sabato 31 luglio 2010

Liberiamoci dallo strapotere insostenibile dei banchieri



di Ida Magli
Il Giornale | 10/05/2010



O adesso o mai più. Che cosa aspettiamo a liberarci della sovranità dei banchieri, della rete fittissima dei loro interessi con i quali ci hanno avvolto stritolandoci? Perfino Angela Merkel ha perso il controllo, di fronte alla catastrofe finanziaria di questi giorni, e ha denunciato ad alta voce quello che qualcuno si azzardava appena a pensare dentro di sé: “I mercati stanno avviando una battaglia contro i politici”. Nessuno, però, ha osato commentare quest’affermazione, di per sé esplosiva e destabilizzante; ma soprattutto incomprensibile per la maggioranza dei cittadini. Incomprensibile perché ci hanno sempre lasciato credere che fossero i politici a detenere il massimo potere. Invece sono i banchieri, giacché fabbricano la moneta, mentre i politici sono loro soci negli interessi, ossia nel prezzo, fissato dai banchieri stessi, che paghiamo per farci “prestare” il denaro (il famoso “debito pubblico”). A questo si riferisce dunque la Merkel: è scoppiato un conflitto fra soci, una battaglia fra banchieri e politici, battaglia che è stata combattuta distruggendo in poche ore i nostri risparmi (le borse europee hanno perso 260 miliardi in tre sedute) e della quale sicuramente abbiamo visto soltanto il primo atto, ma che deve indurci a togliere immediatamente le armi, ossia i nostri soldi, dalle mani dei combattenti.


Come dicevamo, perciò, è giunto il momento per i popoli di ribellarsi a una situazione che, se non fosse così drammatica, si potrebbe definire surreale. E’, infatti, talmente assurdo che siano i banchieri a creare la moneta e a “prestarcela”, che non c’è nessuna spiegazione logica, e tanto meno storica o economica, che possa giustificare una dipendenza del genere. La Costituzione italiana parla chiaro: la “sovranità” appartiene al popolo, ed è potere esclusivo del sovrano battere moneta. E’ ovvio, poi, che siamo noi a dare valore al denaro nel momento stesso in cui lo accettiamo e lo mettiamo in circolazione. Se fino ad oggi i politici si sono associati ai banchieri, delegando loro il potere di creare il denaro e di “prestarlo” allo Stato, riducendoci così tutti quanti a “debitori”, è giunta l'ora di smetterla. E’ chiaro a tutti che la libertà, l’indipendenza di cui ci vantiamo e che i nostri politici esaltano ogni giorno come nostra massima conquista, sono e rimarranno sempre un’illusione fino a quando saranno i banchieri, i veri padroni degli Stati.
Naturalmente è stato l’eccesso d’ingordigia di banchieri ed economisti (trasformatisi in leader politici com’è successo in Italia con i vari Prodi, Ciampi, Amato) a inventare e a imporre, con l’unificazione europea, quella tanto celebrata moneta unica che oggi ha fatto deflagrare il sistema. La maggior parte delle valute dei singoli Stati erano più deboli del marco tedesco, preso come punto di riferimento per l’euro, e il meccanismo dei vasi comunicanti ha fatto il resto. Ci hanno predicato per anni che l’ingresso nell’euro era l’unica salvezza dal possibile “default”, che l’appartenenza all’eurozona sarebbe stata un sicuro paracadute, ma non esiste nessun caso in letteratura che dimostri come legarsi a una valuta forte protegga gli Stati dall’insolvenza. Per giunta avevamo sotto gli occhi il disastro dell’Argentina, provocato proprio dall’essersi legata alla forza del dollaro. Fatto sta che lo spettro dell’insolvenza aleggia su molti paesi dell’euro proprio perché sono entrati nell’euro. A questo proposito, anzi, sarà bene che nessuno si faccia illusioni: né la Grecia né nessun altro dei Paesi che fossero costretti a ricorrere a un esoso prestito dell’UE, sarà mai in grado di restituirlo, per cui sarà sottoposto in eterno ai “brutali” sacrifici (così sono stati definiti dagli stessi caritatevoli prestatori) richiesti per concederlo.

E’ questo uno dei motivi più pressanti che devono indurci a cambiare del tutto il modello economico e il sistema finanziario sul quale siamo fondati. Riappropriarsi della sovranità monetaria significa alleggerire di gran parte del suo peso il debito pubblico che oggi ci impedisce qualsiasi volo e non comporta l’uscita dall’Unione Europea, ma soltanto la liberazione dagli assurdi, o meglio, per chi li guardi con occhio oggettivo, paranoici, vincoli del trattato di Maastricht.

Fonte:Italiani liberi


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di Ida Magli
Il Giornale | 10/05/2010



O adesso o mai più. Che cosa aspettiamo a liberarci della sovranità dei banchieri, della rete fittissima dei loro interessi con i quali ci hanno avvolto stritolandoci? Perfino Angela Merkel ha perso il controllo, di fronte alla catastrofe finanziaria di questi giorni, e ha denunciato ad alta voce quello che qualcuno si azzardava appena a pensare dentro di sé: “I mercati stanno avviando una battaglia contro i politici”. Nessuno, però, ha osato commentare quest’affermazione, di per sé esplosiva e destabilizzante; ma soprattutto incomprensibile per la maggioranza dei cittadini. Incomprensibile perché ci hanno sempre lasciato credere che fossero i politici a detenere il massimo potere. Invece sono i banchieri, giacché fabbricano la moneta, mentre i politici sono loro soci negli interessi, ossia nel prezzo, fissato dai banchieri stessi, che paghiamo per farci “prestare” il denaro (il famoso “debito pubblico”). A questo si riferisce dunque la Merkel: è scoppiato un conflitto fra soci, una battaglia fra banchieri e politici, battaglia che è stata combattuta distruggendo in poche ore i nostri risparmi (le borse europee hanno perso 260 miliardi in tre sedute) e della quale sicuramente abbiamo visto soltanto il primo atto, ma che deve indurci a togliere immediatamente le armi, ossia i nostri soldi, dalle mani dei combattenti.


Come dicevamo, perciò, è giunto il momento per i popoli di ribellarsi a una situazione che, se non fosse così drammatica, si potrebbe definire surreale. E’, infatti, talmente assurdo che siano i banchieri a creare la moneta e a “prestarcela”, che non c’è nessuna spiegazione logica, e tanto meno storica o economica, che possa giustificare una dipendenza del genere. La Costituzione italiana parla chiaro: la “sovranità” appartiene al popolo, ed è potere esclusivo del sovrano battere moneta. E’ ovvio, poi, che siamo noi a dare valore al denaro nel momento stesso in cui lo accettiamo e lo mettiamo in circolazione. Se fino ad oggi i politici si sono associati ai banchieri, delegando loro il potere di creare il denaro e di “prestarlo” allo Stato, riducendoci così tutti quanti a “debitori”, è giunta l'ora di smetterla. E’ chiaro a tutti che la libertà, l’indipendenza di cui ci vantiamo e che i nostri politici esaltano ogni giorno come nostra massima conquista, sono e rimarranno sempre un’illusione fino a quando saranno i banchieri, i veri padroni degli Stati.
Naturalmente è stato l’eccesso d’ingordigia di banchieri ed economisti (trasformatisi in leader politici com’è successo in Italia con i vari Prodi, Ciampi, Amato) a inventare e a imporre, con l’unificazione europea, quella tanto celebrata moneta unica che oggi ha fatto deflagrare il sistema. La maggior parte delle valute dei singoli Stati erano più deboli del marco tedesco, preso come punto di riferimento per l’euro, e il meccanismo dei vasi comunicanti ha fatto il resto. Ci hanno predicato per anni che l’ingresso nell’euro era l’unica salvezza dal possibile “default”, che l’appartenenza all’eurozona sarebbe stata un sicuro paracadute, ma non esiste nessun caso in letteratura che dimostri come legarsi a una valuta forte protegga gli Stati dall’insolvenza. Per giunta avevamo sotto gli occhi il disastro dell’Argentina, provocato proprio dall’essersi legata alla forza del dollaro. Fatto sta che lo spettro dell’insolvenza aleggia su molti paesi dell’euro proprio perché sono entrati nell’euro. A questo proposito, anzi, sarà bene che nessuno si faccia illusioni: né la Grecia né nessun altro dei Paesi che fossero costretti a ricorrere a un esoso prestito dell’UE, sarà mai in grado di restituirlo, per cui sarà sottoposto in eterno ai “brutali” sacrifici (così sono stati definiti dagli stessi caritatevoli prestatori) richiesti per concederlo.

E’ questo uno dei motivi più pressanti che devono indurci a cambiare del tutto il modello economico e il sistema finanziario sul quale siamo fondati. Riappropriarsi della sovranità monetaria significa alleggerire di gran parte del suo peso il debito pubblico che oggi ci impedisce qualsiasi volo e non comporta l’uscita dall’Unione Europea, ma soltanto la liberazione dagli assurdi, o meglio, per chi li guardi con occhio oggettivo, paranoici, vincoli del trattato di Maastricht.

Fonte:Italiani liberi


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L'INSABBIAMENTO CULTURALE DELLA "QUESTIONE MERIDIONALE"


Di CARLO COPPOLA


Molti storici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hanno caratterizzato l'unità d'Italia dimostrando, con certezza, che la cultura di "regime" stese, dai primi anni dell'unità, un velo pietoso sulle vicende "risorgimentali" e sul loro reale evolversi.

Tutte le forme d'influenza sulla pubblica opinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta dei Borboni o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di toni positivi.

Si cercò di rendere patetica e ridicola la figura di Francesco II - il "Franceschiello" della vulgata - arrivando alla volgarità di far fare dei fotomontaggi della Regina Maria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti i governi d'Europa e a Francesco II stesso, il quale, figlio di una "santa" e allevato dai preti, con ogni probabilità non aveva mai visto sua moglie nuda nemmeno dal vivo. Risultò, in seguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia di fotografi di dubbia fama, tali Diotallevi, che confessarono di aver agito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscitò scalpore e, benché falsa, servì allo scopo di incrinare la reputazione dei due sovrani in esilio.

La memoria di Re Ferdinando II, padre di Francesco, fu infangata da accuse di brutalità e ferocia: gli fu scritto dal Gladstone - interessatamente - d'essere stato - lui cattolicissimo - "la negazione di Dio".

Soprattutto si minimizzò l'entità della ribellione che infiammava tutto il l'ex Regno di Napoli, riducendolo a "volgare brigantaggio", come si legge nei giornali dell'epoca (giornali, peraltro, pubblicati solo al nord in quanto la libertà di stampa fu abolita al sud fino al 31 dicembre 1865); nasce così la leggenda risorgimentale della "cattiveria" dei Borboni contrapposta alla "bontà" dei piemontesi e dei Savoia che riempirà le pagine dei libri scolastici.

Restano a chiarire le motivazioni che hanno indotto gli ambienti accademici del Regno d'Italia prima, del periodo fascista e della Repubblica poi, a mantenere fin quasi ai giorni nostri, una versione dei fatti così lontana dalla verità.

A mio parere le ragioni sono composite, ma riconducibili ad un concetto che il D'Azeglio enunciò nel secolo scorso "Abbiamo fatto l'Italia, adesso bisogna fare gli Italiani", e possono essere esemplificate nel seguente modo:

a. Il mondo della cultura post-unitaria si adoperò per sradicare dalla coscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevano diventare italiane, il modo piratesco e cruentisissimo con il quale l'unità si ottenne, ammantando di leggende "l'eroico" operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto, schiacciati prima o poi dall'esercito borbonico), sminuendo il fatto che la reale conquista del meridione fu ottenuta, in realtà, dall'esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile - nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte - e tacendo, soprattutto, la circostanza che le popolazioni del sud, salvo una minoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessuna voglia di essere "liberate" e anzi reagirono violentemente contro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori.
Per contro si diede della deposta monarchia borbone un'immagine traviata e distorta, e del '700 e '800 napoletano la visione, bugiarda, di un periodo sinistro d'oppressione e miseria dal quale le genti del sud si emanciperanno, finalmente, con l'unità, liberate dai garibaldini e dai piemontesi dalla schiavitù dello "straniero".

b. Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare del periodo fascista, proteso com'era al perseguimento di valori nazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe, per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo "revisionista", riconducendo anzi l'origine della nazione al periodo romano e saltando a piè pari un millennio di storia meridionale. Il governo fascista ebbe l'indiscutibile merito di cercare di innescare un meccanismo di recupero economico della realtà meridionale, ma da un punto di vista storico insabbiò ancor di più la questione meridionale, ritenendola inutile e dannosa nell'impianto culturale del regime.

c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra, mantenne intatto, in sostanza, l'impianto di pubblica istruzione del periodo fascista.

La nazione emergeva, non bisogna dimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lotta avevano, con la Repubblica di Salò, diviso in due l'Italia, il movimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (erano gli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente il momento di sollevare dubbi sulla veridicità della storia risorgimentale e alimentare così tesi separatiste.

Si è arrivati in questo modo ai giorni nostri, dove ancora adesso, in molti libri scolastici, la storia d'Italia e del meridione in particolare è vergognosamente mistificata.

In campo economico la visione che si dette del Regno delle due Sicilie fu, se possibile, ancora più lontana dalla realtà effettuale.

Il Sud borbonico, come ci riporta Nicola Zitara era: "Un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piú avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d'industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). (...) Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell'economia nazionale".

In realtà il problema centrale dell'intera vicenda è che nel 1860 l'Italia si fece, ma si fece malissimo. Al di là delle orribili stragi che l'unità apportò, le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima i guasti di un processo di unificazione politica dell'Italia che fu attuato senza tenere in minimo conto le diversità, le esigenze economiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivano aggregate.

La formula del "piemontismo", vale a dire della mera e pedissequa estensione degli ordinamenti giuridici ed economici del Regno di Piemonte all'intero territorio italiano, che fu adottata dal governo, e i provvedimenti "rapina" che si fecero ai danni dell'erario del Regno di Napoli, determinarono un'immediata e disastrosa crisi del sistema sociale ed economico nei territori dell'ex Regno di Napoli e il suo irreversibile collasso.

D'altronde le motivazioni politiche che avevano portato all'unità erano - come sempre accade - in subordine rispetto a quelle economiche.

Se si parte dall'assunto, ampiamente dimostrato, che lo stato finanziario del meridione era ben solido nel 1860, si comprendono meglio i meccanismi che hanno innescato la sua rovina.

Nel quadro della politica liberista impostata da Cavour, il paese meridionale, con i suoi quasi nove milioni di abitanti, con il suo notevole risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva un boccone prelibato.

L'abnorme debito pubblico dello stato piemontese procurato dalla politica bellicosa ed espansionista del Cavour (tre guerre in dieci anni!) doveva essere risanato e la bramosia della classe borghese piemontese per la quale le guerre si erano fatte (e alla quale il Cavour stesso apparteneva a pieno titolo) doveva essere, in qualche modo, soddisfatta.

Descrivere vicende economiche e legate al mondo delle banche e della finanza, può risultare al lettore, me ne rendo conto, noioso, ma non è possibile comprendere alcune vicende se ne conoscono le intime implicazioni.

Lo stato sabaudo si era dotato di un sistema monetario che prevedeva l'emissione di carta moneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d'oro e d'argento insieme alle cosiddette "fedi di credito" e alle "polizze notate" alle quali però corrispondeva l'esatto controvalore in oro versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie.

Il problema piemontese consisteva nel mancato rispetto della "convertibilità" della propria moneta, vale a dire che per ogni lira di carta piemontese non corrispondeva un equivalente valore in oro versato presso l'istituto bancario emittente, ciò dovuto alla folle politica di spesa per gli armamenti dello stato.

In parole povere la valuta piemontese era carta straccia, mentre quella napolitana era solidissima e convertibile per sua propria natura (una moneta borbonica doveva il suo valore a se stessa in quanto la quantità d'oro o d'argento in essa contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale).

Quindi cita ancora lo Zitara: "Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete d'oro e d'argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d'emissione sarda - che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni - avrebbe potuto costruire un castello di cartamoneta bancaria alto tre miliardi. Come il Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino (titolari e fondatori della banca, che sarebbe poi divenuta Banca d'Italia) non tessevano e non filavano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l'unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'erano messi".

A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete per trasformarle in carta moneta così come previsto dall'ordinamento piemontese, poiché in tal modo i banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e avrebbero potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano (benché ai due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancora per qualche anno). Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre passò nelle casse piemontesi.

Tuttavia nella riserva della nuova Banca d'Italia, non risultò esserci tutto l'oro incamerato (si vedano a proposito gli Atti Parlamentari dell'epoca).

Evidentemente parte di questo aveva preso altre vie, che per la maggior parte furono quelle della costituzione e finanziamento di imprese al nord operato da nuove banche del nord che avrebbero investito al nord, ma con gli enormi capitali rastrellati al sud.

Ancora adesso, a ben vedere, il sistema creditizio del meridione risente dell'impostazione che allora si diede. Gli istituti di credito adottano ancora oggi politiche ben diverse fra il nord ed il sud, effettuando la raccolta del risparmio nel meridione e gli investimenti nel settentrione.

Il colpo di grazia all'economia del sud fu dato sommando il debito pubblico piemontese, enorme nel 1859 (lo stato più indebitato d'Europa), all'irrilevante debito pubblico del Regno delle due Sicilie, dotato di un sistema di finanza pubblica che forse rigidamente poco investiva, ma che pochissimo prelevava dalle tasche dei propri sudditi. Il risultato fu che le popolazioni e le imprese del Sud, dovettero sopportare una pressione fiscale enorme, sia per pagare i debiti contratti dal governo Savoia nel periodo preunitario (anche quelli per comprare quei cannoni a canna rigata che permisero la vittoria sull'esercito borbonico), sia i debiti che il governo italiano contrarrà a seguire: esso in una folle corsa all''armamento, caratterizzato da scandali e corruzione, diventò, con i suoi titoli di stato, lo zimbello delle piazze economiche d'Europa.

Scrive ancora lo storico Zitara: "La retorica unitaria, che coprì interessi particolari, non deve trarre in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all'intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l'uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un'autosconfessione. Quando, alle fine, quelle "innovazioni", vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo.

Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non avevano bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate.

L'agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all'esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò una crescita smodata e incontrollabile e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali".

Per contro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastri economici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana, principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogi per l'assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo al Nord mentre il Sud finì per pagare sia le spese della guerra d'annessione, sia i costi divenuti astronomici dell'ammodernamento del settentrione.

Il governo di Torino adottò nei confronti dell'ex Regno di Napoli una politica di mero sfruttamento di tipo "colonialista" tanto da far esclamare al deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: "Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala".

La politica dissennatamente liberistica del governo unitario portò, peraltro, la neonata e debolissima economia dell'Italia unita a un crack finanziario.

Le grandi società d'affari francesi ed inglesi fecero invece, attraverso i loro mediatori piemontesi, affari d'oro.

Nel 1866, nonostante il considerevole apporto aureo delle banche del sud, la moneta italiana fu costretta al "corso forzoso" cioè fu considerata dalle piazze finanziarie inconvertibile in oro. Segno inequivocabile di uno stato delle finanze disastroso e di un'inflazione stellare. I titoli di stato italiani arrivarono a valere due terzi del valore nominale, quando quelli emessi dal governo borbonico avevano un rendimento medio del 18%.

Ci vorranno molti decenni perché l'Italia postunitaria, dal punto di vista economico, possa riconquistare una qualche credibilità.

L'odierna arretratezza economica del Meridione è figlia di quelle scelte scellerate e di almeno un cinquantennio di politica economica dissennata e assolutamente dimentica dell'ex Regno di Napoli da parte dello stato unitario.

Si dovrà aspettare il periodo fascista per vedere intrapresa una qualche politica di sviluppo del Meridione con un intervento strutturale sul suo territorio attraverso la costruzione di strade, scuole, acquedotti (quello pugliese su tutti), distillerie ed opifici, la ripresa di una politica di bonifica dei fondi agricoli, il completamento di alcune linee ferroviarie come la Foggia-Capo di Leuca, - iniziata da Ferdinando II di Borbone, dimenticata dai governi sabaudi e finalmente terminata da quello fascista.

Ma il danni e i disastri erano già fatti: una vera economia nel sud non esisteva più e le sue forze più giovani e migliori erano emigrate all'estero.

Nonostante gli interventi negli anni '50 del XX secolo con il piano Marshall (peraltro con nuove sperequazioni tra nord e sud), '60 e '70 con la Cassa per il Mezzogiorno e l'aiuto economico dell'Unione Europea ai giorni nostri, il divario che separa il Sud dal resto d'Italia è ancora notevole.

La popolazione dell'ex Regno di Napoli, falcidiata dagli eccidi del periodo del "brigantaggio", stremata da anni di guerra, di devastazioni e nefandezze d'ogni genere, per sopravvivere, darà vita alla grandiosa emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell''800, che continuerà, con una breve inversione di tendenza nel periodo fascista e una diversificazione delle mete che diventeranno il Belgio, la Germania, la Svizzera, fin quasi ai giorni nostri.

Il Sud pagherà, ancora una volta, con il flusso finanziario generato dal lavoro e dal sacrificio degli emigranti meridionali, lo sviluppo dell'Italia industriale.

Ritengo, in conclusione, che sia un diritto delle gente meridionale riappropriarsi di quel pezzo di storia patria che dopo il 1860 le fu strappato e un dovere del corpo insegnanti dello stato favorire un'analisi storica più oggettiva di quei fatti che tanto peso hanno avuto ed hanno ancora nello sviluppo sociale del Paese, anche attraverso una scelta dei testi scolastici più oculata ed imparziale.

La guerra fra il nord ed il sud d'Italia non si combatte più sui campi di battaglia del Volturno, del Garigliano, sugli spalti di Gaeta o nelle campagne infestate dai "briganti", ma non per questo è meno viva; continua ancora oggi sul terreno di una cultura storica retriva e bugiarda che, alimentando una visione del sud "geneticamente" arretrato, produce un'ulteriore frattura tra due "etnie" che non si sono amate mai.

Il dibattito ancora aperto e vivace sull'ipotesi di una Italia federalista, i toni accesi del Partito della Lega Nord, una certa avversione, subdola ma reale, tra la gente del nord e quella del sud, nonostante il "rimescolamento" dovuto all'emigrazione interna, testimoniano quanto queste problematiche, nate nel 1860, siano ancora attualissime.

Oggi l'unità dello stato, in un periodo dove il progresso passa attraverso enti politico-economici sopranazionali come la Comunità Europea, è certamente un valore da salvaguardare, ma al meridione è dovuta una politica ed una attenzione particolari, una politica legata ai suoi effettivi interessi, che valorizzi le sue enormi risorse e assecondi le sue vocazioni, a parziale indennizzo dei disastri e delle ingiustizie che l'unità vi ha apportato.

L'enorme numero di morti che costò l'annessione, i 23 milioni di emigrati dal meridione dell'ultimo secolo, che hanno sommamente contribuito, a costo di immani sforzi, alla realizzazione di un'Italia moderna e vivibile, meritano quel concreto riconoscimento e quel rispetto che per 140 anni lo Stato, attraverso una cultura storica mendace, gli ha negato e che oggi gli eredi della Nazione Napoletana reclamano.

Fonte: Cronologia.leonardo.it

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Di CARLO COPPOLA


Molti storici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hanno caratterizzato l'unità d'Italia dimostrando, con certezza, che la cultura di "regime" stese, dai primi anni dell'unità, un velo pietoso sulle vicende "risorgimentali" e sul loro reale evolversi.

Tutte le forme d'influenza sulla pubblica opinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta dei Borboni o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di toni positivi.

Si cercò di rendere patetica e ridicola la figura di Francesco II - il "Franceschiello" della vulgata - arrivando alla volgarità di far fare dei fotomontaggi della Regina Maria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti i governi d'Europa e a Francesco II stesso, il quale, figlio di una "santa" e allevato dai preti, con ogni probabilità non aveva mai visto sua moglie nuda nemmeno dal vivo. Risultò, in seguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia di fotografi di dubbia fama, tali Diotallevi, che confessarono di aver agito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscitò scalpore e, benché falsa, servì allo scopo di incrinare la reputazione dei due sovrani in esilio.

La memoria di Re Ferdinando II, padre di Francesco, fu infangata da accuse di brutalità e ferocia: gli fu scritto dal Gladstone - interessatamente - d'essere stato - lui cattolicissimo - "la negazione di Dio".

Soprattutto si minimizzò l'entità della ribellione che infiammava tutto il l'ex Regno di Napoli, riducendolo a "volgare brigantaggio", come si legge nei giornali dell'epoca (giornali, peraltro, pubblicati solo al nord in quanto la libertà di stampa fu abolita al sud fino al 31 dicembre 1865); nasce così la leggenda risorgimentale della "cattiveria" dei Borboni contrapposta alla "bontà" dei piemontesi e dei Savoia che riempirà le pagine dei libri scolastici.

Restano a chiarire le motivazioni che hanno indotto gli ambienti accademici del Regno d'Italia prima, del periodo fascista e della Repubblica poi, a mantenere fin quasi ai giorni nostri, una versione dei fatti così lontana dalla verità.

A mio parere le ragioni sono composite, ma riconducibili ad un concetto che il D'Azeglio enunciò nel secolo scorso "Abbiamo fatto l'Italia, adesso bisogna fare gli Italiani", e possono essere esemplificate nel seguente modo:

a. Il mondo della cultura post-unitaria si adoperò per sradicare dalla coscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevano diventare italiane, il modo piratesco e cruentisissimo con il quale l'unità si ottenne, ammantando di leggende "l'eroico" operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto, schiacciati prima o poi dall'esercito borbonico), sminuendo il fatto che la reale conquista del meridione fu ottenuta, in realtà, dall'esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile - nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte - e tacendo, soprattutto, la circostanza che le popolazioni del sud, salvo una minoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessuna voglia di essere "liberate" e anzi reagirono violentemente contro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori.
Per contro si diede della deposta monarchia borbone un'immagine traviata e distorta, e del '700 e '800 napoletano la visione, bugiarda, di un periodo sinistro d'oppressione e miseria dal quale le genti del sud si emanciperanno, finalmente, con l'unità, liberate dai garibaldini e dai piemontesi dalla schiavitù dello "straniero".

b. Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare del periodo fascista, proteso com'era al perseguimento di valori nazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe, per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo "revisionista", riconducendo anzi l'origine della nazione al periodo romano e saltando a piè pari un millennio di storia meridionale. Il governo fascista ebbe l'indiscutibile merito di cercare di innescare un meccanismo di recupero economico della realtà meridionale, ma da un punto di vista storico insabbiò ancor di più la questione meridionale, ritenendola inutile e dannosa nell'impianto culturale del regime.

c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra, mantenne intatto, in sostanza, l'impianto di pubblica istruzione del periodo fascista.

La nazione emergeva, non bisogna dimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lotta avevano, con la Repubblica di Salò, diviso in due l'Italia, il movimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (erano gli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente il momento di sollevare dubbi sulla veridicità della storia risorgimentale e alimentare così tesi separatiste.

Si è arrivati in questo modo ai giorni nostri, dove ancora adesso, in molti libri scolastici, la storia d'Italia e del meridione in particolare è vergognosamente mistificata.

In campo economico la visione che si dette del Regno delle due Sicilie fu, se possibile, ancora più lontana dalla realtà effettuale.

Il Sud borbonico, come ci riporta Nicola Zitara era: "Un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piú avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d'industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). (...) Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell'economia nazionale".

In realtà il problema centrale dell'intera vicenda è che nel 1860 l'Italia si fece, ma si fece malissimo. Al di là delle orribili stragi che l'unità apportò, le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima i guasti di un processo di unificazione politica dell'Italia che fu attuato senza tenere in minimo conto le diversità, le esigenze economiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivano aggregate.

La formula del "piemontismo", vale a dire della mera e pedissequa estensione degli ordinamenti giuridici ed economici del Regno di Piemonte all'intero territorio italiano, che fu adottata dal governo, e i provvedimenti "rapina" che si fecero ai danni dell'erario del Regno di Napoli, determinarono un'immediata e disastrosa crisi del sistema sociale ed economico nei territori dell'ex Regno di Napoli e il suo irreversibile collasso.

D'altronde le motivazioni politiche che avevano portato all'unità erano - come sempre accade - in subordine rispetto a quelle economiche.

Se si parte dall'assunto, ampiamente dimostrato, che lo stato finanziario del meridione era ben solido nel 1860, si comprendono meglio i meccanismi che hanno innescato la sua rovina.

Nel quadro della politica liberista impostata da Cavour, il paese meridionale, con i suoi quasi nove milioni di abitanti, con il suo notevole risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva un boccone prelibato.

L'abnorme debito pubblico dello stato piemontese procurato dalla politica bellicosa ed espansionista del Cavour (tre guerre in dieci anni!) doveva essere risanato e la bramosia della classe borghese piemontese per la quale le guerre si erano fatte (e alla quale il Cavour stesso apparteneva a pieno titolo) doveva essere, in qualche modo, soddisfatta.

Descrivere vicende economiche e legate al mondo delle banche e della finanza, può risultare al lettore, me ne rendo conto, noioso, ma non è possibile comprendere alcune vicende se ne conoscono le intime implicazioni.

Lo stato sabaudo si era dotato di un sistema monetario che prevedeva l'emissione di carta moneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d'oro e d'argento insieme alle cosiddette "fedi di credito" e alle "polizze notate" alle quali però corrispondeva l'esatto controvalore in oro versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie.

Il problema piemontese consisteva nel mancato rispetto della "convertibilità" della propria moneta, vale a dire che per ogni lira di carta piemontese non corrispondeva un equivalente valore in oro versato presso l'istituto bancario emittente, ciò dovuto alla folle politica di spesa per gli armamenti dello stato.

In parole povere la valuta piemontese era carta straccia, mentre quella napolitana era solidissima e convertibile per sua propria natura (una moneta borbonica doveva il suo valore a se stessa in quanto la quantità d'oro o d'argento in essa contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale).

Quindi cita ancora lo Zitara: "Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete d'oro e d'argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d'emissione sarda - che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni - avrebbe potuto costruire un castello di cartamoneta bancaria alto tre miliardi. Come il Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino (titolari e fondatori della banca, che sarebbe poi divenuta Banca d'Italia) non tessevano e non filavano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l'unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'erano messi".

A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete per trasformarle in carta moneta così come previsto dall'ordinamento piemontese, poiché in tal modo i banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e avrebbero potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano (benché ai due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancora per qualche anno). Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre passò nelle casse piemontesi.

Tuttavia nella riserva della nuova Banca d'Italia, non risultò esserci tutto l'oro incamerato (si vedano a proposito gli Atti Parlamentari dell'epoca).

Evidentemente parte di questo aveva preso altre vie, che per la maggior parte furono quelle della costituzione e finanziamento di imprese al nord operato da nuove banche del nord che avrebbero investito al nord, ma con gli enormi capitali rastrellati al sud.

Ancora adesso, a ben vedere, il sistema creditizio del meridione risente dell'impostazione che allora si diede. Gli istituti di credito adottano ancora oggi politiche ben diverse fra il nord ed il sud, effettuando la raccolta del risparmio nel meridione e gli investimenti nel settentrione.

Il colpo di grazia all'economia del sud fu dato sommando il debito pubblico piemontese, enorme nel 1859 (lo stato più indebitato d'Europa), all'irrilevante debito pubblico del Regno delle due Sicilie, dotato di un sistema di finanza pubblica che forse rigidamente poco investiva, ma che pochissimo prelevava dalle tasche dei propri sudditi. Il risultato fu che le popolazioni e le imprese del Sud, dovettero sopportare una pressione fiscale enorme, sia per pagare i debiti contratti dal governo Savoia nel periodo preunitario (anche quelli per comprare quei cannoni a canna rigata che permisero la vittoria sull'esercito borbonico), sia i debiti che il governo italiano contrarrà a seguire: esso in una folle corsa all''armamento, caratterizzato da scandali e corruzione, diventò, con i suoi titoli di stato, lo zimbello delle piazze economiche d'Europa.

Scrive ancora lo storico Zitara: "La retorica unitaria, che coprì interessi particolari, non deve trarre in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all'intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l'uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un'autosconfessione. Quando, alle fine, quelle "innovazioni", vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo.

Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non avevano bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate.

L'agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all'esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò una crescita smodata e incontrollabile e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali".

Per contro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastri economici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana, principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogi per l'assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo al Nord mentre il Sud finì per pagare sia le spese della guerra d'annessione, sia i costi divenuti astronomici dell'ammodernamento del settentrione.

Il governo di Torino adottò nei confronti dell'ex Regno di Napoli una politica di mero sfruttamento di tipo "colonialista" tanto da far esclamare al deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: "Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala".

La politica dissennatamente liberistica del governo unitario portò, peraltro, la neonata e debolissima economia dell'Italia unita a un crack finanziario.

Le grandi società d'affari francesi ed inglesi fecero invece, attraverso i loro mediatori piemontesi, affari d'oro.

Nel 1866, nonostante il considerevole apporto aureo delle banche del sud, la moneta italiana fu costretta al "corso forzoso" cioè fu considerata dalle piazze finanziarie inconvertibile in oro. Segno inequivocabile di uno stato delle finanze disastroso e di un'inflazione stellare. I titoli di stato italiani arrivarono a valere due terzi del valore nominale, quando quelli emessi dal governo borbonico avevano un rendimento medio del 18%.

Ci vorranno molti decenni perché l'Italia postunitaria, dal punto di vista economico, possa riconquistare una qualche credibilità.

L'odierna arretratezza economica del Meridione è figlia di quelle scelte scellerate e di almeno un cinquantennio di politica economica dissennata e assolutamente dimentica dell'ex Regno di Napoli da parte dello stato unitario.

Si dovrà aspettare il periodo fascista per vedere intrapresa una qualche politica di sviluppo del Meridione con un intervento strutturale sul suo territorio attraverso la costruzione di strade, scuole, acquedotti (quello pugliese su tutti), distillerie ed opifici, la ripresa di una politica di bonifica dei fondi agricoli, il completamento di alcune linee ferroviarie come la Foggia-Capo di Leuca, - iniziata da Ferdinando II di Borbone, dimenticata dai governi sabaudi e finalmente terminata da quello fascista.

Ma il danni e i disastri erano già fatti: una vera economia nel sud non esisteva più e le sue forze più giovani e migliori erano emigrate all'estero.

Nonostante gli interventi negli anni '50 del XX secolo con il piano Marshall (peraltro con nuove sperequazioni tra nord e sud), '60 e '70 con la Cassa per il Mezzogiorno e l'aiuto economico dell'Unione Europea ai giorni nostri, il divario che separa il Sud dal resto d'Italia è ancora notevole.

La popolazione dell'ex Regno di Napoli, falcidiata dagli eccidi del periodo del "brigantaggio", stremata da anni di guerra, di devastazioni e nefandezze d'ogni genere, per sopravvivere, darà vita alla grandiosa emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell''800, che continuerà, con una breve inversione di tendenza nel periodo fascista e una diversificazione delle mete che diventeranno il Belgio, la Germania, la Svizzera, fin quasi ai giorni nostri.

Il Sud pagherà, ancora una volta, con il flusso finanziario generato dal lavoro e dal sacrificio degli emigranti meridionali, lo sviluppo dell'Italia industriale.

Ritengo, in conclusione, che sia un diritto delle gente meridionale riappropriarsi di quel pezzo di storia patria che dopo il 1860 le fu strappato e un dovere del corpo insegnanti dello stato favorire un'analisi storica più oggettiva di quei fatti che tanto peso hanno avuto ed hanno ancora nello sviluppo sociale del Paese, anche attraverso una scelta dei testi scolastici più oculata ed imparziale.

La guerra fra il nord ed il sud d'Italia non si combatte più sui campi di battaglia del Volturno, del Garigliano, sugli spalti di Gaeta o nelle campagne infestate dai "briganti", ma non per questo è meno viva; continua ancora oggi sul terreno di una cultura storica retriva e bugiarda che, alimentando una visione del sud "geneticamente" arretrato, produce un'ulteriore frattura tra due "etnie" che non si sono amate mai.

Il dibattito ancora aperto e vivace sull'ipotesi di una Italia federalista, i toni accesi del Partito della Lega Nord, una certa avversione, subdola ma reale, tra la gente del nord e quella del sud, nonostante il "rimescolamento" dovuto all'emigrazione interna, testimoniano quanto queste problematiche, nate nel 1860, siano ancora attualissime.

Oggi l'unità dello stato, in un periodo dove il progresso passa attraverso enti politico-economici sopranazionali come la Comunità Europea, è certamente un valore da salvaguardare, ma al meridione è dovuta una politica ed una attenzione particolari, una politica legata ai suoi effettivi interessi, che valorizzi le sue enormi risorse e assecondi le sue vocazioni, a parziale indennizzo dei disastri e delle ingiustizie che l'unità vi ha apportato.

L'enorme numero di morti che costò l'annessione, i 23 milioni di emigrati dal meridione dell'ultimo secolo, che hanno sommamente contribuito, a costo di immani sforzi, alla realizzazione di un'Italia moderna e vivibile, meritano quel concreto riconoscimento e quel rispetto che per 140 anni lo Stato, attraverso una cultura storica mendace, gli ha negato e che oggi gli eredi della Nazione Napoletana reclamano.

Fonte: Cronologia.leonardo.it

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Angelo Manna - "Il Tormentone"1979 -Lezione di geografia


http://www.youtube.com/watch?v=wSX4Br6XBO0&feature=player_embedded

Audio tratto da una puntata della trasmissione "Il Tormentone" 1979.

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http://www.youtube.com/watch?v=wSX4Br6XBO0&feature=player_embedded

Audio tratto da una puntata della trasmissione "Il Tormentone" 1979.

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venerdì 30 luglio 2010

Sondaggio Swg-Affaritaliani.it: gli italiani non credono nella Padania. Ma al Nord prevale il sì alla secessione



Secondo il 55% degli italiani la Padania è un'invenzione. Esiste, invece, per il 42%. Non sa il 3%. E' il risultato di Trendsetting, il sondaggio realizzato da Affaritaliani.it in collaborazione con Swg. Ma la maggioranza degli elettori di Centrodestra (59%) dà ragione a Umberto Bossi e alla Lega. Bocciata anche la secessione del Nord dal resto del Paese: il totale dei favorevoli raggiunge soltanto il 35% (maggioranza però tra gli elettori di Centrodestra). Decisamente contrario all'indipendenza della Padania il 46% del campione rappresentativo della popolazione italiana. Contrario il 17%.Attenzione, però, perché il 61% dei cittadini del Nord appoggia l'ipotesi estrema della secessione. Gli italiani, al contrario, approvano il federalismo, che convince ben il 58% del campione (l'80% al Nord, il 50% al Centro e il 35% al Sud).

IL COMMENTO DI SWG - "Più della metà degli italiani, vigili e attenti alle polemiche soprattutto a quelle di matrice politica, interpellata sul confronto Bossi-Fini, nega l’esistenza della Padania e sostiene trattarsi di un’invenzione. L’esistenza di questa regione riconducibile alla valle del Po, viene negata in maniera inappellabile dall’elettorato di centro sinistra, ma trova un riscontro limitato anche tra gli elettori di centro destra e più di un terzo ne contesta l’esistenza.

Diverso invece appare l’atteggiamento nei confronti del federalismo, verso il quale si dichiara favorevole quasi il 60% degli italiani. La maggior propensione si registra tra chi si dichiara simpatizzante di centro destra e tra chi risiede nelle regioni del Nord dove l’adesione tocca 8 intervistati su 10. Ancora diversa appare invece la questione secessione che raccoglie il favore di circa un terzo degli intervistati, in particolare di quelli residenti al Nord. L’unità del paese sembra difficile da spezzare e mentre si può essere d’accordo nell’applicazione del federalismo non sembra esserci spazio per intraprendere la via della secessione auspicata dalla Lega".

NOTA INFORMATIVA AI SENSI DELL’ART. 2 DELLADELIBERA N. 153/02/CSP DELL’AUTORITA’ PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI
Soggetto realizzatore: SWG Srl-Trieste
Committente e acquirente: Affaritaliani.it
Data di esecuzione: 24-25 giugno 2010
Tipo di rilevazione: sondaggio online CAWI su un campione nazionale stratificato per quote di 1400 soggetti maggiorenni (su 1900 contatti)
Il documento completo è disponibile sul sito: sondaggipoliticoelettorali.it

CLICCA QUI PER VEDERE LE TABELLE DEL SONDAGGIOAFFARITALIANI.IT-SWG



Fonte:Affari italiani

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Secondo il 55% degli italiani la Padania è un'invenzione. Esiste, invece, per il 42%. Non sa il 3%. E' il risultato di Trendsetting, il sondaggio realizzato da Affaritaliani.it in collaborazione con Swg. Ma la maggioranza degli elettori di Centrodestra (59%) dà ragione a Umberto Bossi e alla Lega. Bocciata anche la secessione del Nord dal resto del Paese: il totale dei favorevoli raggiunge soltanto il 35% (maggioranza però tra gli elettori di Centrodestra). Decisamente contrario all'indipendenza della Padania il 46% del campione rappresentativo della popolazione italiana. Contrario il 17%.Attenzione, però, perché il 61% dei cittadini del Nord appoggia l'ipotesi estrema della secessione. Gli italiani, al contrario, approvano il federalismo, che convince ben il 58% del campione (l'80% al Nord, il 50% al Centro e il 35% al Sud).

IL COMMENTO DI SWG - "Più della metà degli italiani, vigili e attenti alle polemiche soprattutto a quelle di matrice politica, interpellata sul confronto Bossi-Fini, nega l’esistenza della Padania e sostiene trattarsi di un’invenzione. L’esistenza di questa regione riconducibile alla valle del Po, viene negata in maniera inappellabile dall’elettorato di centro sinistra, ma trova un riscontro limitato anche tra gli elettori di centro destra e più di un terzo ne contesta l’esistenza.

Diverso invece appare l’atteggiamento nei confronti del federalismo, verso il quale si dichiara favorevole quasi il 60% degli italiani. La maggior propensione si registra tra chi si dichiara simpatizzante di centro destra e tra chi risiede nelle regioni del Nord dove l’adesione tocca 8 intervistati su 10. Ancora diversa appare invece la questione secessione che raccoglie il favore di circa un terzo degli intervistati, in particolare di quelli residenti al Nord. L’unità del paese sembra difficile da spezzare e mentre si può essere d’accordo nell’applicazione del federalismo non sembra esserci spazio per intraprendere la via della secessione auspicata dalla Lega".

NOTA INFORMATIVA AI SENSI DELL’ART. 2 DELLADELIBERA N. 153/02/CSP DELL’AUTORITA’ PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI
Soggetto realizzatore: SWG Srl-Trieste
Committente e acquirente: Affaritaliani.it
Data di esecuzione: 24-25 giugno 2010
Tipo di rilevazione: sondaggio online CAWI su un campione nazionale stratificato per quote di 1400 soggetti maggiorenni (su 1900 contatti)
Il documento completo è disponibile sul sito: sondaggipoliticoelettorali.it

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Fonte:Affari italiani

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Quando l'orgoglio dei terroni si trasforma in un bestseller


Un libro prende le difese del Sud nella storia d'Italia e diventa un caso editoriale. La tesi? Il meridione è arretrato perché è stato derubato dai conquistatori del Nord


Di Giordano Bruno Guerri


Ha scalato per settimane le classifiche dei saggi più vendu­ti, e da settimane è stabilmente al primo posto, senza segnali di flessione, anzi. E parliamo di un autore - Pino Aprile - di lun­go e onorato corso giornalisti­co, ma non famosissimo, né no­to alle patrie tv. Per di più il suo libro ha un titolo - Terroni (Piemme) - che sembra poter allettare soltanto dei veterole­ghisti, arcaici come l'espressio­ne ancora usata con disprezzo per indicare gli italiani del Sud. Invece Terroni è la rivendica­zione dell'orgoglio meridiona­le, oltre che un tentativo di spie­gare - in modo appassionato e polemico - come l'Unità d'Ita­lia abbia danneggiato il Sud e quanto sia costata ai suoi abi­tanti: ridotti, decennio dopo de­cennio, a italiani di seconda scelta, forza lavoro malsoppor­tata al Nord, presunti pelandro­ni e certamente similmafiosi nelle loro terre. Buttato di traverso alle cele­brazioni per i 150 anni dell'Uni­tà, il libro di Aprile non ha il pre­gio del rigore storiografico, ma quello di una furia iconoclasta nel raccontare fatti noti soltan­to agli storici, fatti tenuti nasco­sti a tutti gli studenti che si sono seduti sui banchi delle scuole italiane dal 1861 a oggi. Dun­que ignoranti anche dagli stes­si meridionali: che adesso ­non soltanto loro - scoprono certe verità in Terroni e ne fan­no una sorta di Bibbia delle ri­vendicazioni del Sud. Sostenu­to com'è dai numerosi- piccoli ma combattivi- gruppi neobor­bonici come dal Partito del Sud di Antonio Ciano, sindaco di Gaeta, il volume di Aprile po­trebbe diventare il testo sacro di una futura Lega Meridiona­­le, contrapposta a quella di Bos­si: specialmente se l'attuazione del federalismo fiscale provo­cherà i danni che al Sud tutti si aspettano. Da tutto ciò nasce il successo di un saggio violento quanto ben scritto, che sa portare un' idea dove vuole farla arrivare. A causa del suo ben maggiore equilibrio non ebbe lo stesso successo un libro bello come Sud. Un viaggio civile e senti­mentale, di Marcello Venezia­ni (Mondatori 2009). E per lo stesso motivo temo che non avrà lo stesso successo (corna e stracorna) il mio Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimen­to e del brigantaggio, in uscita a fine anno, sempre da Monda­dori. Il successo di Aprile era prevedibile, e non a caso appe­na Terroni uscì organizzai un dibattito in piazza fra lui, Vene­ziani e me, che si terrà a Mono­poli il 5 agosto nell'ambito del progetto Cantiere Cultura. Sa­ranno interessanti soprattutto le reazioni del pubblico. Le mie tesi non sono dissimili da quelle di Aprile, anche se equilibrate dai necessari distin­guo, e anche se non sono 'terro­ne' come lui. L'annessione del Sud fu una guerra di annessio­ne e di conquista, spietata e bru­tale. Il Regno delle Due Sicilie non era il paradiso in terra, cer­to, ma neppure l'inferno. Il pa­ternalismo borbonico permet­teva pure ai più poveri di vivere decentemente anche nelle con­dizioni di arretratezza feudale con le quali venivano gestite le terre coltivabili. La vita cultura­le, almeno quella alta, era di tut­to rispetto. Le industrie, in parti­colare quelle metalmeccani­che e tessili, erano all'altezza- e a volte superiori - a quelle del Nord. Soprattutto, le casse del­lo S­tato e la circolazione mone­taria erano più ricche che nel re­sto d'Italia messo insieme. Denaro, terre e industrie face­vano gola ai Savoia, molto me­no romantici di patrioti, il cui motto era: 'L'Italia è un carcio­fo da mangiare foglia a foglia.' Infatti l'ex Regno delle Due Sici­lie venne depredato di tutto: l'oro delle sue banche venne per lo più reinvestito al Nord, le industrie smantellate e trasferi­te più vicino alle Alpi; le terre, anche quelle sottratte al clero, non furono date ai contadini ­come aveva promesso Garibal­di - ma cedute a basso prezzo alla borghesia settentrionale o agli antichi feudatari divenuti improvvisamente filounitari. A rimetterci fu il popolo, che d'improvviso si vide sconvolta l'esistenza da invasori (i cosid­detti plebisciti furono una truf­fa di Stato) che imponevano re­gole e leggi tali da cancellare con un tratto di penna abitudi­ni secolari: basti pensare alla le­va obbligatoria imposta dal nuovo Stato. Fu così che nac­que il fenomeno sprezzante­mente definito 'brigantaggio'. Gli uomini che sono passati alla storia (per modo di dire, perché i testi di storia ne parla­no pochissimo) come 'bri­ganti', a volte erano veri ban­diti, ma oggi li chiamerem­mo partigiani. Fu una guerra civile, la lotta che si svolse fin dal 1860 fra 'i piemontesi' e decine di migliaia di contadini saliti sui monti e appoggiati da buo­na parte della popolazione. Il neonato Regno d'Italia, per stroncare la ribellione, dovette impiegare quasi metà dell'eser­cito e- dall'agosto del 1863- un provvedimento liberticida, la legge Pica, che metteva in stato d'assedio quasi tutto il Sud. Una legge che permetteva ai tri­buna­li militari di fucilare chiun­que senza possibilità d'appello e che - per la prima volta nella nostra storia - premiava i pre­sunti 'pentiti' con denaro e li­bertà facile. Solo così il fenome­no venne sconfitto, negli anni successivi. Nel frattempo, però, c'era sta­to un numero non calcolabile di morti (i documenti furono in gran parte distrutti). Fra i milita­ri, di certo, ci furono più caduti che i 7/8.000 di tutte e tre le guer­re d'indipendenza messe insie­me. Fra i 'terroni' si possono calcolare almeno centomila vit­time, fra morti in combattimen­to, in prigione, fucilati, per sten­ti e malattie. Le crudeltà, come in tutte le guerre civili, furono ef­ferate: se alcuni briganti mutila­vano i soldati e ne mangiavano il cuore, i soldati stupravano, saccheggiavano, esibivano le teste mozzate dei nemici. In­cendiavano paesi interi, come Pontelandolfo e Casalduni, completamente rasi al suolo per vendicare l'uccisione di 40 bersaglieri. E Pino Aprile non usa mano leggera, per un para­g­one con i metodi usati dai nazi­sti nella Seconda guerra mon­diale. Le conseguenze principali fu­rono sostanzialmente tre, a 'pa­cificazione' avvenuta. Prima di tutto, la spaventosa miseria del Sud, che tra fine Ottocento e ini­zio Novecento costrinse milio­ni e milioni di meridionali a emigrare in Europa e nelle Americhe. Seconda conse­guenza, una sorta di rassegna­zione rancorosa da parte dei conquistati, sintetizzabile con la frase: 'Ci avete voluto? Ades­so manteneteci.' Infine il bri­gantaggio - e il modo usato per combatterlo- rafforzarono a di­smisura mafia, camorra e 'ndrangheta. Oggi possiamo dire che an­che il meridione d'Italia ha fini­to - molto tardivamente - per trarre vantaggi dall'Unità. Ma non è possibile dire se, rimasto indipendente, avrebbe finito per somigliare più a uno state­rello balcanico o nordafricano, o sarebbe diventato una terra felice, con tutte le sue genti al so­le, con un'economia propria, il turismo e un ruolo rilevante nel Mediterraneo. Di certo, nascondere quel che avvenne non è servito a una crescita del Paese e della nostra coscienza nazionale: in quasi ogni famiglia del Sud si tramanda il ricordo di antichi lutti, di antichi soprusi subiti. E' per questo che il libro di Pino Aprile - che arriva come uno schiaffo in faccia a chiunque lo legga - ottiene tanto successo. E' come svegliarsi e scoprire che l'incubo appena sognato era una realtà.

Fonte:Il Giornale
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Un libro prende le difese del Sud nella storia d'Italia e diventa un caso editoriale. La tesi? Il meridione è arretrato perché è stato derubato dai conquistatori del Nord


Di Giordano Bruno Guerri


Ha scalato per settimane le classifiche dei saggi più vendu­ti, e da settimane è stabilmente al primo posto, senza segnali di flessione, anzi. E parliamo di un autore - Pino Aprile - di lun­go e onorato corso giornalisti­co, ma non famosissimo, né no­to alle patrie tv. Per di più il suo libro ha un titolo - Terroni (Piemme) - che sembra poter allettare soltanto dei veterole­ghisti, arcaici come l'espressio­ne ancora usata con disprezzo per indicare gli italiani del Sud. Invece Terroni è la rivendica­zione dell'orgoglio meridiona­le, oltre che un tentativo di spie­gare - in modo appassionato e polemico - come l'Unità d'Ita­lia abbia danneggiato il Sud e quanto sia costata ai suoi abi­tanti: ridotti, decennio dopo de­cennio, a italiani di seconda scelta, forza lavoro malsoppor­tata al Nord, presunti pelandro­ni e certamente similmafiosi nelle loro terre. Buttato di traverso alle cele­brazioni per i 150 anni dell'Uni­tà, il libro di Aprile non ha il pre­gio del rigore storiografico, ma quello di una furia iconoclasta nel raccontare fatti noti soltan­to agli storici, fatti tenuti nasco­sti a tutti gli studenti che si sono seduti sui banchi delle scuole italiane dal 1861 a oggi. Dun­que ignoranti anche dagli stes­si meridionali: che adesso ­non soltanto loro - scoprono certe verità in Terroni e ne fan­no una sorta di Bibbia delle ri­vendicazioni del Sud. Sostenu­to com'è dai numerosi- piccoli ma combattivi- gruppi neobor­bonici come dal Partito del Sud di Antonio Ciano, sindaco di Gaeta, il volume di Aprile po­trebbe diventare il testo sacro di una futura Lega Meridiona­­le, contrapposta a quella di Bos­si: specialmente se l'attuazione del federalismo fiscale provo­cherà i danni che al Sud tutti si aspettano. Da tutto ciò nasce il successo di un saggio violento quanto ben scritto, che sa portare un' idea dove vuole farla arrivare. A causa del suo ben maggiore equilibrio non ebbe lo stesso successo un libro bello come Sud. Un viaggio civile e senti­mentale, di Marcello Venezia­ni (Mondatori 2009). E per lo stesso motivo temo che non avrà lo stesso successo (corna e stracorna) il mio Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimen­to e del brigantaggio, in uscita a fine anno, sempre da Monda­dori. Il successo di Aprile era prevedibile, e non a caso appe­na Terroni uscì organizzai un dibattito in piazza fra lui, Vene­ziani e me, che si terrà a Mono­poli il 5 agosto nell'ambito del progetto Cantiere Cultura. Sa­ranno interessanti soprattutto le reazioni del pubblico. Le mie tesi non sono dissimili da quelle di Aprile, anche se equilibrate dai necessari distin­guo, e anche se non sono 'terro­ne' come lui. L'annessione del Sud fu una guerra di annessio­ne e di conquista, spietata e bru­tale. Il Regno delle Due Sicilie non era il paradiso in terra, cer­to, ma neppure l'inferno. Il pa­ternalismo borbonico permet­teva pure ai più poveri di vivere decentemente anche nelle con­dizioni di arretratezza feudale con le quali venivano gestite le terre coltivabili. La vita cultura­le, almeno quella alta, era di tut­to rispetto. Le industrie, in parti­colare quelle metalmeccani­che e tessili, erano all'altezza- e a volte superiori - a quelle del Nord. Soprattutto, le casse del­lo S­tato e la circolazione mone­taria erano più ricche che nel re­sto d'Italia messo insieme. Denaro, terre e industrie face­vano gola ai Savoia, molto me­no romantici di patrioti, il cui motto era: 'L'Italia è un carcio­fo da mangiare foglia a foglia.' Infatti l'ex Regno delle Due Sici­lie venne depredato di tutto: l'oro delle sue banche venne per lo più reinvestito al Nord, le industrie smantellate e trasferi­te più vicino alle Alpi; le terre, anche quelle sottratte al clero, non furono date ai contadini ­come aveva promesso Garibal­di - ma cedute a basso prezzo alla borghesia settentrionale o agli antichi feudatari divenuti improvvisamente filounitari. A rimetterci fu il popolo, che d'improvviso si vide sconvolta l'esistenza da invasori (i cosid­detti plebisciti furono una truf­fa di Stato) che imponevano re­gole e leggi tali da cancellare con un tratto di penna abitudi­ni secolari: basti pensare alla le­va obbligatoria imposta dal nuovo Stato. Fu così che nac­que il fenomeno sprezzante­mente definito 'brigantaggio'. Gli uomini che sono passati alla storia (per modo di dire, perché i testi di storia ne parla­no pochissimo) come 'bri­ganti', a volte erano veri ban­diti, ma oggi li chiamerem­mo partigiani. Fu una guerra civile, la lotta che si svolse fin dal 1860 fra 'i piemontesi' e decine di migliaia di contadini saliti sui monti e appoggiati da buo­na parte della popolazione. Il neonato Regno d'Italia, per stroncare la ribellione, dovette impiegare quasi metà dell'eser­cito e- dall'agosto del 1863- un provvedimento liberticida, la legge Pica, che metteva in stato d'assedio quasi tutto il Sud. Una legge che permetteva ai tri­buna­li militari di fucilare chiun­que senza possibilità d'appello e che - per la prima volta nella nostra storia - premiava i pre­sunti 'pentiti' con denaro e li­bertà facile. Solo così il fenome­no venne sconfitto, negli anni successivi. Nel frattempo, però, c'era sta­to un numero non calcolabile di morti (i documenti furono in gran parte distrutti). Fra i milita­ri, di certo, ci furono più caduti che i 7/8.000 di tutte e tre le guer­re d'indipendenza messe insie­me. Fra i 'terroni' si possono calcolare almeno centomila vit­time, fra morti in combattimen­to, in prigione, fucilati, per sten­ti e malattie. Le crudeltà, come in tutte le guerre civili, furono ef­ferate: se alcuni briganti mutila­vano i soldati e ne mangiavano il cuore, i soldati stupravano, saccheggiavano, esibivano le teste mozzate dei nemici. In­cendiavano paesi interi, come Pontelandolfo e Casalduni, completamente rasi al suolo per vendicare l'uccisione di 40 bersaglieri. E Pino Aprile non usa mano leggera, per un para­g­one con i metodi usati dai nazi­sti nella Seconda guerra mon­diale. Le conseguenze principali fu­rono sostanzialmente tre, a 'pa­cificazione' avvenuta. Prima di tutto, la spaventosa miseria del Sud, che tra fine Ottocento e ini­zio Novecento costrinse milio­ni e milioni di meridionali a emigrare in Europa e nelle Americhe. Seconda conse­guenza, una sorta di rassegna­zione rancorosa da parte dei conquistati, sintetizzabile con la frase: 'Ci avete voluto? Ades­so manteneteci.' Infine il bri­gantaggio - e il modo usato per combatterlo- rafforzarono a di­smisura mafia, camorra e 'ndrangheta. Oggi possiamo dire che an­che il meridione d'Italia ha fini­to - molto tardivamente - per trarre vantaggi dall'Unità. Ma non è possibile dire se, rimasto indipendente, avrebbe finito per somigliare più a uno state­rello balcanico o nordafricano, o sarebbe diventato una terra felice, con tutte le sue genti al so­le, con un'economia propria, il turismo e un ruolo rilevante nel Mediterraneo. Di certo, nascondere quel che avvenne non è servito a una crescita del Paese e della nostra coscienza nazionale: in quasi ogni famiglia del Sud si tramanda il ricordo di antichi lutti, di antichi soprusi subiti. E' per questo che il libro di Pino Aprile - che arriva come uno schiaffo in faccia a chiunque lo legga - ottiene tanto successo. E' come svegliarsi e scoprire che l'incubo appena sognato era una realtà.

Fonte:Il Giornale
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giovedì 29 luglio 2010

Un fantasma si aggira per l’Europa: l’ennesima bugia di Tremonti

Di Pietro Salvato


Questa manovra economica – a detta del ministro dell’Economia – è in linea con gli impegni presi dagli altri paesi in sede europea ed accompagnerà la ripresa. E’ davvero così? Qualcuno ha fatto un po’ di raffronti e scoperto che… non è vero

4837844627 7368a258a8 b Un fantasma si aggira per lEuropa:  lennesima bugia di Tremonti

Mentre il governo si appresta a convertire definitivamente in legge il suo D.lg. n. 78, ossia la “manovra correttiva dei Conti pubblici”, con l’ennesima fiducia parlamentare, il ministro dell’Economia, un po’ su tutti i media, ha rilasciato una serie di dichiarazioni sulla qualità – più che sui reali contenuti – di questo provvedimento. “I nostri numeri sono in linea con l’Europa”. Oppure, “Sul 2010 il decreto pesa minimamente è la correzione che avremmo fatto a luglio e che invece abbiamo anticipato a fine maggio, perché i tempi alla politica sono imposti dalla realtà”. Peccato che ad aprile – quindi un mese prima – ospite da Santoro in Tv, lo stesso Tremonti giurava solennemente che non c’era nessuna manovra correttiva alle porte quest’anno.

DEBUNKING DI UNA MANOVRA – Facendo un po’ di confronti con le manovre, l’entità dei tagli e degli investimenti attuati dagli altri grandi paesi europei ci si rende subito conto che la realtà è molto diversa. l’Italia per sempio esprime circa un sesto del Pil europeo ( si veda l’ultima colonna della tabella), mentre il debito pubblico italiano costituisce quasi un quarto del debito del continente. Ciononostante l’Italia ha “corretto” il suo bilancio per solo 1,6% del Pil nel quinquennio 2010-15 (prima colonna della tabella), ossia ben al disotto di quanto fatto mediamente in Europa (4,2%). Paolo Manasse del sito lavoce.info ha effettuato una simulazione o meglio un benchmark tra i vari paesi del continente per capire chi ha operato meglio. “Il punto – spiega l’economista – è che dobbiamo paragonare la manovra di aggiustamento di bilancio del paese “A” con quella che un “paese europeo medio” avrebbe scelto se avesse avuto gli stessi fondamentali economici di A nel 2009 e cioè, a parità di bilancio primario, debito pubblico, apprezzamento del tasso di cambio reale, saldo delle partite correnti e tasso di disoccupazione”. Dal confronto emergono dati particolarmente interessanti.

4838457394 2cca70830f z Un fantasma si aggira per lEuropa:  lennesima bugia di Tremonti

UN BENCHMARK PER FARE CHIAREZZA – Dalla figura si ricava come la manovra predisposta dal Belgio – vale a dire i suoi tagli di bilancio praticati – risulta ben più “pesante” rispetto a quella degli altri paesi, a parità di fondamentali, per circa 1,5-1,8 punti di Pil per il lustro 2010-15. Allo stesso modo sia l’Olanda, sia la Germania, che pure presentano una situazione macroeconomica assai meno critica, hanno operato tagli in eccesso compresi tra +0,4-1% di Pil. Persino le derelitte Portogallo (+1-1,9%), Spagna (+0,8-1,3%) e Grecia (+ 0,7 punti di Pil) hanno vistosamente tagliato sul piano delle spese nel tentativo di ridurre i loro elevatissimi deficit. Ricordiamo che la Commissione europea, al termine di questo periodo, vuole riportare il rapporto Deficit/Pil, per ogni paese, di nuovo al 3% (In Italia attualmente è al 5%) così come previsto dai parametri di Maastrict. Il benchmark è stato effettuato tenendo conto di una variabile. La presenza e l’assenza (dal computo) dei conti della Grecia. La Gran Bretagna, ad esempio, appare in linea con la media europea, quando si include la Grecia nel benchmark, mentre risulta addirittura tra i virtuosi (+1,8 punti di Pil) quando la si esclude. L’Irlanda, apparentemente, appare il paese messo peggio. In realtà, i suoi tagli sono stati effettuati (su raccomandazione dell’UE, dato lo stato disastroso dei loro conti pubblici) ben prima delle varie manovre praticate nel vecchio continente questa estate. Per questo, dunque, non sono stati presi in considerazione.

CHI STA MESSO MEGLIO E CHI PEGGIO? – Il grafico è eloquente. Tra i grandi d’Europa, l’Italia è il paese che ha operato peggio. “Ai livelli attuali di fondamentali – spiega l’economista de lavoce.info – per essere in linea con l’Europa il nostro paese dovrebbe metter in cantiere tagli addizionali di bilancio per 2,4-2,7 punti di Pil nel prossimo quinquennio”. In particolare, poi, emerge che tra i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) non tenendo conto, come detto, della situazione irlandese, Grecia, Portogallo e Spagna, ossia i paesi più colpiti dalla crisi finanziaria, hanno operato in misura drastica sul versante dei tagli della loro spesa pubblica. Si capisce ovviamente il perché. I loro debiti sovrani sono finiti sotto il tiro incrociato dei mercati finanziari (specie quelli over the counter). Per questo, i loro tagli hanno il compito di rassicurare gli investitori – a cominciare da quelli internazionali – e di ridurre, possibilmente, gli spread dei loro titoli di stato rispetto ai bund tedeschi. Viceversa, Germania e l’Olanda che pure hanno operato in modo virtuoso, hanno praticato – a parità di fondamentali – meno tagli, ma si sono cautelate ed in prospettiva rafforzate sul rientro dei loro rispettivi deficit. Il Belgio, apparentemente, è il paese che ha praticato i tagli più drastici. Lo socpo è chiaro- Presentando un elevato debito pubblico, sta cercando con questa manovra di non cadere “nel fango” e di ritrovarsi in compagnia degli altri PIIGS. Paradossalmente, chi ha operato peggio, con buona pace del ministro Tremonti, è stata proprio l’Italia. E Proprio per questo – siccome al 2011 mancano oramai solo pochi mesi – una nuova manovra “correttiva” non appare improbabile. Tutt’altro. Solo che allora sarà ancora più difficile raccontare la storiella – peraltro falsa, come già abbiamo visto – che questo è il governo che non mette le mani nelle tasche degli italiani.

Fonte:Giornalettismo


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Di Pietro Salvato


Questa manovra economica – a detta del ministro dell’Economia – è in linea con gli impegni presi dagli altri paesi in sede europea ed accompagnerà la ripresa. E’ davvero così? Qualcuno ha fatto un po’ di raffronti e scoperto che… non è vero

4837844627 7368a258a8 b Un fantasma si aggira per lEuropa:  lennesima bugia di Tremonti

Mentre il governo si appresta a convertire definitivamente in legge il suo D.lg. n. 78, ossia la “manovra correttiva dei Conti pubblici”, con l’ennesima fiducia parlamentare, il ministro dell’Economia, un po’ su tutti i media, ha rilasciato una serie di dichiarazioni sulla qualità – più che sui reali contenuti – di questo provvedimento. “I nostri numeri sono in linea con l’Europa”. Oppure, “Sul 2010 il decreto pesa minimamente è la correzione che avremmo fatto a luglio e che invece abbiamo anticipato a fine maggio, perché i tempi alla politica sono imposti dalla realtà”. Peccato che ad aprile – quindi un mese prima – ospite da Santoro in Tv, lo stesso Tremonti giurava solennemente che non c’era nessuna manovra correttiva alle porte quest’anno.

DEBUNKING DI UNA MANOVRA – Facendo un po’ di confronti con le manovre, l’entità dei tagli e degli investimenti attuati dagli altri grandi paesi europei ci si rende subito conto che la realtà è molto diversa. l’Italia per sempio esprime circa un sesto del Pil europeo ( si veda l’ultima colonna della tabella), mentre il debito pubblico italiano costituisce quasi un quarto del debito del continente. Ciononostante l’Italia ha “corretto” il suo bilancio per solo 1,6% del Pil nel quinquennio 2010-15 (prima colonna della tabella), ossia ben al disotto di quanto fatto mediamente in Europa (4,2%). Paolo Manasse del sito lavoce.info ha effettuato una simulazione o meglio un benchmark tra i vari paesi del continente per capire chi ha operato meglio. “Il punto – spiega l’economista – è che dobbiamo paragonare la manovra di aggiustamento di bilancio del paese “A” con quella che un “paese europeo medio” avrebbe scelto se avesse avuto gli stessi fondamentali economici di A nel 2009 e cioè, a parità di bilancio primario, debito pubblico, apprezzamento del tasso di cambio reale, saldo delle partite correnti e tasso di disoccupazione”. Dal confronto emergono dati particolarmente interessanti.

4838457394 2cca70830f z Un fantasma si aggira per lEuropa:  lennesima bugia di Tremonti

UN BENCHMARK PER FARE CHIAREZZA – Dalla figura si ricava come la manovra predisposta dal Belgio – vale a dire i suoi tagli di bilancio praticati – risulta ben più “pesante” rispetto a quella degli altri paesi, a parità di fondamentali, per circa 1,5-1,8 punti di Pil per il lustro 2010-15. Allo stesso modo sia l’Olanda, sia la Germania, che pure presentano una situazione macroeconomica assai meno critica, hanno operato tagli in eccesso compresi tra +0,4-1% di Pil. Persino le derelitte Portogallo (+1-1,9%), Spagna (+0,8-1,3%) e Grecia (+ 0,7 punti di Pil) hanno vistosamente tagliato sul piano delle spese nel tentativo di ridurre i loro elevatissimi deficit. Ricordiamo che la Commissione europea, al termine di questo periodo, vuole riportare il rapporto Deficit/Pil, per ogni paese, di nuovo al 3% (In Italia attualmente è al 5%) così come previsto dai parametri di Maastrict. Il benchmark è stato effettuato tenendo conto di una variabile. La presenza e l’assenza (dal computo) dei conti della Grecia. La Gran Bretagna, ad esempio, appare in linea con la media europea, quando si include la Grecia nel benchmark, mentre risulta addirittura tra i virtuosi (+1,8 punti di Pil) quando la si esclude. L’Irlanda, apparentemente, appare il paese messo peggio. In realtà, i suoi tagli sono stati effettuati (su raccomandazione dell’UE, dato lo stato disastroso dei loro conti pubblici) ben prima delle varie manovre praticate nel vecchio continente questa estate. Per questo, dunque, non sono stati presi in considerazione.

CHI STA MESSO MEGLIO E CHI PEGGIO? – Il grafico è eloquente. Tra i grandi d’Europa, l’Italia è il paese che ha operato peggio. “Ai livelli attuali di fondamentali – spiega l’economista de lavoce.info – per essere in linea con l’Europa il nostro paese dovrebbe metter in cantiere tagli addizionali di bilancio per 2,4-2,7 punti di Pil nel prossimo quinquennio”. In particolare, poi, emerge che tra i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) non tenendo conto, come detto, della situazione irlandese, Grecia, Portogallo e Spagna, ossia i paesi più colpiti dalla crisi finanziaria, hanno operato in misura drastica sul versante dei tagli della loro spesa pubblica. Si capisce ovviamente il perché. I loro debiti sovrani sono finiti sotto il tiro incrociato dei mercati finanziari (specie quelli over the counter). Per questo, i loro tagli hanno il compito di rassicurare gli investitori – a cominciare da quelli internazionali – e di ridurre, possibilmente, gli spread dei loro titoli di stato rispetto ai bund tedeschi. Viceversa, Germania e l’Olanda che pure hanno operato in modo virtuoso, hanno praticato – a parità di fondamentali – meno tagli, ma si sono cautelate ed in prospettiva rafforzate sul rientro dei loro rispettivi deficit. Il Belgio, apparentemente, è il paese che ha praticato i tagli più drastici. Lo socpo è chiaro- Presentando un elevato debito pubblico, sta cercando con questa manovra di non cadere “nel fango” e di ritrovarsi in compagnia degli altri PIIGS. Paradossalmente, chi ha operato peggio, con buona pace del ministro Tremonti, è stata proprio l’Italia. E Proprio per questo – siccome al 2011 mancano oramai solo pochi mesi – una nuova manovra “correttiva” non appare improbabile. Tutt’altro. Solo che allora sarà ancora più difficile raccontare la storiella – peraltro falsa, come già abbiamo visto – che questo è il governo che non mette le mani nelle tasche degli italiani.

Fonte:Giornalettismo


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In distribuzione il numero 2 de "il Brigante" magazine

In edicola il 2° numero de "il Brigante", nella nuova magnifica versione magazine. Come sempre, puntuale e attento, vi è riportato all'interno (a pagina intera) il nostro volantino "Comprasud" di qualche settimana fa che abbiamo prodotto e distribuito come Partito del Sud e Insieme per la Rinascita davanti ai maggiori supermercati di Napoli e provincia.
Ancora grazie a "il Brigante", condotto e prodotto con grinta e competenza dall'amico e compatriota Gino Giammarino.


Fresco (cosa che, considerato il caldo, dovrebbe fare piacere a tutti – ndr) di stampa, arriva in edicola il nuovo numero della versione “Magazine” della nostra testata che titola in copertina: “La Panda del buco”. Il riferimento, naturalmente, è alle vicende di Pomigliano che servono, però, solo come punto di partenza per analizzare i guasti di un’Italia che, vittima di un “governo degli anziani”, è preda dell’immobilismo, del lobbismo e delle consorterie; dunque, non riesce a crescere in maniera sana. Ma sono tanti i temi interessanti presenti in questo numero. Intanto tre speciali dedicati alla storia di Palazzo Venezia e della famiglia di Gennaro e Cristina Buccino, all’isola di Procida ed al Premio Giornalistico “Città di Salerno”. E proprio il sindaco di questa città, Vincenzo De Luca, è la vittima dell’imboscata al politico di questo numero. Ma si ritrovano anche tanti altri incontri con, tra gli altri, Enrico Durazzo e le nuove produzioni “anti-leghiste” messe in campo da Napolimanìa, il ricordo di Pietro Taricone consegnato ai nostri lettori da Marisa Laurito, le due brave colleghe Paola Rendina e francesca Fortunato che stanno dimostrando che si può fare un programma radiofonico sul calcio e sul Napoli in maniera signorile e professionale, l’anticipazione del nuovo libro di Eugenio Bennato dallo stimolante titolo: “BRIGANTE SE MORE - Viaggio nella musica del Sud”. Beh, insomma…un numero che, come sempre, vale davvero la pena di essere acquistato e archiviato. Dunque, se volete saper proprio tutto, come direbbe la grande Sofia:“ACCATTATAVILLE”!

Gino Giammarino


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In edicola il 2° numero de "il Brigante", nella nuova magnifica versione magazine. Come sempre, puntuale e attento, vi è riportato all'interno (a pagina intera) il nostro volantino "Comprasud" di qualche settimana fa che abbiamo prodotto e distribuito come Partito del Sud e Insieme per la Rinascita davanti ai maggiori supermercati di Napoli e provincia.
Ancora grazie a "il Brigante", condotto e prodotto con grinta e competenza dall'amico e compatriota Gino Giammarino.


Fresco (cosa che, considerato il caldo, dovrebbe fare piacere a tutti – ndr) di stampa, arriva in edicola il nuovo numero della versione “Magazine” della nostra testata che titola in copertina: “La Panda del buco”. Il riferimento, naturalmente, è alle vicende di Pomigliano che servono, però, solo come punto di partenza per analizzare i guasti di un’Italia che, vittima di un “governo degli anziani”, è preda dell’immobilismo, del lobbismo e delle consorterie; dunque, non riesce a crescere in maniera sana. Ma sono tanti i temi interessanti presenti in questo numero. Intanto tre speciali dedicati alla storia di Palazzo Venezia e della famiglia di Gennaro e Cristina Buccino, all’isola di Procida ed al Premio Giornalistico “Città di Salerno”. E proprio il sindaco di questa città, Vincenzo De Luca, è la vittima dell’imboscata al politico di questo numero. Ma si ritrovano anche tanti altri incontri con, tra gli altri, Enrico Durazzo e le nuove produzioni “anti-leghiste” messe in campo da Napolimanìa, il ricordo di Pietro Taricone consegnato ai nostri lettori da Marisa Laurito, le due brave colleghe Paola Rendina e francesca Fortunato che stanno dimostrando che si può fare un programma radiofonico sul calcio e sul Napoli in maniera signorile e professionale, l’anticipazione del nuovo libro di Eugenio Bennato dallo stimolante titolo: “BRIGANTE SE MORE - Viaggio nella musica del Sud”. Beh, insomma…un numero che, come sempre, vale davvero la pena di essere acquistato e archiviato. Dunque, se volete saper proprio tutto, come direbbe la grande Sofia:“ACCATTATAVILLE”!

Gino Giammarino


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mercoledì 28 luglio 2010

Giuramento d'amore e di fedeltà due giovani innamorati nella Sicilia del 1862

Giuramento d'Amore e di Fedelta'

Giuro davanti a Dio e a Santa Rosalia di esser fedele nel cuore e nell'anima al mio amore.
Giuro di amarlo sopra ogni cosa e di dargli tutto l'amore che e' in me incondizionatamente e fedelmente,
Giuro di vivere la restante che due giovani amanti duosiciliani al tempo della repressione sabauda nell'Isola, mentre il generale Quintini massacrava gli abitanti di Castellammare del Golfo in povincia di Trapani.



L'uomo era un renitente alla leva, era un fuggiasco, per i piemontesi un vero bandito. La donna era la sua amante, giovane e bella, a Palermo , il 15 luglio del 1862, durante la festa di Santa Rosalia, mentre suonavano i tamburi della sfilata figurante, mentre sfilavano i cento cavalli ammardati abbondantemente con i carretti siciliani a far da supporto.
l'Unità si rivelò presto una delusione per i siciliani. Su di essi, abituati a pagare una unica imposta progressiva sul reddito, si abbattè una gragnuola di tasse, la comunale,la provinciale, l'addizionale, il focatico (tassa di famiglia), la tassa sul macinato, e perfino la tassa du successione, per cui i siciliani motteggiarono di essere divenuti parenti del re, dal momento che dai loro mortiereditava pure il governo italiano; ma quello che i siciliani non sopportarono fu la coscrizione militare, perchè la Sicilia era stata da sempre esente dalla leva militare e il servizio militare lo facevano solo i volontari.
L'imposizione della coscrizione militare causò il fenomeno del Banditismo; una vera e propria guerra fu scatenata in Sicilia da inermi popolazioni, accusate in blocco di favoreggiamento. Famiglie isolane furono bruciate vive nelle loro case, paesi interi furono privati dell'acqua potabile. Ad un giovane di leva, il sarto Antonio Cappello da Palermo, sordomuto dalla nascita, furono inferte 154 bruciature con ferri roventi, perchè ritenuto un simulatore dagli ufficiali piemontesi. Le foto del ragazzo fecero inorridire l'Europa, mentre il generale Govone definiva "barbari" i siciliani che 3000 anni fa diderò al mondo quella che è la civiltà occidentale.
I due "banditi" erano fuggiaschi, giurarono il loro amore eterno davanti a Santa Rosalia,adorata dai palermitani e, non solo. Si dice che lui fosse un vero torello, che molte donne cadevano ai suoi piedi, cosa che era giunta alle orecchie del'amata.E mentre la sicilia era stata messa a ferro e fuoco dai piemontesi, i nostri eroi giurarono fedeltà e amore eterno. La repressione continuò nell'Isola dei Ciclopi e il primo gennaio del 1862 a Castellammare del Golfo scoppiò una tremenda rivolta dei contadini contro i latifondisti difesi dal regime savoiardo.Molti furono i morti. Il regime savoiardo mandò il generale Quintini a reprimere la rivolta.il 3 di gennaio del 1862 il grand eroe piemontese, il Generale Quintini, fucilò tre uomini tra cui un prete borbonico e tre donne, e una bambina di nome Angelina Romano, di anni otto e mesi due, era sorella di un renitente. Sei mesi dopo, il giovane renitente, giurò alla sua amata eterno amore, ma giurò anche eterna vendetta contro quegli assassini dei fratelli d'Italia.


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Giuramento d'Amore e di Fedelta'

Giuro davanti a Dio e a Santa Rosalia di esser fedele nel cuore e nell'anima al mio amore.
Giuro di amarlo sopra ogni cosa e di dargli tutto l'amore che e' in me incondizionatamente e fedelmente,
Giuro di vivere la restante che due giovani amanti duosiciliani al tempo della repressione sabauda nell'Isola, mentre il generale Quintini massacrava gli abitanti di Castellammare del Golfo in povincia di Trapani.



L'uomo era un renitente alla leva, era un fuggiasco, per i piemontesi un vero bandito. La donna era la sua amante, giovane e bella, a Palermo , il 15 luglio del 1862, durante la festa di Santa Rosalia, mentre suonavano i tamburi della sfilata figurante, mentre sfilavano i cento cavalli ammardati abbondantemente con i carretti siciliani a far da supporto.
l'Unità si rivelò presto una delusione per i siciliani. Su di essi, abituati a pagare una unica imposta progressiva sul reddito, si abbattè una gragnuola di tasse, la comunale,la provinciale, l'addizionale, il focatico (tassa di famiglia), la tassa sul macinato, e perfino la tassa du successione, per cui i siciliani motteggiarono di essere divenuti parenti del re, dal momento che dai loro mortiereditava pure il governo italiano; ma quello che i siciliani non sopportarono fu la coscrizione militare, perchè la Sicilia era stata da sempre esente dalla leva militare e il servizio militare lo facevano solo i volontari.
L'imposizione della coscrizione militare causò il fenomeno del Banditismo; una vera e propria guerra fu scatenata in Sicilia da inermi popolazioni, accusate in blocco di favoreggiamento. Famiglie isolane furono bruciate vive nelle loro case, paesi interi furono privati dell'acqua potabile. Ad un giovane di leva, il sarto Antonio Cappello da Palermo, sordomuto dalla nascita, furono inferte 154 bruciature con ferri roventi, perchè ritenuto un simulatore dagli ufficiali piemontesi. Le foto del ragazzo fecero inorridire l'Europa, mentre il generale Govone definiva "barbari" i siciliani che 3000 anni fa diderò al mondo quella che è la civiltà occidentale.
I due "banditi" erano fuggiaschi, giurarono il loro amore eterno davanti a Santa Rosalia,adorata dai palermitani e, non solo. Si dice che lui fosse un vero torello, che molte donne cadevano ai suoi piedi, cosa che era giunta alle orecchie del'amata.E mentre la sicilia era stata messa a ferro e fuoco dai piemontesi, i nostri eroi giurarono fedeltà e amore eterno. La repressione continuò nell'Isola dei Ciclopi e il primo gennaio del 1862 a Castellammare del Golfo scoppiò una tremenda rivolta dei contadini contro i latifondisti difesi dal regime savoiardo.Molti furono i morti. Il regime savoiardo mandò il generale Quintini a reprimere la rivolta.il 3 di gennaio del 1862 il grand eroe piemontese, il Generale Quintini, fucilò tre uomini tra cui un prete borbonico e tre donne, e una bambina di nome Angelina Romano, di anni otto e mesi due, era sorella di un renitente. Sei mesi dopo, il giovane renitente, giurò alla sua amata eterno amore, ma giurò anche eterna vendetta contro quegli assassini dei fratelli d'Italia.


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I "terroni" e Pierluigi Battista - IL GRIDO DEI “TERRONI”, PARADOSSO ALL’ITALIANA


Come abbiamo scritto nei giorni scorsi, non abbiamo ricevuto risposte da Sergio Romano in merito alle sue affermazioni tendenti a legittimare l’invasione del Meridione d’Italia nel 1860 e in buona sostanza tutta la storia risorgimentale fino ai giorni nostri. Del resto cosa avrebbe potuto opporre lo storico nordista, ex – ambasciatore, alla valanga di dati e di documenti inoppugnabili con cui abbiamo contestato le stesse?
Non è forse vero che le riserve auree del Meridione fossero superiori alla metà di quello detenuto dal resto d'Italia(445,2 milioni contro 670 totali)? Non è forse vero che in Piemonte circolasse invece solo carta straccia, priva del corrispettivo in oro? Non è forse vero che fino al 1861 il Sud non conoscesse emigrazione e fosse la parte più industrializzata del Paese (51% degli addetti,cfr. Censimento del Regno d'Italia del 1861)? Non è forse vero che vantasse la prima flotta del Mediterraneo e che proprio per questo infastidisse gli inglesi con le loro mire su Gibilterra e Suez? Non è forse vero che possedesse il maggior complesso metalmeccanico d'Italia (Pietrarsa, Mongiana e Ferdinandea)? Non è forse vero che vantasse la prima industria navale italiana (Napoli e Castellamare)? Non è forse vero che avesse adottato il primo statuto socialista del mondo( seterie di San Leucio)? Non è forse vero che la guerra e la conseguente invasione del Sud non fu nemmeno dichiarata? Non è forse vero che la crudeltà nordista sia stata censurata tra gli altri perfino da Garibaldi, Napoleone III, Lord Lennox?
Meglio fermarsi qui, perché l'elenco è sterminato.
Il 2dell6 luglio, nella stessa pagina a rubrica Lettere al Corriere (curiosa coincidenza), interviene sull’argomento Pierluigi Battista, altro noto editorialista, già vicedirettore del prestigioso quotidiano.
Quale onore!
Le voci mediterranee cominciano finalmente e seriamente ad infastidire i “bodyguard” del grande capitale e della grande finanza, ancorché romani e provenienti da “Mondo Operaio”!
Il pretesto è un libro sull’invasione coloniale del 1860, testo che occupa posizioni alte delle classifiche di vendita. Un dato sintomatico di un nuovo sentimento collettivo e dello stato di profondissima prostrazione che attanaglia oggi il Sud della penisola, pur essendo abituato a un secolo e mezzo di abbandono di tutti i governi fin qui succedutisi (di centro, di destra e di sinistra). E’ un dato che dovrebbe invitare a più attente riflessioni i prestigiosi commentatori del Corriere, anziché farli avventurare in narcotizzanti e cabarettistiche analisi che con la storia vera nulla hanno a che fare.
Il re è nudo, rendetevene conto!
Infatti al di là di espressioni esplicitamente derisorie di una dignità meridionale, tanto dolorosamente ritrovata, nell’articolo non si offre, alcun supporto di dati, o di documenti sui quali basare arcaiche (queste sì), antimeridionalistiche tesi. Neanche una matricola in Scienze della Comunicazione sarebbe stata capace di altrettanta, supponente superficialità!
Non si contano le espressioni sarcastiche adoperate nei confronti del “…Sud dipinto come vittima sacrificale del settentrionalismo rapace e predatorio…” e dell’autore “ …osannato come l’aedo del Mezzogiorno calpestato.” Mentre “ I "terroni" più acculturati…affollano le presentazioni pubbliche…” e “…riconoscono nel suo autore un vendicatore della memoria negata…il loro libro culto di riscatto, un po’ come i parenti dei " vinti " del dopoguerra antifascista con i libri di successo di Giampaolo Pansa.”
E con ciò anche Pansa è sistemato, come si dice “una botta al cerchio e …”!
E cosa sarebbero le“ …elegie neoborboniche”? Null’altro che esaltazioni polemiche di un’ “…identità sanguigna e arcaica dell’antropologia meridionale, del suo stile di vita e dei suoi ritmi esistenziali decisamente antinordici”.
Questa è davvero buona, secondo il nostro eroe, stili di vita e ritmi esistenziali non hanno dignità propria ma possono essere solo con, o contro, il Nord!
Articoli del genere, oltre a distinguersi per una sconvolgente desertificazione intellettuale, privi come sono del benché minimo supporto agli inutili tentativi di mistificare ancora la storia, ci ricordano quelli degli inizi del ’90, quando le analisi sul fenomeno nascente del leghismo nordista (legittimato dai Miglio, Bocca, ecc.) si sprecavano ed erano altrettanto approssimative e spocchiose, dovendo constatare poi negli anni successivi quanto fossero anche campate in aria.
Non ci è dato sapere se Battista conosca le stratosferiche differenze tra i costi sostenuti dalla Germania (e in un primo tempo, per la sola Berlino) per la riunificazione(1500 miliardi di euro, attualmente ogni anno si versano 100 miliardi di euro) e quelli relativi alla Cassa del Mezzogiorno(per tutto il periodo dal 1951 al 1992: 140 miliardi di euro, con una spesa media annuale di 3,2 miliardi di euro). Eppure la Germania Federale, a differenza di quanto avvenuto in Italia (dove il Sud è stato depredato di tutto), nulla aveva tolto a quella Orientale. Così come non ci è dato sapere se Battista conosca i reali beneficiari del Piano Marshall alla fine della seconda guerra mondiale.
Potremmo abbondantemente continuare, ma basta e avanza!
E’ vero, il libro in questione è solo l’ultimo e forse neanche il più originale, ad affrontare l’argomento Sud e la sua invasione coloniale (piaccia o no ai settentrionali, di questo si tratta, non altro), ma il momento storico e gli stenti che oggi devastano il Meridione sono differenti e insostenibili, di ciò il nuovo “homo mediterraneus” ha finalmente consapevolezza, anche se non pretendiamo che i prestigiosi commentatori del Corriere se ne siano accorti!
Come sostiene Ildefonso Falcones nel suo intervento alla “Milanesiana” pubblicato proprio dal Corriere, “Milioni di cittadini stanno tirando la cinghia, ma le banche, con il denaro di quegli stessi cittadini, no, e la cosa peggiore è che i dirigenti continuano a essere sempre gli stessi…”!
I nemici più pericolosi e subdoli del Sud non sono gli ignoranti, i finti medici, le “trote”, i piccoli imprenditori del Nord con il conto in Svizzera, ma certi epigoni di Cavour e dell’infame Lombroso (ancora oggi celebrato in un altrettanto infame museo a Torino), sono loro i veri “cani da guardia” del grande capitalismo nordista, quello dei tesoretti esteri e del mantenimento di uno “status quo” feudale della nostra meravigliosa penisola.

Francesco del Vecchio


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Come abbiamo scritto nei giorni scorsi, non abbiamo ricevuto risposte da Sergio Romano in merito alle sue affermazioni tendenti a legittimare l’invasione del Meridione d’Italia nel 1860 e in buona sostanza tutta la storia risorgimentale fino ai giorni nostri. Del resto cosa avrebbe potuto opporre lo storico nordista, ex – ambasciatore, alla valanga di dati e di documenti inoppugnabili con cui abbiamo contestato le stesse?
Non è forse vero che le riserve auree del Meridione fossero superiori alla metà di quello detenuto dal resto d'Italia(445,2 milioni contro 670 totali)? Non è forse vero che in Piemonte circolasse invece solo carta straccia, priva del corrispettivo in oro? Non è forse vero che fino al 1861 il Sud non conoscesse emigrazione e fosse la parte più industrializzata del Paese (51% degli addetti,cfr. Censimento del Regno d'Italia del 1861)? Non è forse vero che vantasse la prima flotta del Mediterraneo e che proprio per questo infastidisse gli inglesi con le loro mire su Gibilterra e Suez? Non è forse vero che possedesse il maggior complesso metalmeccanico d'Italia (Pietrarsa, Mongiana e Ferdinandea)? Non è forse vero che vantasse la prima industria navale italiana (Napoli e Castellamare)? Non è forse vero che avesse adottato il primo statuto socialista del mondo( seterie di San Leucio)? Non è forse vero che la guerra e la conseguente invasione del Sud non fu nemmeno dichiarata? Non è forse vero che la crudeltà nordista sia stata censurata tra gli altri perfino da Garibaldi, Napoleone III, Lord Lennox?
Meglio fermarsi qui, perché l'elenco è sterminato.
Il 2dell6 luglio, nella stessa pagina a rubrica Lettere al Corriere (curiosa coincidenza), interviene sull’argomento Pierluigi Battista, altro noto editorialista, già vicedirettore del prestigioso quotidiano.
Quale onore!
Le voci mediterranee cominciano finalmente e seriamente ad infastidire i “bodyguard” del grande capitale e della grande finanza, ancorché romani e provenienti da “Mondo Operaio”!
Il pretesto è un libro sull’invasione coloniale del 1860, testo che occupa posizioni alte delle classifiche di vendita. Un dato sintomatico di un nuovo sentimento collettivo e dello stato di profondissima prostrazione che attanaglia oggi il Sud della penisola, pur essendo abituato a un secolo e mezzo di abbandono di tutti i governi fin qui succedutisi (di centro, di destra e di sinistra). E’ un dato che dovrebbe invitare a più attente riflessioni i prestigiosi commentatori del Corriere, anziché farli avventurare in narcotizzanti e cabarettistiche analisi che con la storia vera nulla hanno a che fare.
Il re è nudo, rendetevene conto!
Infatti al di là di espressioni esplicitamente derisorie di una dignità meridionale, tanto dolorosamente ritrovata, nell’articolo non si offre, alcun supporto di dati, o di documenti sui quali basare arcaiche (queste sì), antimeridionalistiche tesi. Neanche una matricola in Scienze della Comunicazione sarebbe stata capace di altrettanta, supponente superficialità!
Non si contano le espressioni sarcastiche adoperate nei confronti del “…Sud dipinto come vittima sacrificale del settentrionalismo rapace e predatorio…” e dell’autore “ …osannato come l’aedo del Mezzogiorno calpestato.” Mentre “ I "terroni" più acculturati…affollano le presentazioni pubbliche…” e “…riconoscono nel suo autore un vendicatore della memoria negata…il loro libro culto di riscatto, un po’ come i parenti dei " vinti " del dopoguerra antifascista con i libri di successo di Giampaolo Pansa.”
E con ciò anche Pansa è sistemato, come si dice “una botta al cerchio e …”!
E cosa sarebbero le“ …elegie neoborboniche”? Null’altro che esaltazioni polemiche di un’ “…identità sanguigna e arcaica dell’antropologia meridionale, del suo stile di vita e dei suoi ritmi esistenziali decisamente antinordici”.
Questa è davvero buona, secondo il nostro eroe, stili di vita e ritmi esistenziali non hanno dignità propria ma possono essere solo con, o contro, il Nord!
Articoli del genere, oltre a distinguersi per una sconvolgente desertificazione intellettuale, privi come sono del benché minimo supporto agli inutili tentativi di mistificare ancora la storia, ci ricordano quelli degli inizi del ’90, quando le analisi sul fenomeno nascente del leghismo nordista (legittimato dai Miglio, Bocca, ecc.) si sprecavano ed erano altrettanto approssimative e spocchiose, dovendo constatare poi negli anni successivi quanto fossero anche campate in aria.
Non ci è dato sapere se Battista conosca le stratosferiche differenze tra i costi sostenuti dalla Germania (e in un primo tempo, per la sola Berlino) per la riunificazione(1500 miliardi di euro, attualmente ogni anno si versano 100 miliardi di euro) e quelli relativi alla Cassa del Mezzogiorno(per tutto il periodo dal 1951 al 1992: 140 miliardi di euro, con una spesa media annuale di 3,2 miliardi di euro). Eppure la Germania Federale, a differenza di quanto avvenuto in Italia (dove il Sud è stato depredato di tutto), nulla aveva tolto a quella Orientale. Così come non ci è dato sapere se Battista conosca i reali beneficiari del Piano Marshall alla fine della seconda guerra mondiale.
Potremmo abbondantemente continuare, ma basta e avanza!
E’ vero, il libro in questione è solo l’ultimo e forse neanche il più originale, ad affrontare l’argomento Sud e la sua invasione coloniale (piaccia o no ai settentrionali, di questo si tratta, non altro), ma il momento storico e gli stenti che oggi devastano il Meridione sono differenti e insostenibili, di ciò il nuovo “homo mediterraneus” ha finalmente consapevolezza, anche se non pretendiamo che i prestigiosi commentatori del Corriere se ne siano accorti!
Come sostiene Ildefonso Falcones nel suo intervento alla “Milanesiana” pubblicato proprio dal Corriere, “Milioni di cittadini stanno tirando la cinghia, ma le banche, con il denaro di quegli stessi cittadini, no, e la cosa peggiore è che i dirigenti continuano a essere sempre gli stessi…”!
I nemici più pericolosi e subdoli del Sud non sono gli ignoranti, i finti medici, le “trote”, i piccoli imprenditori del Nord con il conto in Svizzera, ma certi epigoni di Cavour e dell’infame Lombroso (ancora oggi celebrato in un altrettanto infame museo a Torino), sono loro i veri “cani da guardia” del grande capitalismo nordista, quello dei tesoretti esteri e del mantenimento di uno “status quo” feudale della nostra meravigliosa penisola.

Francesco del Vecchio


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LA FILIERA NUCLEARE - Tutti i veri costi del nucleare

A FILIERA NUCLEARE

Tutti i veri costi del nucleare

Il nucleare come soluzione al riscaldamento terrestre indotto dalle attività umane?

Il nucleare come energia pulita?

Il nucleare come approvvigionamento energetico moderno e facilmente disponibile?

Il nucleare come approvvigionamento energetico a costi moderati?

Il nucleare senza ormai segreti per l’umanità?

Menzogne enormi dette senza argomentare nemmeno una delle componenti la filiera, anzi una sola viene argomentata: il grande vantaggio dato dalla tanta energia prodotta con quantità minime di carburante.

Come dato è reale ma è come se per determinare il prezzo del latte, nel computo, inserissi solamente l’atto della mungitura della mucca, senza calcolare l’allevamento del vitello; la produzione dei foraggi; le cure mediche; la costruzione delle stalle; il mantenimento dei pascoli; la pulizia degli animali e degli ambienti preposti ad ospitarli; lo smaltimento del letame e dell’urina; lo smaltimento delle carcasse e del sangue a macello avvenuto, dopo che l’animale non è più produttivamente vantaggioso e, inoltre, l’allevamento degli animali maschi che pur non producendo latte, sono di tanto in tanto, indispensabili e, per di più, nascono anche loro e anche loro vivono e muoiono.

Per funzionare, una centrale elettrica nucleare, necessita di carburante e questo è l’uranio, arricchito o no, non è che si trova in vene di roccia come per il marmo di Carrara o per il granito di Candoglia, ma è presente in piccole tracce in pietre che devono essere sgretolate, producendo scarti che comunque sono radioattivi e grande consumo di energie generate da combustibili fossili che, guarda caso, essendo lavorazioni effettuate in paesi in credito per quanto riguarda la produzione di co2, abbattono le quote di co2 dei paesi proprietari delle aziende estrattrici.


Un escamotage per rendere meno costoso lo smaltimento di questi scarti è stato quello di renderli legalmente materiali inerti; ovviamente è una presa in giro più che conosciuta dagli addetti ai lavori che però non coinvolge più di tanto l’opinione pubblica proprio a causa delle menzogne diffuse sulla loro vera natura. Quasi sempre questi materiali sono estratti laddove governi corrotti ben si prestano a questo gioco, in quanto facili e grandi guadagni vengono distribuiti ad un ristretto numero di persone nella valuta del luogo per giunta, non certamente alla popolazione che invece ne trae solo gli svantaggi dati dall’inquinamento dei terreni e delle acque dietro il quale, tra l’altro, si cela una delle più grandi motivazioni che portano alla fuga da luoghi che già sono colmi di problematiche quali ad esempio la desertificazione.

Motivazioni che portano le persone più giovani e forti a fuggire dal proprio paese che, per meglio sopravvivere, proprio di loro avrebbe bisogno, andando a rimpinzare le tasche dei moderni schiavisti che, rubandogli i pochi soldi che riescono a racimolare con grande sacrificio di tutta la famiglia li lasciano morire durante gli spostamenti nel deserto o facendoli annegare nel Mediterraneo.


Sto parlando solo dell’estrazione del pechblenda nel nord del Niger; ovviamente tutti questi costi, umani ed economici ci si guarda bene dal diffonderli e, quando nonostante tutto, emergono, li si minimizza o li si considera la giusta ammenda per tutti i benefici che portano, a noi. Prima di diventare carburante, l’uranio deve subire altri processi che vengono effettuati nei paesi proprietari della materia prima, lavorarlo sul posto permetterebbe alla nazione ospitante gli impianti di estrazione, di appropriarsi di una tecnologia che deve invece rimanere appalto delle grandi potenze, infatti, dalla scoperta del potere racchiuso nell’atomo, proprio le nazioni detentrici di questa tecnologia le fa annoverare tra le più potenti al mondo e si guardano bene dal permetterne la diffusione.

La Francia, dall’inizio del viaggio nel nucleare, in questo settore si è scavata una propria nicchia, restando per molti anni una delle tre nazioni con capacità autonome di gestirlo insieme all’ex Unione Sovietica e agli USA.

La Francia, per molti anni, ha nascosto la vera natura degli scarti generati con l’arricchimento dell’uranio, facendo credere ai francesi che si trattava di normali sassi tanto che li distribuiva anche gratuitamente a chi ne facesse richiesta per impiegarlo in riempimenti e livellamenti di terreni, propedeutici anche alla fabbricazione di stabili pubblici quali abitazioni o stadi, o per la realizzazione di piazzali per parcheggi, fino a giungere ad accumularli in discariche che una volta colme, vengono esteriormente bonificate e portate a diventare spazio verde sul quale si invitavano le famiglie a passare il proprio tempo libero attirandole con infrastrutture accattivanti quali passeggiate, tavoli, panche e barbeque.

Però, essendo questi materiali comunque radioattivi, per quanto di bassa attività, dopo anni e anni di queste pratiche, stanno sortendo i risultati negativi dati dall’accumulo di tali sostanze nell’organismo delle persone che vivono nelle vicinanze di questi luoghi. E’ vivo oggi in Francia, un movimento di persone che chiede a viva voce che: vengano chiariti i danni potenziali dati da questi materiali; vengano comunicate la vera natura dei materiali depositati nelle discariche;vengano dichiarati luoghi non agibili; vengano dichiarati luoghi a rischio e recintati per evitare che vi si possa accedere liberamente.

Tutto ciò senza nemmeno essere giunti alla produzione di energia e senza ancora aver costruito la centrale con tutte le implicazioni date dai moderni target di sicurezza ai quali bisogna attenersi con gli enormi costi che ciò comporta e senza prendere in considerazione lo smaltimento dei materiali di risulta di bassa, alta e altissima radioattività derivanti dalla produzione di elettricità. Perché se è vero che la maggior parte del materiale che viene a contatto con la filiera di produzione di energia, come attrezzature che magari sono solo potenzialmente a rischio e sono comunque da trattare con metodologie atte a togliere ogni rischio, ci sono materiali con una emività radioattiva di alcune centinaia di anni quali i materiali e i liquidi di moderazione o parti degli impianti, ci sono inoltre i residui del carburante, questo si di quantità ridotta rispetto a quella descritta sin qui, ma che prima di tornare allo stato radioattivo misurato all’atto dell’estrazione dalla miniera, necessita di centinaia di migliaia di anni.

Stanno provando a costruire depositi che forniscano la sicurezza richiesta, fallendo immancabilmente nell’intento, infatti non esiste ad oggi un deposito considerato definitivo nonostante ne abbiano già riempiti alcuni, teniamo presente che alcuni di questi depositi sono stati bloccati e uno in Germania sta all’interno di un progetto mai nemmeno preso in considerazione, di svuotamento per sopravvenute condizioni di altissimo rischio dato dal cedimento di strutture

considerate all’inizio eterne che invece si sono rivelate non più praticabili con il duplice problema di smaltire il materiale già li depositato e di bonifica del sito prima che i danni rilevati migrino verso le falde acquifere, essendo i siti colmi ormai di acque radioattive che per ora vengono concentrate pompandole nelle sezioni più profonde di quella che era una dismessa miniera di salgemma. Tale miniera era considerata sicura proprio per la sua natura, in quanto i contenitori di sostanze radioattive necessitano di luoghi asciutti che si pensava garantiti da una miniera di sale, però non si era probabilmente presa in considerazione l’intrusione dell’uomo nel sito con infrastrutture che hanno un peso sicuramente superiore a quello che era dato in origine dal salgemma stesso e nemmeno era stato considerato l’impatto delle vibrazioni date dalla fabbricazione del manufatto e dall’azione dello stoccaggio che avviene in modo automatizzato.

E’ stata presa in considerazione la stabilità politica del paese ospitante il deposito, prendendo come dato che il governo più antico sulla terra, data solo alcune centinaia di anni mentre la gestione di tali depositi deve essere garantita per migliaia di generazioni di esseri umani che stramaledirà in eterno questa nostra attuale attività criminale nei confronti del nostro pianeta?

No, non è stata presa in considerazione, o meglio, chi gestisce tutto questo adduce come scusante che negli anni a venire l’uomo riuscirà sicuramente a gestire tutto questo, nel frattempo avremo energia a disposizione per autodistruggerci con le modalità che più ci garbano togliendo risorse economiche all’attuazione di modalità di consumo energetico più compatibili con il nostro pianeta e deviando risorse economiche verso l’accentramento di produzione di energia invece che verso l’autoproduzione di piccole quantità di energia, fatto che già si sta verificando con modalità di gran lunga meno costose di pochi anni fa, ma che tolgono potere a chi vuole speculare e a chi vuole detenere il potere dato dalla produzione il larga scala di energia.

Paese

Reattori in funzione

Reattori in costruzione

Percentuale dell'energia nucleare prodotta nel 1999 rispetto al totale

Argentina

2

1

9.04

Armenia

1

0

36.36

Belgio

7

0

57.74

Brasile

1

1

1.12

Bulgaria

6

0

47.12

Canada

14

0

12.44

Cina

3

7

1.15

Corea del Sud

16

4

42.84

Finlandia

4

0

33.05

Francia

59

0

75

Germania

19

0

31.21

Giappone

53

4

36

India

11

3

2.65

Iran

0

2

0

Lituania

2

0

73.11

Messico

2

0

5.21

Paesi Bassi

1

0

4.02

Pakistan

1

1

0.12

Regno Unito

35

0

28.87

Repubblica Ceca

4

2

20.77

Romania

1

1

10.69

Russia

29

3

14.41

Slovacchia

6

2

47.02

Slovenia

1

0

37.18

Spagna

9

0

30.99

Sud Africa

2

0

7.08

Svezia

11

0

46.8

Svizzera

5

0

36.03

Ucraina

14

4

43.77

Ungheria

4

0

38.3

Usa

104

0

19.8

Fonte: Agenzia internazionale per l'energia atomica

La diminuizione drastica di costruzione di centrali nucleari verificatasi negli ultimi anni fa ben comprendere quanto non si sia veramente orientati verso questa forma di produzione di elettricità, considerando inoltre che le popolazioni ospitanti gli impianti vanno via via meglio informandosi sui reali rischi e sulla lunga vita di questi.

Cercherò qui di elencare tutto quello che deve realmente entrare nel computo dei costi considerando una consapevolezza reale delle persone coinvolte, considerando anche che nessuno nasconda alcunché e che invece di spendere pochi soldi per corrompere, si spendano quelli giusti per fare le cose per bene.

Costi per l’estrazione dell’uranio (compresi i costi di reale messa in sicurezza degli impianti e del personale operante): impianti di estrazione dalla cava; impianti di estrazione dell’u235 dalla roccia grezza; smaltimento in sicurezza dei materiali di scarto; smaltimento delle parti degli impianti sostituite per usura; smantellamento degli impianti a fine ciclo estrazione; bonifica di tutti i luoghi coinvolti nell’estrazione; bonifica di tutto ciò che viene coinvolto dagli inevitabili incidenti che normalmente intervengono in qualsiasi attività industriale ma che nel caso in questione necessità di pratiche particolarmente costose; costi sanitari dovuti a danni alle popolazioni e all’ambiente circostanti gli impianti; trasporto dei materiali presso i siti di arricchimento; elevatissimi premi assicurativi;

Costi per l’arricchimento dell’uranio (compresi i costi di reale messa in sicurezza degli impianti e del personale operante):costruzione degli impianti per l’arricchimento; messa in sicurezza degli impianti dal rischio di attacco terroristico; messa in sicurezza dal rischio errore umano con corsi di preparazione aggiornati alle ultimissime conoscenze; smaltimento degli scarti risultanti da tale attività; bonifica di tutto ciò che viene coinvolto dagli inevitabili incidenti che normalmente intervengono in qualsiasi attività industriale ma che nel caso in questione necessità di pratiche particolarmente costose; costi sanitari dovuti a danni alle popolazioni e all’ambiente circostanti gli impianti; smantellamento degli impianti a causa della programmata obsolescenza degli stessi; bonifica del sito che ha ospitato gli impianti; elevatissimi premi assicurativi.

Costi per la centrale produttrice di energia: costruzione dell’impianto; messa in sicurezza degli impianti dal rischio di attacco terroristico; messa in sicurezza dal rischio errore umano con corsi di preparazione aggiornati alle ultimissime conoscenze; sufficiente disponibilità di acqua quale moderatrice del continuo elevarsi della temperatura del nocciolo considerando che l’elevarsi della temperatura terrestre, nei prossimi anni diminuirà la portata d’acqua di fiumi e laghi; nel caso di captazione di acqua marina, bisogna considerare i costi degli additivi antiossidanti che nel caso di acqua salata, devono essere usati in grande quantità con l’aggiunta dei costi di filtraggio e smaltimento dei fanghi residui e dei filtri stessi; costi ambientali dovuti all’inevitabile innalzamento della temperatura dell’acqua durante la fase di restituzione della stessa nell’ambiente con le inevitabili implicazioni di ciò a carico dell’ecosistema; smaltimento di tutto quello che non più utile alla produzione di energia , deve essere stoccato con le modalità precise per ogni categoria dei materiali; smaltimento dei fanghi risultanti dalle varie attività di filtraggio; smaltimento dei filtri; smantellamento degli impianti a causa della programmata obsolescenza degli stessi; bonifica del sito che ha ospitato gli impianti; bonifica di tutto ciò che viene coinvolto dagli inevitabili incidenti che normalmente intervengono in qualsiasi attività industriale ma che nel caso in questione necessità di pratiche particolarmente costose; costi sanitari dovuti a danni alle popolazioni e all’ambiente circostanti gli impianti; elevatissimi premi assicurativi.

Costi per le generazioni future: smaltimento di tutto quello che stiamo generando; smantellamento degli impianti; costi sanitari dovuti a danni alle popolazioni e all’ambiente circostanti gli impianti; elevatissimi premi assicurativi; costi psicologici dati dallo spreco di energie che i futuri abitanti della Terra utilizzeranno per maledire noi.

Fonte:Comitato Antinucleare Garigliano


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A FILIERA NUCLEARE

Tutti i veri costi del nucleare

Il nucleare come soluzione al riscaldamento terrestre indotto dalle attività umane?

Il nucleare come energia pulita?

Il nucleare come approvvigionamento energetico moderno e facilmente disponibile?

Il nucleare come approvvigionamento energetico a costi moderati?

Il nucleare senza ormai segreti per l’umanità?

Menzogne enormi dette senza argomentare nemmeno una delle componenti la filiera, anzi una sola viene argomentata: il grande vantaggio dato dalla tanta energia prodotta con quantità minime di carburante.

Come dato è reale ma è come se per determinare il prezzo del latte, nel computo, inserissi solamente l’atto della mungitura della mucca, senza calcolare l’allevamento del vitello; la produzione dei foraggi; le cure mediche; la costruzione delle stalle; il mantenimento dei pascoli; la pulizia degli animali e degli ambienti preposti ad ospitarli; lo smaltimento del letame e dell’urina; lo smaltimento delle carcasse e del sangue a macello avvenuto, dopo che l’animale non è più produttivamente vantaggioso e, inoltre, l’allevamento degli animali maschi che pur non producendo latte, sono di tanto in tanto, indispensabili e, per di più, nascono anche loro e anche loro vivono e muoiono.

Per funzionare, una centrale elettrica nucleare, necessita di carburante e questo è l’uranio, arricchito o no, non è che si trova in vene di roccia come per il marmo di Carrara o per il granito di Candoglia, ma è presente in piccole tracce in pietre che devono essere sgretolate, producendo scarti che comunque sono radioattivi e grande consumo di energie generate da combustibili fossili che, guarda caso, essendo lavorazioni effettuate in paesi in credito per quanto riguarda la produzione di co2, abbattono le quote di co2 dei paesi proprietari delle aziende estrattrici.


Un escamotage per rendere meno costoso lo smaltimento di questi scarti è stato quello di renderli legalmente materiali inerti; ovviamente è una presa in giro più che conosciuta dagli addetti ai lavori che però non coinvolge più di tanto l’opinione pubblica proprio a causa delle menzogne diffuse sulla loro vera natura. Quasi sempre questi materiali sono estratti laddove governi corrotti ben si prestano a questo gioco, in quanto facili e grandi guadagni vengono distribuiti ad un ristretto numero di persone nella valuta del luogo per giunta, non certamente alla popolazione che invece ne trae solo gli svantaggi dati dall’inquinamento dei terreni e delle acque dietro il quale, tra l’altro, si cela una delle più grandi motivazioni che portano alla fuga da luoghi che già sono colmi di problematiche quali ad esempio la desertificazione.

Motivazioni che portano le persone più giovani e forti a fuggire dal proprio paese che, per meglio sopravvivere, proprio di loro avrebbe bisogno, andando a rimpinzare le tasche dei moderni schiavisti che, rubandogli i pochi soldi che riescono a racimolare con grande sacrificio di tutta la famiglia li lasciano morire durante gli spostamenti nel deserto o facendoli annegare nel Mediterraneo.


Sto parlando solo dell’estrazione del pechblenda nel nord del Niger; ovviamente tutti questi costi, umani ed economici ci si guarda bene dal diffonderli e, quando nonostante tutto, emergono, li si minimizza o li si considera la giusta ammenda per tutti i benefici che portano, a noi. Prima di diventare carburante, l’uranio deve subire altri processi che vengono effettuati nei paesi proprietari della materia prima, lavorarlo sul posto permetterebbe alla nazione ospitante gli impianti di estrazione, di appropriarsi di una tecnologia che deve invece rimanere appalto delle grandi potenze, infatti, dalla scoperta del potere racchiuso nell’atomo, proprio le nazioni detentrici di questa tecnologia le fa annoverare tra le più potenti al mondo e si guardano bene dal permetterne la diffusione.

La Francia, dall’inizio del viaggio nel nucleare, in questo settore si è scavata una propria nicchia, restando per molti anni una delle tre nazioni con capacità autonome di gestirlo insieme all’ex Unione Sovietica e agli USA.

La Francia, per molti anni, ha nascosto la vera natura degli scarti generati con l’arricchimento dell’uranio, facendo credere ai francesi che si trattava di normali sassi tanto che li distribuiva anche gratuitamente a chi ne facesse richiesta per impiegarlo in riempimenti e livellamenti di terreni, propedeutici anche alla fabbricazione di stabili pubblici quali abitazioni o stadi, o per la realizzazione di piazzali per parcheggi, fino a giungere ad accumularli in discariche che una volta colme, vengono esteriormente bonificate e portate a diventare spazio verde sul quale si invitavano le famiglie a passare il proprio tempo libero attirandole con infrastrutture accattivanti quali passeggiate, tavoli, panche e barbeque.

Però, essendo questi materiali comunque radioattivi, per quanto di bassa attività, dopo anni e anni di queste pratiche, stanno sortendo i risultati negativi dati dall’accumulo di tali sostanze nell’organismo delle persone che vivono nelle vicinanze di questi luoghi. E’ vivo oggi in Francia, un movimento di persone che chiede a viva voce che: vengano chiariti i danni potenziali dati da questi materiali; vengano comunicate la vera natura dei materiali depositati nelle discariche;vengano dichiarati luoghi non agibili; vengano dichiarati luoghi a rischio e recintati per evitare che vi si possa accedere liberamente.

Tutto ciò senza nemmeno essere giunti alla produzione di energia e senza ancora aver costruito la centrale con tutte le implicazioni date dai moderni target di sicurezza ai quali bisogna attenersi con gli enormi costi che ciò comporta e senza prendere in considerazione lo smaltimento dei materiali di risulta di bassa, alta e altissima radioattività derivanti dalla produzione di elettricità. Perché se è vero che la maggior parte del materiale che viene a contatto con la filiera di produzione di energia, come attrezzature che magari sono solo potenzialmente a rischio e sono comunque da trattare con metodologie atte a togliere ogni rischio, ci sono materiali con una emività radioattiva di alcune centinaia di anni quali i materiali e i liquidi di moderazione o parti degli impianti, ci sono inoltre i residui del carburante, questo si di quantità ridotta rispetto a quella descritta sin qui, ma che prima di tornare allo stato radioattivo misurato all’atto dell’estrazione dalla miniera, necessita di centinaia di migliaia di anni.

Stanno provando a costruire depositi che forniscano la sicurezza richiesta, fallendo immancabilmente nell’intento, infatti non esiste ad oggi un deposito considerato definitivo nonostante ne abbiano già riempiti alcuni, teniamo presente che alcuni di questi depositi sono stati bloccati e uno in Germania sta all’interno di un progetto mai nemmeno preso in considerazione, di svuotamento per sopravvenute condizioni di altissimo rischio dato dal cedimento di strutture

considerate all’inizio eterne che invece si sono rivelate non più praticabili con il duplice problema di smaltire il materiale già li depositato e di bonifica del sito prima che i danni rilevati migrino verso le falde acquifere, essendo i siti colmi ormai di acque radioattive che per ora vengono concentrate pompandole nelle sezioni più profonde di quella che era una dismessa miniera di salgemma. Tale miniera era considerata sicura proprio per la sua natura, in quanto i contenitori di sostanze radioattive necessitano di luoghi asciutti che si pensava garantiti da una miniera di sale, però non si era probabilmente presa in considerazione l’intrusione dell’uomo nel sito con infrastrutture che hanno un peso sicuramente superiore a quello che era dato in origine dal salgemma stesso e nemmeno era stato considerato l’impatto delle vibrazioni date dalla fabbricazione del manufatto e dall’azione dello stoccaggio che avviene in modo automatizzato.

E’ stata presa in considerazione la stabilità politica del paese ospitante il deposito, prendendo come dato che il governo più antico sulla terra, data solo alcune centinaia di anni mentre la gestione di tali depositi deve essere garantita per migliaia di generazioni di esseri umani che stramaledirà in eterno questa nostra attuale attività criminale nei confronti del nostro pianeta?

No, non è stata presa in considerazione, o meglio, chi gestisce tutto questo adduce come scusante che negli anni a venire l’uomo riuscirà sicuramente a gestire tutto questo, nel frattempo avremo energia a disposizione per autodistruggerci con le modalità che più ci garbano togliendo risorse economiche all’attuazione di modalità di consumo energetico più compatibili con il nostro pianeta e deviando risorse economiche verso l’accentramento di produzione di energia invece che verso l’autoproduzione di piccole quantità di energia, fatto che già si sta verificando con modalità di gran lunga meno costose di pochi anni fa, ma che tolgono potere a chi vuole speculare e a chi vuole detenere il potere dato dalla produzione il larga scala di energia.

Paese

Reattori in funzione

Reattori in costruzione

Percentuale dell'energia nucleare prodotta nel 1999 rispetto al totale

Argentina

2

1

9.04

Armenia

1

0

36.36

Belgio

7

0

57.74

Brasile

1

1

1.12

Bulgaria

6

0

47.12

Canada

14

0

12.44

Cina

3

7

1.15

Corea del Sud

16

4

42.84

Finlandia

4

0

33.05

Francia

59

0

75

Germania

19

0

31.21

Giappone

53

4

36

India

11

3

2.65

Iran

0

2

0

Lituania

2

0

73.11

Messico

2

0

5.21

Paesi Bassi

1

0

4.02

Pakistan

1

1

0.12

Regno Unito

35

0

28.87

Repubblica Ceca

4

2

20.77

Romania

1

1

10.69

Russia

29

3

14.41

Slovacchia

6

2

47.02

Slovenia

1

0

37.18

Spagna

9

0

30.99

Sud Africa

2

0

7.08

Svezia

11

0

46.8

Svizzera

5

0

36.03

Ucraina

14

4

43.77

Ungheria

4

0

38.3

Usa

104

0

19.8

Fonte: Agenzia internazionale per l'energia atomica

La diminuizione drastica di costruzione di centrali nucleari verificatasi negli ultimi anni fa ben comprendere quanto non si sia veramente orientati verso questa forma di produzione di elettricità, considerando inoltre che le popolazioni ospitanti gli impianti vanno via via meglio informandosi sui reali rischi e sulla lunga vita di questi.

Cercherò qui di elencare tutto quello che deve realmente entrare nel computo dei costi considerando una consapevolezza reale delle persone coinvolte, considerando anche che nessuno nasconda alcunché e che invece di spendere pochi soldi per corrompere, si spendano quelli giusti per fare le cose per bene.

Costi per l’estrazione dell’uranio (compresi i costi di reale messa in sicurezza degli impianti e del personale operante): impianti di estrazione dalla cava; impianti di estrazione dell’u235 dalla roccia grezza; smaltimento in sicurezza dei materiali di scarto; smaltimento delle parti degli impianti sostituite per usura; smantellamento degli impianti a fine ciclo estrazione; bonifica di tutti i luoghi coinvolti nell’estrazione; bonifica di tutto ciò che viene coinvolto dagli inevitabili incidenti che normalmente intervengono in qualsiasi attività industriale ma che nel caso in questione necessità di pratiche particolarmente costose; costi sanitari dovuti a danni alle popolazioni e all’ambiente circostanti gli impianti; trasporto dei materiali presso i siti di arricchimento; elevatissimi premi assicurativi;

Costi per l’arricchimento dell’uranio (compresi i costi di reale messa in sicurezza degli impianti e del personale operante):costruzione degli impianti per l’arricchimento; messa in sicurezza degli impianti dal rischio di attacco terroristico; messa in sicurezza dal rischio errore umano con corsi di preparazione aggiornati alle ultimissime conoscenze; smaltimento degli scarti risultanti da tale attività; bonifica di tutto ciò che viene coinvolto dagli inevitabili incidenti che normalmente intervengono in qualsiasi attività industriale ma che nel caso in questione necessità di pratiche particolarmente costose; costi sanitari dovuti a danni alle popolazioni e all’ambiente circostanti gli impianti; smantellamento degli impianti a causa della programmata obsolescenza degli stessi; bonifica del sito che ha ospitato gli impianti; elevatissimi premi assicurativi.

Costi per la centrale produttrice di energia: costruzione dell’impianto; messa in sicurezza degli impianti dal rischio di attacco terroristico; messa in sicurezza dal rischio errore umano con corsi di preparazione aggiornati alle ultimissime conoscenze; sufficiente disponibilità di acqua quale moderatrice del continuo elevarsi della temperatura del nocciolo considerando che l’elevarsi della temperatura terrestre, nei prossimi anni diminuirà la portata d’acqua di fiumi e laghi; nel caso di captazione di acqua marina, bisogna considerare i costi degli additivi antiossidanti che nel caso di acqua salata, devono essere usati in grande quantità con l’aggiunta dei costi di filtraggio e smaltimento dei fanghi residui e dei filtri stessi; costi ambientali dovuti all’inevitabile innalzamento della temperatura dell’acqua durante la fase di restituzione della stessa nell’ambiente con le inevitabili implicazioni di ciò a carico dell’ecosistema; smaltimento di tutto quello che non più utile alla produzione di energia , deve essere stoccato con le modalità precise per ogni categoria dei materiali; smaltimento dei fanghi risultanti dalle varie attività di filtraggio; smaltimento dei filtri; smantellamento degli impianti a causa della programmata obsolescenza degli stessi; bonifica del sito che ha ospitato gli impianti; bonifica di tutto ciò che viene coinvolto dagli inevitabili incidenti che normalmente intervengono in qualsiasi attività industriale ma che nel caso in questione necessità di pratiche particolarmente costose; costi sanitari dovuti a danni alle popolazioni e all’ambiente circostanti gli impianti; elevatissimi premi assicurativi.

Costi per le generazioni future: smaltimento di tutto quello che stiamo generando; smantellamento degli impianti; costi sanitari dovuti a danni alle popolazioni e all’ambiente circostanti gli impianti; elevatissimi premi assicurativi; costi psicologici dati dallo spreco di energie che i futuri abitanti della Terra utilizzeranno per maledire noi.

Fonte:Comitato Antinucleare Garigliano


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