mercoledì 18 agosto 2010

SCHEGGE DI SUD – 1




Che succede, al Sud, mentre qualcuno ne parla male, senza preoccuparsi di conoscerlo

e qualche altro è distratto dal tentativo di capirlo?

Passi anni a cercare il Sud sulle pagine di chi lo ha studiato, descritto. Hai percorso centinaia di migliaia di chilometri fra le sue capitali, perché è lì che succedono i fatti. Hai consumato le rotte aeree e le autostrade (vabbé, si fa per dire) per muoverti fra quei centri che producevano notizie, quasi sempre della stessa specie, perché il Sud interessa solo quando conferma la sua natura di terra e gente perdute e irredimibili (quindi mafia, sprechi, ritardi); il buono, a Sud, è sospetto. Il terremoto ti svela, poi, una miriade di non-luoghi dove il Sud si nasconde: paesi di cui scopri l’esistenza quando il sisma li cancella. Come le vittime degli episodi di cronaca nera: apprendi che c’erano, se qualcuno li uccide; e ne pubblichi il nome, persino la storia! Insomma: dover morire, per certificare la propria esistenza. Poi, accetti inviti, per andare a parlare di Terroni, in paesi di cui apprendi il nome per la prima volta. E il Sud che pensavi di conoscere è solo la parte visibile; l’altro, lo attraversavi per sapere di quello.Fra gli Alburni e i monti di sabbia del Pollino, sopra il Vallo di Diano (residui di un immenso, mobile paleolago), fra le forre e le gole precipiti che salgono dal Cilento nell’interno vuoto; fra le valli larghe della Lucania e del Sannio, dov’è sparsa, in centinaia di chilometri, la popolazione che c’è in una borgata di Roma, un quartiere di Napoli, non dei maggiori… Sono posti da cui non si passa, perché restano ai lati della strada, magari dietro la collina, invisibili; ci va chi ci deve stare; o tornarci, ogni tanto. Posti, da cui si va via. Vedi centri storici bellissimi e abbandonati: le case le regalano, e nessuno le vuole. «Eravano oltre diecimila; oggi i residenti sono la metà; veri, ancora meno: tanti risultano abitare qui, ma sono altrove», ti dicono a San Bartolomeo in Galdo, nel Subappennino Dauno, fra Campobasso e Foggia. Sono i paesi in cui il Sud che si vede butta i suoi rifiuti, in ogni senso: dalla miseria all’immondizia. Ai piedi dell’abitato, c’è una discarica nella quale finisce lo schifo che avvelenava Napoli. Non si sa cosa sversino lì, quali veleni; li si vedono scorrere (a decine di litri al secondo, hanno filmato, prima che almeno ricoprissero la discarica), in un affluente del Fortore, che poi riempie l’enorme diga di Occhito e dà da bere a mezzo milione di persone, nel Tavoliere. Nel lago sono comparse alghe rosse, tossiche; la pesca è stata interdetta. Ma chi ne sa? Chi ne parla? A chi interessa? E nessuno interviene sulla discarica; il sindaco ha scarsi poteri. E pure quelli, magari, amputati, come a Casalduni, uno dei due paesi martiri del 1861, rasi al suolo dai bersaglieri di Pier Eleonoro Negri, per fare l’Italia. Il Comune ha accettato di ospitare un colossale centro per il trattamento rifiuti, in cambio di royalties, per rivitalizzare l’economia cittadina. Il centro lo hanno fatto, ci portano la monnezza di Napoli; capita che file di camion, chilometri, attendano per giorni, lasciando scolare veleni nella valle dov’è il paese, con il suo fiume e la cascata. Il veleno è arrivato, i soldi no; e non si sa quando glieli daranno. Sulla carta, il Comune è con le casse zeppe; nei fatti, non ha un euro per pagare i fornitori e rischia la bancarotta. «Falliremo ricchi», dice il sindaco. Una legge apposita gli vieta di pignorare il malpagatore. Tanto chi lo saprà, a chi importa?

Il Sud che fa notizia è libero e pulito (insomma…); qualcuno può vantarsi di aver fatto un miracolo. Non c’è altro da dire; e il Sud che nessuno vede è ridotto a una rete di discariche senza controllo.

Però… Una mezza dozzina ragazzi crea un centro culturale a San Bartolomeo in Galdo; si tassano. «Siamo quattro gatti, ma vieni lo stesso», ti dicono. Hanno ottenuto la sala della biblioteca comunale, sono contenti. Se va bene, ci saranno anche 20-30 persone. Ne arrivano oltre duecento, inclusi i sindaci del paesi intorno. Ci sono i vigili urbani, i carabinieri, il prete e il dirigente scolastico; i giovani con i nonni. Chi è che parlava di apatia? Ti raccontano che i cavatelli con i broccoli qui li fanno come neanche in paradiso; e c’è la casa che nessuno compra, anche se molto comoda, perché c’è il fantasma; e che si sono iscritti alla confraternita della chiesetta sorta sull’antico cimitero, per poterne salvare l’organo del Settecento, farlo restaurare, impedire che sia venduto, come fece un parroco con l’altro organo che era vanto del paese. Colgono un accenno alle altre discariche “sui” paesi dell’interno e sulla necessità di raccordarsi, fare un’indagine insieme, e il giorno dopo sono già all’opera; cercano idee per far ritornare la gente nelle case vuote. Qui, nel paese delle incompiute: l’ospedale è in costruzione da cinquant’anni; la scuola da una ventina, se ho capito bene: è ferma allo scheletro; come la nuova chiesa…

«Vogliamo cominciare cose che giungono al termine», ti dicono questi ragazzi. Il sindaco è un loro coetaneo, ex compagno di scuola. Divisi politicamente, non negl’intenti. Scopri che hanno lauree interessanti, ben prese; alcuni restano qui, a gestire il poco, pur avendo prospettive incomparabili altrove: Altri sono fuori, per il lavoro, ma si sono impegnati a tornare ogni fine settimana, ogni due, a lavorare per iniziative comuni, come risiedessero ancora qui. «Ora completeranno la strada, sarà più facile arrivare». Sono due chilometri (ora di buche e frane), ma a loro sembra il segnale di svolta.

Quelli che vengono a prenderti in Cilento, per portarti sui monti si sabbia ti fanno risalire la valle del Mingardo. Sapete di cosa parlo? Questo era il fiume dei morti, per Virgilio, lo Stige; e lo era anche per Dante, che dai sette gironi di queste gole prese l’idea della conformazione dell’inferno. Qui ci sono la Valle dell’Inferno e la Gola del Diavolo. La fantasia umana attribuisce spesso la bellezza estrema alla perfidia dell’opera luciferina. Le pareti di queste gole sono un sogno o un incubo: poche volte ho visto qualcosa di più bello; quando il fiume sfugge alla stretta rocciosa, si distende, finalmente libero e sinuoso, nella piana, fra pinete e coltivi, mandrie allo stato brado, e la foce presso Palinuro, dinanzi al celebratissimo arco naturale di pietra. A governare, a monte, l’ingresso nell’orrido, l’abitato medievale di San Severino, rudere disabitato. Gioielli sprecati. Non producono lavoro, tranne che sull’intasata fascia costiera, in estate.

E Montesano sulla Marcellana voi sapevate che esiste? Ha più di seimila abitanti, domina il Vallo di Diano e i boschi alle sue spalle, verso il Potentino, più Lucania che Salernitano. Di qui andò via un emigrante che tornò ricchissimo, dall’Argentina, e si mise a costruire chiese, conventi, terme, tutto a sue spese.

Ad animare il posto, un gruppetto di ragazzi tenacemente legati al paese, anche se uno studia a Bologna e organizza manifestazioni musicali; e non è il solo a fare il pendolare, con un obiettivo: avere come base il proprio paese, estrarre lavoro e reddito da quello che c’è. «È tanto, non considerato: storia, cibo buono, posti magnifici e non conosciuti, possibilità di offrirli a prezzi modesti ma remunerativi…». Sono ragazzi che hanno visto mondo, sanno e guardano con altri occhi quello che, a chi è rimasto in paese, sembra privo di valore. «Vendo i pezzi di terra sparsi che appartengono alla mia famiglia, ne prendo uno più grande e ci faccio qualcosa: qui vale la pena venire. Noi ce ne siamo accorti, se ne accorgeranno pure gli altri. Li aiuteremo ad accorgersene».

Non se ne vanno, questi ragazzi; potrebbero, ma tornano, per restare. E se provi, con un pizzico di provocazione, a dire: «Che ci fa uno con la tua preparazione, qui?», ti rispondono che dove tutto sembra finito, si può ricominciare; mentre tanti ancora partono. È un valore che scorgono per contrasto: vedono quello che si è ancora salvato nel loro paese e non quello che si è perso; quello che può diventare, non quello che è diventato; e che, nonostante il declino e lo svuotamento, vi è più di quel che hanno trovato altrove. A parte i soldi.

Pino Aprile


Fonte:
Terroni blog

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Che succede, al Sud, mentre qualcuno ne parla male, senza preoccuparsi di conoscerlo

e qualche altro è distratto dal tentativo di capirlo?

Passi anni a cercare il Sud sulle pagine di chi lo ha studiato, descritto. Hai percorso centinaia di migliaia di chilometri fra le sue capitali, perché è lì che succedono i fatti. Hai consumato le rotte aeree e le autostrade (vabbé, si fa per dire) per muoverti fra quei centri che producevano notizie, quasi sempre della stessa specie, perché il Sud interessa solo quando conferma la sua natura di terra e gente perdute e irredimibili (quindi mafia, sprechi, ritardi); il buono, a Sud, è sospetto. Il terremoto ti svela, poi, una miriade di non-luoghi dove il Sud si nasconde: paesi di cui scopri l’esistenza quando il sisma li cancella. Come le vittime degli episodi di cronaca nera: apprendi che c’erano, se qualcuno li uccide; e ne pubblichi il nome, persino la storia! Insomma: dover morire, per certificare la propria esistenza. Poi, accetti inviti, per andare a parlare di Terroni, in paesi di cui apprendi il nome per la prima volta. E il Sud che pensavi di conoscere è solo la parte visibile; l’altro, lo attraversavi per sapere di quello.Fra gli Alburni e i monti di sabbia del Pollino, sopra il Vallo di Diano (residui di un immenso, mobile paleolago), fra le forre e le gole precipiti che salgono dal Cilento nell’interno vuoto; fra le valli larghe della Lucania e del Sannio, dov’è sparsa, in centinaia di chilometri, la popolazione che c’è in una borgata di Roma, un quartiere di Napoli, non dei maggiori… Sono posti da cui non si passa, perché restano ai lati della strada, magari dietro la collina, invisibili; ci va chi ci deve stare; o tornarci, ogni tanto. Posti, da cui si va via. Vedi centri storici bellissimi e abbandonati: le case le regalano, e nessuno le vuole. «Eravano oltre diecimila; oggi i residenti sono la metà; veri, ancora meno: tanti risultano abitare qui, ma sono altrove», ti dicono a San Bartolomeo in Galdo, nel Subappennino Dauno, fra Campobasso e Foggia. Sono i paesi in cui il Sud che si vede butta i suoi rifiuti, in ogni senso: dalla miseria all’immondizia. Ai piedi dell’abitato, c’è una discarica nella quale finisce lo schifo che avvelenava Napoli. Non si sa cosa sversino lì, quali veleni; li si vedono scorrere (a decine di litri al secondo, hanno filmato, prima che almeno ricoprissero la discarica), in un affluente del Fortore, che poi riempie l’enorme diga di Occhito e dà da bere a mezzo milione di persone, nel Tavoliere. Nel lago sono comparse alghe rosse, tossiche; la pesca è stata interdetta. Ma chi ne sa? Chi ne parla? A chi interessa? E nessuno interviene sulla discarica; il sindaco ha scarsi poteri. E pure quelli, magari, amputati, come a Casalduni, uno dei due paesi martiri del 1861, rasi al suolo dai bersaglieri di Pier Eleonoro Negri, per fare l’Italia. Il Comune ha accettato di ospitare un colossale centro per il trattamento rifiuti, in cambio di royalties, per rivitalizzare l’economia cittadina. Il centro lo hanno fatto, ci portano la monnezza di Napoli; capita che file di camion, chilometri, attendano per giorni, lasciando scolare veleni nella valle dov’è il paese, con il suo fiume e la cascata. Il veleno è arrivato, i soldi no; e non si sa quando glieli daranno. Sulla carta, il Comune è con le casse zeppe; nei fatti, non ha un euro per pagare i fornitori e rischia la bancarotta. «Falliremo ricchi», dice il sindaco. Una legge apposita gli vieta di pignorare il malpagatore. Tanto chi lo saprà, a chi importa?

Il Sud che fa notizia è libero e pulito (insomma…); qualcuno può vantarsi di aver fatto un miracolo. Non c’è altro da dire; e il Sud che nessuno vede è ridotto a una rete di discariche senza controllo.

Però… Una mezza dozzina ragazzi crea un centro culturale a San Bartolomeo in Galdo; si tassano. «Siamo quattro gatti, ma vieni lo stesso», ti dicono. Hanno ottenuto la sala della biblioteca comunale, sono contenti. Se va bene, ci saranno anche 20-30 persone. Ne arrivano oltre duecento, inclusi i sindaci del paesi intorno. Ci sono i vigili urbani, i carabinieri, il prete e il dirigente scolastico; i giovani con i nonni. Chi è che parlava di apatia? Ti raccontano che i cavatelli con i broccoli qui li fanno come neanche in paradiso; e c’è la casa che nessuno compra, anche se molto comoda, perché c’è il fantasma; e che si sono iscritti alla confraternita della chiesetta sorta sull’antico cimitero, per poterne salvare l’organo del Settecento, farlo restaurare, impedire che sia venduto, come fece un parroco con l’altro organo che era vanto del paese. Colgono un accenno alle altre discariche “sui” paesi dell’interno e sulla necessità di raccordarsi, fare un’indagine insieme, e il giorno dopo sono già all’opera; cercano idee per far ritornare la gente nelle case vuote. Qui, nel paese delle incompiute: l’ospedale è in costruzione da cinquant’anni; la scuola da una ventina, se ho capito bene: è ferma allo scheletro; come la nuova chiesa…

«Vogliamo cominciare cose che giungono al termine», ti dicono questi ragazzi. Il sindaco è un loro coetaneo, ex compagno di scuola. Divisi politicamente, non negl’intenti. Scopri che hanno lauree interessanti, ben prese; alcuni restano qui, a gestire il poco, pur avendo prospettive incomparabili altrove: Altri sono fuori, per il lavoro, ma si sono impegnati a tornare ogni fine settimana, ogni due, a lavorare per iniziative comuni, come risiedessero ancora qui. «Ora completeranno la strada, sarà più facile arrivare». Sono due chilometri (ora di buche e frane), ma a loro sembra il segnale di svolta.

Quelli che vengono a prenderti in Cilento, per portarti sui monti si sabbia ti fanno risalire la valle del Mingardo. Sapete di cosa parlo? Questo era il fiume dei morti, per Virgilio, lo Stige; e lo era anche per Dante, che dai sette gironi di queste gole prese l’idea della conformazione dell’inferno. Qui ci sono la Valle dell’Inferno e la Gola del Diavolo. La fantasia umana attribuisce spesso la bellezza estrema alla perfidia dell’opera luciferina. Le pareti di queste gole sono un sogno o un incubo: poche volte ho visto qualcosa di più bello; quando il fiume sfugge alla stretta rocciosa, si distende, finalmente libero e sinuoso, nella piana, fra pinete e coltivi, mandrie allo stato brado, e la foce presso Palinuro, dinanzi al celebratissimo arco naturale di pietra. A governare, a monte, l’ingresso nell’orrido, l’abitato medievale di San Severino, rudere disabitato. Gioielli sprecati. Non producono lavoro, tranne che sull’intasata fascia costiera, in estate.

E Montesano sulla Marcellana voi sapevate che esiste? Ha più di seimila abitanti, domina il Vallo di Diano e i boschi alle sue spalle, verso il Potentino, più Lucania che Salernitano. Di qui andò via un emigrante che tornò ricchissimo, dall’Argentina, e si mise a costruire chiese, conventi, terme, tutto a sue spese.

Ad animare il posto, un gruppetto di ragazzi tenacemente legati al paese, anche se uno studia a Bologna e organizza manifestazioni musicali; e non è il solo a fare il pendolare, con un obiettivo: avere come base il proprio paese, estrarre lavoro e reddito da quello che c’è. «È tanto, non considerato: storia, cibo buono, posti magnifici e non conosciuti, possibilità di offrirli a prezzi modesti ma remunerativi…». Sono ragazzi che hanno visto mondo, sanno e guardano con altri occhi quello che, a chi è rimasto in paese, sembra privo di valore. «Vendo i pezzi di terra sparsi che appartengono alla mia famiglia, ne prendo uno più grande e ci faccio qualcosa: qui vale la pena venire. Noi ce ne siamo accorti, se ne accorgeranno pure gli altri. Li aiuteremo ad accorgersene».

Non se ne vanno, questi ragazzi; potrebbero, ma tornano, per restare. E se provi, con un pizzico di provocazione, a dire: «Che ci fa uno con la tua preparazione, qui?», ti rispondono che dove tutto sembra finito, si può ricominciare; mentre tanti ancora partono. È un valore che scorgono per contrasto: vedono quello che si è ancora salvato nel loro paese e non quello che si è perso; quello che può diventare, non quello che è diventato; e che, nonostante il declino e lo svuotamento, vi è più di quel che hanno trovato altrove. A parte i soldi.

Pino Aprile


Fonte:
Terroni blog

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