una novità che assumeva anche un valore simbolico: attenuando la penosità tipica del lavoro operaio, se ne aumenta il decoro, la dignità e il comfort, attivando una volontà di partecipazione e di coinvolgimento nelle innovazioni.

Oggi questa esigenza non sembra più all’ordine del giorno, e lavorare nella nuova Pomigliano richiederà più fatica. Per dirla con Luciano Gallino, “occorre che le persone lavorino come robot, ma non possono essere sostituite da robot”.

Una storia che raccontava già Henry Ford nel 1917; solo che si pensava fosse ormai superata.

Fonte: Facebook Partito della Pagnotta





Note sul professor Patrizio Di Nicola
http://www.dinicola.it/currpat.htm
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sabato 26 giugno 2010

Petrolio: quale il rischio di marea nera nel Mediterraneo?


Dopo la tragedia della Deepwater Horizon, la domanda la pone uno studio dell’Unione Europea. Sotto accusa i trasporti petroliferi navali nelle nostre acque.

“Incidenti del genere potrebbero accadere nel Mediterraneo”? E la domanda che si pone lo studio del PPRD, il Programma per la “prevenzione e risposta adeguata ai disastri naturali e causati dall’uomo”, un progetto di EuroMed, e dunque finanziato dall’Unione Europea. L’articolo è firmato da Alessandro Candeloro, ingegnere, per sei anni ricercatore al Progetto Euromediterraneo per l’Ambiente, un altra ricerca finanziata sempre dall’Unione Europea.

POCHE PIATTAFORME – Secondo lo studio, vi sono molte differenze fra la situazione mediterranea e quella americana. Stando ai dati, nel Mediterraneo sono attualmente “operative 22 trivellazioni al largo della costa – sette in Egitto, cinque in Libia, quattro in Tunisia ed Italia (nel Mar Adriatico), e una in Croazia e a Malta”, contro le ben 172 del Golfo del Messico. Con questi numeri, dunque, il rischio statistico che uno degli impianti petroliferi europei subisca danni irreparabili è molto minore che in America. Quel che invece è da tenere sotto controllo, continua Candeloro, sarebbe il “trasporto di petrolio grezzo” nelle nostre acque.

MOLTO TRAFFICO – Infatti i petroldotti e le navi cisterna sono la prima causa di inquinamento del nostro mare. Dagli studi a disposizione dell’istituto, infatti, risulta che nel Mediterraneo sarebbero caduti, negli ultimi 30 anni, oltre “400 milioni” di litri di petrolio, in seguito a fuoriuscite e versamenti irregolari e dolosi di combustibile nelle acque internazionali. Lo studio ricorda il disastro della Haven, nelle acque davanti al Porto di Genova, che buttò in mare 180 milioni di litri di greggio. E, nel corso degli anni, la percentuale di incidenti sarebbe rapidamente cresciuta, evidenzia un rapporto del 2009: sotto la lente di ingrandimento le micro collisioni, “che avvengono prevalentemente nei porti durante le operazioni di avvicinamento, di carico e di scarico”. Aree a rischio in questo senso, per la difficoltà di manovra, sarebbero “gli stretti Turchi, ovvero il Bosforo e i Dardanelli, gli stretti di Messina fra Sicilia e il Continente, e gli stretti di Gibilterra; a seguire altre aree con grandi volumi di traffico navale, come la Grecia del Sud, l’Italia del Nord e la Francia meridionale.”

Fonte:Giornalettismo
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Dopo la tragedia della Deepwater Horizon, la domanda la pone uno studio dell’Unione Europea. Sotto accusa i trasporti petroliferi navali nelle nostre acque.

“Incidenti del genere potrebbero accadere nel Mediterraneo”? E la domanda che si pone lo studio del PPRD, il Programma per la “prevenzione e risposta adeguata ai disastri naturali e causati dall’uomo”, un progetto di EuroMed, e dunque finanziato dall’Unione Europea. L’articolo è firmato da Alessandro Candeloro, ingegnere, per sei anni ricercatore al Progetto Euromediterraneo per l’Ambiente, un altra ricerca finanziata sempre dall’Unione Europea.

POCHE PIATTAFORME – Secondo lo studio, vi sono molte differenze fra la situazione mediterranea e quella americana. Stando ai dati, nel Mediterraneo sono attualmente “operative 22 trivellazioni al largo della costa – sette in Egitto, cinque in Libia, quattro in Tunisia ed Italia (nel Mar Adriatico), e una in Croazia e a Malta”, contro le ben 172 del Golfo del Messico. Con questi numeri, dunque, il rischio statistico che uno degli impianti petroliferi europei subisca danni irreparabili è molto minore che in America. Quel che invece è da tenere sotto controllo, continua Candeloro, sarebbe il “trasporto di petrolio grezzo” nelle nostre acque.

MOLTO TRAFFICO – Infatti i petroldotti e le navi cisterna sono la prima causa di inquinamento del nostro mare. Dagli studi a disposizione dell’istituto, infatti, risulta che nel Mediterraneo sarebbero caduti, negli ultimi 30 anni, oltre “400 milioni” di litri di petrolio, in seguito a fuoriuscite e versamenti irregolari e dolosi di combustibile nelle acque internazionali. Lo studio ricorda il disastro della Haven, nelle acque davanti al Porto di Genova, che buttò in mare 180 milioni di litri di greggio. E, nel corso degli anni, la percentuale di incidenti sarebbe rapidamente cresciuta, evidenzia un rapporto del 2009: sotto la lente di ingrandimento le micro collisioni, “che avvengono prevalentemente nei porti durante le operazioni di avvicinamento, di carico e di scarico”. Aree a rischio in questo senso, per la difficoltà di manovra, sarebbero “gli stretti Turchi, ovvero il Bosforo e i Dardanelli, gli stretti di Messina fra Sicilia e il Continente, e gli stretti di Gibilterra; a seguire altre aree con grandi volumi di traffico navale, come la Grecia del Sud, l’Italia del Nord e la Francia meridionale.”

Fonte:Giornalettismo
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Napoli, arriva Maroni: si organizza la protesta anti-Lega


Un’iniziativa per protestare contro la presenza del ministro Roberto Maroni a Napoli e’ stata organizzata domani mattina al caffe’ Gambrinus dal ‘Movimento antileghista napoletano’. Maroni stasera sara’ al teatro San Carlo per il concerto della polizia mentre domani e’ annunciata la sua presenza alla conclusione della rassegna ‘Il sabato delle idee”.

”La sua presenza in citta’ e’ una provocazione – spiegano in una nota, Francesco Emilio Borrelli, commissario regionale dei Verdi, ed il titolare della storica pizzeria Sorbillo ai Tribunali, Gino Sorbillo, che stanno portando avanti il movimento antileghista napoletano – Dovrebbe chiederci scusa per i cori razzisti della Lega contro i napoletani a Pontida, per le parole vergognose del sindaco di Verona Tosi, per le affermazioni razziste del presidente della Regione Veneto e, invece, viene a fare passarelle politiche”.

”Domani sara’ presentata una nuova maglietta dell’orgoglio napoletano e il francobollo su Bossi che vale 3 soldi come l’intera Padania – aggiungono – Inoltre mostreremo dove vengono prodotte le magliette leghiste e daremo i primi dati sul dossier che stiamo realizzando sulla cattiva amministrazione e sugli sperperi di denaro pubblico nei territori amministrati dai leghisti al nord”. ”Intanto – concludono – sono diventati 110 i negozi che espongono il cartello all’ingresso su cui e’ scritto ‘i leghisti non sono graditi”.

Fonte: Blitz quotidiano

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Un’iniziativa per protestare contro la presenza del ministro Roberto Maroni a Napoli e’ stata organizzata domani mattina al caffe’ Gambrinus dal ‘Movimento antileghista napoletano’. Maroni stasera sara’ al teatro San Carlo per il concerto della polizia mentre domani e’ annunciata la sua presenza alla conclusione della rassegna ‘Il sabato delle idee”.

”La sua presenza in citta’ e’ una provocazione – spiegano in una nota, Francesco Emilio Borrelli, commissario regionale dei Verdi, ed il titolare della storica pizzeria Sorbillo ai Tribunali, Gino Sorbillo, che stanno portando avanti il movimento antileghista napoletano – Dovrebbe chiederci scusa per i cori razzisti della Lega contro i napoletani a Pontida, per le parole vergognose del sindaco di Verona Tosi, per le affermazioni razziste del presidente della Regione Veneto e, invece, viene a fare passarelle politiche”.

”Domani sara’ presentata una nuova maglietta dell’orgoglio napoletano e il francobollo su Bossi che vale 3 soldi come l’intera Padania – aggiungono – Inoltre mostreremo dove vengono prodotte le magliette leghiste e daremo i primi dati sul dossier che stiamo realizzando sulla cattiva amministrazione e sugli sperperi di denaro pubblico nei territori amministrati dai leghisti al nord”. ”Intanto – concludono – sono diventati 110 i negozi che espongono il cartello all’ingresso su cui e’ scritto ‘i leghisti non sono graditi”.

Fonte: Blitz quotidiano

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